06 novembre 2007

Mao e le Guardie Rosse, la memoria proibita

Wang Gang esce in Italia: una storia di persecuzioni contro un insegnante «sovversivo»
Di Fabio Cavalera
Un romanzo rompe il tabù sul passato. E sulle atrocità di allora
La Cina non è capace di regolare i conti col passato. È una nazione che guarda al futuro, rapita dal miraggio del benessere, ma che si fa assalire dalla paura di rileggere la pagine più problematiche della sua storia recente. Un atteggiamento mentale diffuso: non confinato nella autoritaria élite politica che la governa, piuttosto un sentimento condiviso nella società, parte caratterizzante dell’essere cinese oggi, del cittadino cinese che si apre al mondo ma non si apre a se stesso perché preferisce curare in silenzio le ferite, tenere il dolore nascosto e spenta la memoria del secolo. Non è la rassegnazione che ha placato le emozioni e nemmeno l’accettazione degli eventi che ha domato la ragione. È che l’uomo non si ferma a riflettere, semmai cammina lungo il sentiero di una trasformazione lenta. Allora: perché pensare a ciò che è avvenuto ieri se io vivo per il domani e già nel domani? È l’etica di un popolo che - per usare le parole del sinologo francese François Jullien - potremmo definire «un altrove del pensiero». Quando la Cina volge lo sguardo agli anni della guerra civile e della ascesa al potere di Mao, al lungo dominio esercitato dall’Imperatore rosso e ai capitoli fondamentali che hanno segnato la sua dinastia - sia che ciò avvenga con i toni propagandistici di un’ideologia che ha perso la forza della sorpresa e della innovazione e che si è rivelata giustificazione dell’opprimere, sia che ciò avvenga con fredda e veloce rivisitazione alla quale i circoli accademici sono talvolta costretti - si coglie il fastidio di un esercizio che non è considerato espressione di cultura ma rottura del regolare corso della natura: è la stabilità che viene violentata, è la continuità di una grande civiltà messa in discussione, è l’armonia suprema del cielo spezzata. Del tragico Balzo in Avanti, la conversione dall’agricoltura alla industrializzazione pesante che fra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 portò alla carestia e costò milioni di morti per fame, della sanguinosa rivoluzione culturale scatenata da Mao per sbarazzarsi di chi, fra i suoi compagni di lotta, aveva compreso quale piega stavano assumendo le visioni del Presidente, ne parliamo o discutiamo più noi in Occidente, che in cinesi in patria. I quali, specie i giovani, sanno poco o nulla della storia, vittime della rimozione, testimoni del presente e protagonisti del futuro mai, però, eredi del passato. Che è un’ombra lontana. La rivoluzione culturale è stata un insieme tumultuoso di drammi, che ha coinvolto milioni di persone: dove sono finite queste persone? Hanno pagato, giustamente, i quattro fanatici della Banda di Shanghai con la collerica Jiang Qing a capeggiarla, ma le guardie rosse che avevano terrorizzato la Cina, che l’avevano spogliata delle sue residue forze e risorse, che avevano distrutto il patrimonio rimasto della sua arte e della sua cultura, sono sparite, inghiottite nel nulla, riassorbite dal sistema. Tutti hanno voluto dimenticare. La Rivoluzione Culturale resta sullo sfondo, qualcosa da non evocare. Perché se lo si facesse occorrerebbe ripensare la figura di Mao, trattarlo per ciò che è stato, un despota, dopo che aveva saputo mobilitare l’orgoglio di una nazione ritrovata. Si capisce lo scandalo che crea un intellettuale quando si appropria delle sue libertà per affrontare un capitolo così delicato quale è la revisione del maoismo. Wang Gang è uno scrittore che in Cina, con il libro dal titolo «English» (ora in distribuzione in Italia per Neri Pozza, lo sarà anche per Penguin in Inghilterra, poi in Francia e Germania), storia del rapporto fra un adolescente e un professore d’inglese che avvicina gli scolari alla cultura "nemica" dell’Occidente e del capitalismo, ha sollevato un bel caso. L’ambiente è la provincia dell’Ovest, lo Xinjiang, e il tempo della trama è proprio quello della rivoluzione culturale quando insegnare la lingua straniera era un attività sovversiva. Un romanzo molto bello che raccoglie il peso di un’epoca e delle follie che l’hanno sconvolta. Wang Gang era un ragazzino e la sua colpa, pagata con l’ostracismo oggi della Associazione Nazionale degli Scrittori, è di avere raccontato, con linguaggio forte e con ironia, ciò che i suoi occhi riuscirono a fotografare: andava a scuola e in classe i ragazzi con il libretto rosso in mano si accanivano sugli insegnanti, intellettuali borghesi e di destra, lui stesso una volta ne fu partecipe con il fratello. «La maggioranza dei miei colleghi - dice Wang Gang che abita a Pechino - per compiacere il regime parla della rivoluzione culturale addirittura con nostalgia o con distacco. Io no, mi rifiuto. Occorre che le nuove generazioni dei cinesi sappiano bene che cosa è capitato in questo Paese e chi ne è stato il responsabile». Il libro è uscito due anni fa, ha veduto 150 mila copie, ha preso un premio a Taiwan e solo allora la censura si è accorta della pubblicazione: «Quelli non leggono i romanzi, si preoccupano di Internet, dei giornali, della televisione, del cinema. Ma dei libri poco, salvo poi correre ai ripari». Wang Gang è rimasto in silenzio otto anni, soffocando l’idea di narrare una pagina della Cina moderna. Ha ritenuto alla fine che il dovere universale di un intellettuale non è fuggire o compiacere o nascondersi ma raccontare ciò che al potere non piace: in Cina è quel periodo nel quale «noi eravamo tutti magri stecchiti, l’uomo del ritratto era invece bello grasso, essendo il presidente Mao». Ecco lo scandalo: in Cina il passato fa paura, meglio lanciarsi nel futuro e nel miracolo dei numeri dell’economia. Altrimenti va in frantumi il Mito. E il tempo non è ancora quello giusto.

Il libro di Wan Gang, « English», è edito da Neri Pozza, pagine 384, 18. L’autore (nella foto di Ferdinando Rollando) racconta gli anni tragici della Rivoluzione culturale in Cina dal punto di vista di un insegnante non convenzionale, che cerca di fare apprendere agli allievi le lingue straniere, allora considerate materia proibita
«Corriere della sera» del 25 ottobre 2007

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