19 ottobre 2007

La colpa della sinistra: non capire il liberalismo

Nel nuovo libro il filosofo francese mette sotto accusa i progressisti che rifiutano persino il Trattato europeo
Di Bernard Henri Lévy
Bernard-Henri Lévy: «Confonde il mercato con il demonio ed è conservatrice come la destra»
Non basta dire che la sinistra si è sbarazzata della sua prima tentazione totalitaria (comunista) solo per cadere in un’altra che ne prende il posto, occupa il vuoto lasciato e cresce come gramigna che si espande sulle sue rovine e sulle sue vestigia, ma occorre aggiungere questo: in virtù di una nuova astuzia, singolare ma nemmeno senza precedenti nella storia delle idee politiche, il tratto più caratteristico di questa seconda tentazione è che essa attinge la propria ispirazione non più alla sinistra, ma alla destra, se non all’estrema destra o addirittura, come vedremo, al magazzino di accessori della peggiore «ideologia francese». Sì, una sinistra di destra. Letteralmente di destra, in effetti. Una sinistra-ossimoro che dà il capogiro, una sinistra che, se le parole hanno un senso, talvolta è ben più a destra della destra stessa. È questa la situazione in cui oggi si trova chi pretende che le parole abbiano, appunto, un senso e lo conservino. In particolare, è la situazione dell’autore di questo libro: trent’anni dopo, voglio dire esattamente trent’anni dopo la «Barbarie dal volto umano» che già si apriva con un’apostrofe, piena di speranza, alla sinistra («È alla sinistra che mi rivolgo; è a lei che parlo perché è la mia famiglia, perché parlo la sua lingua e credo alla sua morale, in mancanza di una sua scienza»); è la stessa situazione, la stessa configurazione di allora: lo scenario si è capovolto ma la lotta continua. ( ) Il primissimo sintomo di tale capovolgimento, il primo caso flagrante in cui lo vediamo produrre i suoi perniciosi effetti è il singolare successo che ottiene, di questi tempi, la tematica antiliberale. Chiaramente, questa tematica non è appannaggio della sinistra ( ) Ma è della sinistra, innanzitutto, che ho scelto qui d’interessarmi. È dei suoi veleni che ho cominciato, prioritariamente, a redigere l’inventario. E poi sono costretto ad ammettere che, priorità o meno, il male, purtroppo e comunque, è più acuto nella sinistra. Sono obbligato a riconoscere che, fin dalla sua epoca marxista, la nostra sinistra ha gettato una sorta di fatwa sul termine di liberalismo e che, come accade con le fatwa, purtroppo non l’ha minimamente cambiata anche quando il marxismo si è spento: dai neocomunisti che fanno del liberalismo quasi un sinonimo di fascismo ai dirigenti di Attac che ci spiegano, nel più puro stile da angelo sterminatore, che il loro «obiettivo» è «di estirpare il virus liberale dalle menti affinché le menti possano ricominciare a funzionare normalmente»; dalla «sinistra socialista» che rifiuta il Trattato costituzionale europeo a causa della sua «ispirazione liberale» al Primo segretario del Partito, in linea di principio filoeuropeo, ma che conferma come «il liberalismo sia contraddittorio con lo spirito europeo stesso» c’è da credere che l’antiliberalismo abbia finito con l’imporsi, non solo come slogan, ma come comandamento, orizzonte, programma e sostituto di qualsiasi programma, come minimo comune denominatore di tutte le famiglie di sinistra, come crociata, come speranza. Siamo l’unico Paese al mondo dove, da Besancenot a Fabius, da Hollande a Badiou e agli eredi di Bourdieu, si usa il termine antiliberale come una volta si usava il termine anticapitalista Insomma, capisco bene che il liberalismo di cui ci parlano è supposto coincidere con il liberalismo «economico». So che è un liberalismo al cui proposito i leader socialisti precisano, ogni volta che le loro parole suscitano inquietudine, che non si tratta di liberalismo «in sé», ma soltanto di «neo» o «ultra» liberalismo. Soprattutto so che la maggior parte di loro sono sinceramente convinti di prendersela con il liberalismo allo stesso modo con cui gli altri, gli avversari, i sostenitori della mondializzazione felice, gli apostoli del profitto e della legge della giungla economica, i fautori del commercio che sarebbe al centro d’ogni cosa con le sue dolci mobilitazioni lo usano come uno stendardo. Ma, allo stesso tempo, chi si vuole prendere in giro? ( ) Dimentichiamo pure il problema di sapere se si possano, filosoficamente e tecnicamente, separare così le cose o se i due liberalismi, il politico e l’economico, quello di Constant e quello di Smith, in sostanza non siano legati, non siano il dritto e il rovescio dello stesso scenario, il duplice pistone della stessa macchina che raffredda l’ardore del Leviatano - non è un caso che la parola sia la stessa; la lingua veglia, un poco, sulla ragione degli uomini e sulla verità delle cose; è, come sappiamo, la tesi di Montesquieu nello Spirito delle leggi quando scrive: «Senza libertà economica, la libertà politica è in pericolo», e inversamente. Dimentichiamo quindi tutto questo. Il problema è l’ignoranza insensata della maggior parte di questi Signori quando ci spiegano che il liberalismo è il mercato, mentre in realtà è il contratto. È la stupidità grossolana che fa ripetere, fino all’ebbrezza, che il liberalismo è la giungla, lo stato di natura, l’umanità restituita al regno e alla collera delle cose, mentre per i teorici della scuola di Manchester, per Adam Smith, per Jeremy Bentham o, oggi, per Hayek è, al contrario, lo sforzo di frenare la legge della giungla, uscire dallo stato di natura, inventare norme e regole che permettano di sormontare la lotta di tutti contro tutti ( ) Esaminiamo ora seriamente l’altra grande idea di questa gente, l’idea alla quale sembra che tenga di più. Cioè che lo «Stato liberale» avrebbe due significati distinti e che sarebbe urgente tagliare il nodo dell’ambiguità facendovi passare il buon fendente della critica sociale: prendere il «buono», lasciare il «cattivo»; conservare la libertà, gettare via il liberalismo; conservare, se ci si tiene, il liberalismo, ma solo il suo nocciolo razionale, estratto dal suo involucro ultra; come dicono talvolta, nei loro momenti di lucidità, i più elaborati di questi personaggi: «Non lasciare il liberalismo agli antiliberali». Ebbene, neanche questo si fa. Perfino questo gesto, questo piccolo gesto, questa minuscola battaglia semantico-politica, la sinistra ne parla, ma non la fa. La sinistra che si dà tanto da fare per - le parole sono sue - non abbandonare alla destra la bandiera tricolore o Giovanna d’Arco, che ci stordisce da decenni affinché non si lasci a Le Pen il monopolio del patriottismo e della Nazione, la sinistra che, quando le fa comodo e con il rischio di perdere una parte della propria anima, non ha eguali nel condurre il lavoro di riappropriazione simbolica che le consente (continuo a citare) di disputare all’avversario il terreno dell’insicurezza, del dibattito sulla violenza, sulle periferie, eccetera, su questo terreno rimane muta e come colpita da stupore. Di fronte a un compito che, è il minimo che si possa dire, non è meno essenziale al suo destino e consisterebbe nel dare un senso leggermente più puro a questa parola - destino - che si addice a una tribù che non è più quella di un tempo, ma non è nemmeno, per quanto ne sappiamo, una tribù di guardiani di lager, la sinistra non trova, per la prima volta, nulla da dire A pensarci, si tratta di un fenomeno stupefacente. Di un lapsus, un vuoto di discorso, una distrazione teorica, un diniego - chiamiamolo come si voglia - di cui non si è misurata abbastanza l’enormità.
Traduzione di Daniela Maggioni

Trent’anni dopo i suoi esordi con «La barbarie dal volto umano», il filosofo Bernard-Henri Lévy torna a parlare della Sinistra e della Francia. Lo fa con un volume di 423 pagine, «Ce grand cadavre à la renverse», Grasset, 19,90; in tutte le librerie francesi dal prossimo 9 ottobre. Qui ne anticipiamo un brano.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2007

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