19 ottobre 2007

«La borghesia milanese ha fallito: non sa diventare classe dirigente»

Nel 1932 il romanziere scrisse un’invettiva mai pubblicata contro i lombardi: una satira impietosa
«Soltanto chi fabbrica qualcosa è una persona degna»

di Paolo Di Stefano
«Vorrei essere il Robespierre della borghesia milanese», scrisse Carlo Emilio Gadda a un amico all’inizio degli anni Trenta. Era il tempo in cui stava elaborando i celebri racconti destinati a L’Adalgisa. Racconti alla carta vetrata (l’espressione è di Mauro Bersani) contro i suoi concittadini, rei tra l’altro di non riconoscergli il prestigio di scrittore che meritava. Dai racconti antimilanesi è rimasta fuori una vera e propria invettiva cui Gadda attese nel 1932 con il progetto, non andato in porto, di pubblicarla sul Resto del Carlino (dove per altro non risulta sia mai uscito nulla di suo). Ora, questo «tema di lavoro» inedito appare con altri nel nuovo numero, il 5, de I quaderni dell’Ingegnere, la rivista di studi gaddiani diretta da Dante Isella per Einaudi (il numero verrà presentato oggi durante il convegno organizzato a cinquant’anni dal Pasticciaccio, che si tiene fino a domani al Teatro Palladium di Roma e al Comune di Frascati). I toni sono quelli della satira impietosa. Nella nota al testo, Isella parla di «un "excursus" di incontenibili furori». Che oggi sarebbe interessante leggere in chiave di attualità politica. Per esempio di velato antileghismo. Anche se in realtà l’elogio dei meridionali («dalla parlantina disciolta») dotati dell’ingegno che manca ai meneghini sembra più un rimprovero a questi ultimi che non una manifestazione di stima per quelli che altrove saranno «terroni». Il cui pregio è comunque di essere muniti di «potere» e di «forza». A differenza dei milanesi, «gente che sorride di pietà e di superiorità quando parla del governo, ma che è assente da tutte le attività del governo». Ecco il punto: «la virtuosa città», imbevuta di «meschinità celtica», manca di senso dello Stato, di fiera ambizione governativa e guarda solo all’interesse privato. Utilitarismo miope e incolto: pragmatismo dello scaldabagno, delle «fabbriche e le fabbrichette, le officine e le officinette, le maniglie e le manigliette». Viene deriso il mito delle ascendenze dai Celti, di cui i borghesi lombardi hanno conservato solo «il morboso culto della propria supposta intelligenza», ma non il leggendario eroismo, che l’Ingegnere in quegli anni auspicava anche in chiave di nazionalismo fascista. Anzi, «la stirpe chiusa, onesta» di Milano ha i tratti biologici della «pantegana»: e cioè la codardia di chi vuol solo salvare la «cotenna». E non parlate di cultura. Diversamente che al Sud, qui il professore non gode di nessuna considerazione: è «un essere meschino, dalle idee ristrette, incapace di attività e di modernità, che vive del suo Cicerone come il tarlo nella vecchia mensola, che non capisce nulla della vita». È l’attacco sferzante dell’ex supplente di matematica al liceo Parini, ma anche, come ricorda Isella, del figlio di un’insegnante vedova costretta a vagabondare in sedi periferiche. Insomma, non bisogna mai dimenticare, quando si ha a che fare con un tipo come Gadda, la paranoia e il risentimento personale.
«Corriere della sera» del 2 ottobre 2007

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