06 novembre 2007

Lassù fra i numeri, dove osano i filosofi

Parla il celebre studioso americano che con le sue ricerche ha rivoluzionato la logica matematica
Di Massimo Piattelli Palmarini
Hilary Putnam: lo scienziato non può limitarsi alle formule
È persona straordinariamente soave in assoluto, ma specialmente se si considera che la sua è una mente dalle lame affilatissime, lame che hanno sezionato irreversibilmente la teoria dei numeri, la logica matematica, la filosofia della scienza e la filosofia della mente. Se non temessi di imbarazzarlo, sosterrei, con persuasivi argomenti, che Hilary Putnam è il più grande filosofo vivente. Ma mi limiterò ad affermare, per riguardo, che è il più grande filosofo vivente di lingua inglese, in particolare in quella vasta specialità che va sotto il nome di filosofia analitica. La lascio definire a lui stesso: «Ci si aspetta dalla filosofia che ci fornisca delle visioni del mondo, ma ci si deve aspettare anche che lo faccia con solide argomentazioni a supporto. "Niente visioni senza argomentazioni" potrebbe essere il motto del tipo di filosofia a cui aderisco». Se dovesse scegliere uno, ed uno solo, dei suoi molteplici contributi, in vari campi, quale sceglierebbe? Senza un attimo di esitazione risponde: «La parte che ho avuto, nei primi anni Sessanta, nel dimostrare un teorema di impossibilità, chiamato in gergo teorema DPRM, cioè Davis, Putnam, Robinson e Matyiasevich». Prima di farci spiegare, a grandissime linee, in che cosa consiste, lo fermo sulla R di quella sigla (ovviamente la P è lui). Quella R è Julia Robinson, studiosa che è tra i massimi matematici contemporanei. Quindi, quella R smentisce il luogo comune che le donne non siano tagliate per fare grande matematica. Sorride e incalza: «Certo, il contributo di Julia è stato fondamentale. Non ce l’avremmo fatta senza di lei, è una matematica di genio. Tanto che stanno realizzando un documentario sulla sua vita, presto accessibile su Internet». Dunque, impossibilità di che cosa, in quel teorema? «Nessun computer, per quanto potente, potrà mai decidere se certe equazioni a coefficienti interi (dette in gergo diofantine, da Diofanto di Alessandria, matematico del III secolo dopo Cristo, uno dei padri dell’algebra) possano o meno avere soluzioni costituite anch’esse da numeri interi». Preambolo. Questo problema era stato lanciato sull’agone mondiale dal matematico tedesco David Hilbert nell’anno 1900, tondo tondo, a Parigi. Era il decimo tra altri ventidue problemi che Hilbert profeticamente dichiarava avrebbero occupato le menti dei massimi matematici nel secolo a venire. Sessant’anni dopo, Putnam e coautori lo hanno risolto. Negativamente, cioè dimostrandolo insolubile, ma anche questa conta come soluzione. Putnam aggiunge che i matematici accademici più vecchi di lui e dei suoi coautori avevano cercato di dissuaderli perfino dal tentare. Aggiunge soavemente, ma persuasivamente: «Non si può nemmeno dire, quindi, che, se noi non lo avessimo risolto, qualcun altro lo avrebbe fatto. Era opinione corrente che non bisognava metterci le mani». Mi spiega quali e quante nuove intuizioni sulla teoria dei numeri e sulla portata di quelle equazioni sono scaturite dal teorema. Ma questo lo lascio dire a un suo antico compagno di università a Filadelfia, tuttora amico personale ed estimatore incondizionato, sebbene in disaccordo con Putnam da oltre vent’anni su questioni filosofiche di fondo, cioè il linguista Noam Chomsky. Chomsky mi dice: «Il mio amico Hilary è persona di eccezionale talento e di indiscussa integrità. Ebbi la grande fortuna di seguire, all’Università della Pennsylvania, un suo corso sulle funzioni numeriche e gli sono ancora grato, dopo tanti anni, di avermi introdotto, in quel corso, alle vette del pensiero matematico, settimana dopo settimana». Affinché il lettore non pensi che tutta l’opera di Putnam sia trincerata dietro astruse formule matematiche, incito Hilary a ricordarsi di un breve suo lavoro della metà degli anni Settanta, molto amato anche da Chomsky. Un’efficacissima critica dell’idea che ogni spiegazione scientifica esauriente di fenomeni concreti della vita reale debba per forza consistere in una riduzione a processi microscopici, ad atomi, particelle e quanti di azione. Putnam ci invita ad immaginare due fori e due sbarrette. Uno dei due fori è circolare e ha, poniamo, un diametro di dieci centimetri. L’altro è quadrato ed ha, sempre poniamo, il lato di dieci centimetri. Una delle due sbarrette è a sezione circolare e ha anch’essa un diametro di dieci centimetri. L’altra è a sezione quadrata, con il lato (manco a dirlo) lungo dieci centimetri. Ebbene, è perfettamente ovvio che la sbarretta circolare può passare entro ambedue i fori (ma sì, ma sì, la limiamo appena un poco ai bordi per farla davvero passare), mentre la sbarretta rettangolare (limatina anche a questa) può passare solamente entro il foro rettangolare. La spiegazione? La geometria ce l’offre, senza esitazione e molto intuitivamente. Un fatto perfettamente fisico, questo, di sbarrette che passano o non passano dentro dei fori. Ma la spiegazione è del tutto astratta, immateriale, geometrica. Non solo, ma la geometria ci dà la spiegazione perfetta, ultima, definitiva. Sarebbe insensato non accontentarci di questa e cercare una spiegazione in termini di atomi, particelle, quanti di energia. Che cosa può aggiungere, trent’anni dopo, Putnam a questo? «Sono stupito che ancora oggi molte persone di grande intelligenza insistano nel voler sempre trovare una spiegazione di tipo ingenuamente riduzionistico. Edward O. Wilson (suo collega ad Harvard, il padre della sociobiologia) nei suoi ultimi libri insiste nel confondere unificazione nella scienza con riduzione ai meccanismi dei livelli inferiori, come se le spiegazioni scientifiche potessero sempre e solo essere unificate in questo modo. Nella fisica contemporanea, invece, l’unificazione è spesso avvenuta grazie a schemi matematici comuni, schemi astratti, non scendendo a esaminare i microcomportamenti delle singole parti che compongono i fenomeni». Fondatore indiscusso della branca della logica chiamata logica induttiva e, di conseguenza, di un vasto fiorire di studi sulla teoria matematica dell’apprendimento, cioè della conferma e della smentita automatica delle ipotesi da parte dei dati, Putnam insiste sul fatto che la scienza vera non si lascia ingabbiare da alcuno di questi formalismi, né i suoi, né quelli di altri. Lapidariamente mi dichiara: «Non mi aspetto che la scienza sarà mai ridotta a una formula o a una procedura puramente formale». Veniamo infine alle teorie della cognizione e della mente, ai suoi lavori più recenti. Insieme a Saul Kripke, Putnam ha sostenuto persuasivamente che i termini delle teorie scientifiche (termini, per esempio, come elettrone, fotone, quark e così via) infilzano effettivamente su una sorta di spiedino rigido ciò a cui fanno riferimento. Teorie scientifiche diverse e tra loro incompatibili, sono in disaccordo, certo, ma parlano degli stessi oggetti. Lo scomparso filosofo della scienza Thomas Kuhn, con le teorie del quale Putnam è in netto disaccordo, sosteneva, invece, che teorie tra loro differenti e antagoniste, definendo i loro oggetti in modo diverso, fanno riferimento ad enti diversi. La parola d’ordine di Kuhn era incommensurabilità. Putnam scuote la testa, e mi conferma il suo disaccordo con questo relativismo filosofico. Eppure ha un momento di esitazione: «La fisica di punta, per esempio la teoria delle stringhe, presenta problemi filosofici delicati. Si è detto che la fisica quantistica ha demolito il realismo. Niels Bohr, per esempio, affermava qualcosa di simile. Ma molti insigni fisici non sostengono più questa ipotesi. La sfida continua, per una filosofia della scienza di tipo astratto, è quella di dare un senso reale alle teorie attuali. Dobbiamo misurarci con gli sviluppi continui di queste teorie, non possiamo isolarci dalla scienza effettiva». Per finire, chiedo a Putnam, simmetricamente, un giudizio sul suo amico ed ex «studente» (in senso lato) Chomsky. «Ci piace discutere animatamente ed essere lealmente in disaccordo, ma bisogna essere ciechi per non riconoscere che Chomsky è un genio e un uomo di integerrima moralità». Il loro comune professore Zellig Sabatai Harris li aveva entrambi influenzati con la speranza di un mondo sociale privo di sfruttamenti economici. Aveva dato loro da leggere le prime opere di Erich Fromm. Una liberazione mentale di cui Putnam conserva ancora il bel ricordo. A differenza di Chomsky, Putnam non è anarchico, ma piuttosto un «socialdemocratico arrabbiato». A differenza di Chomsky, non è più così ottimista sull’avvenire di una società senza sfruttamento.

Amico ed estimatore di Putnam sin dai tempi degli studi universitari, Noam Chomsky (nato a Filadelfia nel 1928) è noto non soltanto per i suoi importanti studi di linguistica, ma anche per le sue prese di posizione polemiche contro la politica estera degli Stati Uniti
Il rivale: Putnam dissente dalle teorie di Thomas Kuhn (scomparso nel 1996), la cui opera principale, «La struttura delle rivoluzioni scientifiche» (Einaudi), sostiene che la scienza non avanza in modo graduale, ma attraverso svolte nette, autentici cambi di paradigma
Un esploratore dei confini fra verità ed etica Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Hilary Putnam (nella foto) è uno dei maggiori studiosi viventi della filosofia analitica. Il 3 novembre, nell’ambito del Festival della Scienza di Genova, Putnam terrà una lectio magistralis su «Scienza e filosofia», che verrà introdotta da Mario De Caro (ore 18, Palazzo Ducale). Il 6 novembre, dalle 9.30 alle 18, presso il Rettorato dell’Università Roma Tre (via Ostiense 159), si terrà un convegno dal titolo «Il futuro della filosofia: in conversazione con Putnam», cui parteciperanno, oltre a Putnam, David Macarthur, Stephen White, Mario De Caro, Massimo Dell’Utri, Piergiorgio Donatelli e Mauro Dorato.
«Corriere della sera» del 29ottobre 2007

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