04 novembre 2007

Solovki: gulag, memoria sotto chiave

di Marine Fauve
Due ore di volo da Mosca, poi una notte di battello… E all’improvviso quel punto dorato in mezzo al Mar Bianco: è una delle isole Solovki che drizza la cupola del suo monastero. Ma è come per fuggire da una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo: il gulag. «La natura è superba, si va in bicicletta, si va a pesca, si visita il monastero… Quasi si passa accanto alla storia senza accorgersene», si spaventa Grigori, 52 anni. «E tuttavia quest’orrore è rimasto scolpito. Sappiamo che qui sono stati detenuti centinaia di migliaia di russi, e molti sono morti. In ogni famiglia si porta il segno del gulag».
Isole Solovki, il primo gulag, costruito nel 1923: qui si concentra il disagio della Russia nel guardare al passato. Qui solo un piccolo museo allinea fotografie di ingegneri, ufficiali o letterati che furono deportati, citando talvolta la data della fucilazione.
Nessuna immagine di fame, di esecuzioni, di uomini sofferenti. Più lontano, un percorso acciottolato sulla collinetta di Serkina conduce a una chiesa trasformata all’epoca in luogo di detenzione punitivo. Da un lato, un superbo panorama; dall’altro, una ripida scalinata in fondo alla quale si trova la morte: vi precipitavano i fucilati, e gli operai esausti che venivano fatti rotolare attaccati a dei tronchi. Oggi una croce ortodossa e qualche candela impongono il raccoglimento. Ma, anche qui, nessuna lapide.
È come se questo episodio non sopportasse di essere spiegato nei luoghi in cui fu vissuto, e fosse compito della letteratura occuparsene. Non è forse raccontando quegli anni di orrore trascorsi sulle isole Solovki che Alexander Solzenicyn – detenuto per otto anni – aveva rivelato all’Occidente la macchinazione staliniana? L’«arcipelago del Gulag cominciò così la sua esistenza maligna, e presto avrebbe avuto metastasi in tutto il corpo del paese», scrisse nel libro che scosse il mondo nel 1973. «Le persone non riescono a raccontare gli anni passati qui, è un episodio doloroso per tutti», spiega Sergueï, pescatore nato sull’isola.
La visita di Putin, all’inizio del suo primo mandato, ha dato il tono incoraggiando il restauro del monastero. Tuttavia le isole Solovki restano il simbolo di tutte le repressioni sovietiche. Ne è prova il fatto che a Mosca il luogo che le commemora è segnato da una pietra proveniente da queste isole e posta davanti agli uffici del Kgb (oggi Fsb), nei cui sotterranei molti 'traditori' sono morti a causa della tortura e dei proiettili. Oggi molti documentari e il lavoro degli storici hanno permesso a numerose famiglie di ritrovare tracce di parenti scomparsi all’improvviso. Nel gennaio del 2006 la televisione russa ha persino diffuso per la prima volta Il Primo Cerchio, un adattamento del romanzo di Alexander Solzenicyn, vietato in epoca sovietica.
Eppure un recente avvenimento mostra che niente è risolto. L’annuncio, lo scorso luglio, dell’apertura degli archivi staliniani avrebbe dovuto suscitare la soddisfazione delle famiglie umiliate, e la speranza dei ricercatori di svolgere un lavoro complessivo sui gulag, dove sarebbero morti dai 18 ai 20 milioni di persone tra il 1929 e il 1953 (anno della morte di Stalin). In realtà gli archivi saranno aperti solo a quei discendenti delle vittime che potranno identificarsi come tali. Per di più, non sarà trasmesso alcun dato riguardante gli 'informatori', quei vicini o amici che denunciarono i 'nemici del popolo'. «Al massimo livello dello Stato, si crea un clima che non incoraggia a guardare il passato», riconosce Nikita Petrov dell’associazione Memorial, che lotta per la riabilitazione delle vittime del comunismo.
Come si spiega che lo Stato russo, ad oggi, non abbia costruito alcun monumento ufficiale, e che a malapena versi i risarcimenti? Se infatti Memorial ha pubblicato una lista di un milione e mezzo di persone 'vittime del terrore', da parte delle autorità non c’è stato alcun censimento. In questo difficile lavoro di memoria rimane il 30 ottobre, giornata di commemorazione delle vittime della repressione politica, che ha visto molti ritrovarsi con domande su quel passato tragico. «A sette anni ero già una nemica del popolo», ricorda Vanda Khlebinskaia, che partecipa ogni anno. «Ci arrestarono alle quattro del mattino, mia madre, i miei due fratelli e mia sorella». Fu l’inizio di diciotto anni di deportazione, in gran parte in Siberia, in mezzo a tempeste di neve glaciali. «Tutti i giorni vedevamo gente morire attorno a noi. E oggi si resta con le domande: chi denunciò mio padre? Come venne arrestato? E che cosa ricorderà la Russia di tutto ciò?». Vanda, che oggi ha 73 anni, è stata riabilitata nel 1962. Per quegli anni di deportazione riceve oggi dallo Stato 350 rubli al mese (10 euro), che si aggiungono ai quattromila rubli (115 euro) della pensione. «Per comprarci il pane – dice – senza il companatico».
«Avvenire» del 4 novembre 2007

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