31 dicembre 2007

Una bambina contro Stalin

In tv La storia del dirigente pci denunciato come spia fascista da alcuni compagni: prima salvato da Gramsci, morì fucilato nel ‘38
di Valerio Cappelli
Fiction sul comunista Gino De Marchi Ucciso in Urss, sua figlia «svelò» il delitto
La sua «Resistenza» è durata tutta la vita. Era una ragazzina di 13 anni, Luciana De Marchi, quando decise di cercare suo padre. Gino De Marchi era un militante del partito comunista. Nel 1921 fu arrestato con l’accusa di essere una spia fascista nell’Unione Sovietica. Liberato per intervento del suo amico Antonio Gramsci, finì di nuovo nei guai fino alla morte per fucilazione nel 1938. Fu denunciato dai comunisti italiani, alcuni erano suoi amici. La sua vita è stata un romanzo. Ne sarà tratta una fiction in due puntate che il regista Alberto Negrin col produttore Carlo Degli Esposti stanno trattando con Raiuno. Luciana si esprime in un italiano accidentato. È una donnina minuta di 80 anni. È nata in Russia, sposata con una figlia, vive tra Mosca e Fossano, in provincia di Cuneo, il paese del padre: «Sognavo di conoscere la sua famiglia». Lo ama ancora come se fosse vivo, i ricordi sono intatti, 69 anni dopo. Mentre non sembra incuriosita su chi sarà chiamata a interpretare lei, ha le idee chiare sul volto di Gino: «Fiorello mi ricorda mio padre, spiritoso, un talento multiforme, anche lui cantava, ballava. Vorrei che fosse lui il protagonista». «Vedo bene anche Pierfrancesco Favino, il fascino, la dolcezza, l’umanità», dice il regista. Serviranno tre attrici per coprire l’intero arco di vita di Luciana. Per il periodo di mezzo, quello della ricerca ossessiva, si pensa a Nicole Grimaudo o a Raffaela Rea. Il film è tratto dal bel libro che Gabriele Nissim ha scritto per Mondadori su questa vicenda: Una bambina contro Stalin. Nella trasposizione sullo schermo sarà aggiunta una parola: Una bambina italiana contro Stalin. Nissim e Luciana sono stati ricevuti al Quirinale dal presidente Napolitano: «Aveva letto il libro, interveniva, era interessato alla questione dei delatori». Napolitano e Fassino a sinistra hanno rotto il silenzio colpevole dell’ex partito comunista. A Torino negli anni Venti c’era stata l’occupazione delle fabbriche. Le organizzazioni giovanili comuniste avevano nascosto delle armi. Gino viene beccato, sotto torchio rivela il nascondiglio di due mitragliatrici e fa il nome di un complice sfuggito ai carabinieri. «Un errore di gioventù - dice Nissim - che va inquadrato nel clima dell’epoca. I militanti torinesi lo considerano un traditore, una spia». Si fa strada l’idea del nemico infiltrato, si monta un castello ideologico. Il partito lo manda in punizione a Mosca, dove viene subito arrestato «per ordine del partito comunista italiano». Dopo l’intervento di Gramsci viene mandato al confine nel Turkestan. Va a lavorare in una comune agricola, chiede di tornare nel partito e di essere riabilitato ma non è ritenuto affidabile, gli resta come una zecca il marchio della spia. «La tragedia umana - dice la figlia - è che mio padre era apprezzato nel suo vero lavoro, regista di documentari di propaganda socialista». «Racconteremo questa storia non dall’alto dei Congressi sovietici - dice Alberto Negrin - ma con gli occhi di Luciana, una persona semplice. Dietro la bambina e poi la donna che cerca suo padre, si scopre la tragedia della Russia di Stalin, dalla formica esce fuori il formicaio: i tradimenti, le delazioni, il cinismo». Alla figlia non dicono che è stato fucilato ma scomparso: «È la prassi per non creare scandalo». Luciana manda una lettera a Krusciov, la risposta è che suo padre è morto di peritonite in un gulag. Chiede il certificato di morte: impossibile trovarlo. Con la caduta del Muro, si aprono gli armadi e Luciana scopre la verità. Ma sua madre dov’era, perché l’ha lasciata sola in tutti questi anni? «Si defilò subito per paura, fu convocata dalla polizia segreta. I familiari dei nemici del popolo dovevano fare abiura. Se mia madre non prendeva le distanze poteva essere condannata. Si risposò subito con un’altra persona... A 14 anni andai a vivere da sola, mi mantenevo come maestra d’asilo. Vennero anche da me, minacciarono di rinchiudermi all’orfanotrofio». Ha fatto l’attrice, ma era sulla lista nera e non fece carriera, tenuta sotto controllo dai pretoriani del regime sovietico. Come quel Grigorij Britikov: «Cercò di sedurmi, mi creò difficoltà nel lavoro. Lo conoscevo da quando ero bambina, lo chiamavo zio; più tardi negli archivi scoprii che fu uno di quelli che al processo testimoniarono contro mio padre». Luciana doveva seguire l’esempio di Morozov, l’eroe popolare che denunciando il padre, colpevole d’aver venduto del grano ai contadini ricchi, scelse il partito. «Io rifiutai. Ogni tanto bussavano alla mia porta. Come quella volta che bruciarono la stazione della metro: ha un alibi?, dov’era quel giorno?». Dove trovò la forza a 13 anni di combattere contro il Golia rosso? «Non ero così consapevole, ero trascinata dalla forza dell’amore. Anche se era proibito, ho tenuto tutto con me, lettere, documentazioni, foto. Mio padre era alto, bello. L’ho cercato per tutta la mia esistenza. La sua storia continua a essere rimossa».
«Corriere della sera» del 5 dicembre 2007

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