23 dicembre 2007

Una nonna armena orgoglio e pregiudizio nella Turchia d’oggi

Memorie Fethiye Çetin e il massacro rimosso di un popolo
di Cristina Taglietti
Un segreto custodito fino (quasi) alla morte. Il sangue «corrotto» di un popolo scomparso, cancellato dalla storia, che scorre nelle vene di una famiglia turca apparentemente «normale» e cioè musulmana. Fethiye Çetin, avvocato di Istanbul molto nota nel suo Paese per l’impegno nel campo dei diritti umani, ha raccolto nel suo libro Heranush, mia nonna, una storia privata, che ricorda quella raccontata da Antonia Arslan nella sua Masseria delle allodole, in grado di dare voce al destino di un popolo perseguitato, quello armeno, e in particolare delle sue donne. Una testimonianza diretta di grande attualità oggi che la tragedia armena del 1915 è al centro del dibattito internazionale da quando il congresso americano, per paura della reazione del governo di Ankara, ha rinviato il voto su una risoluzione che definiva «genocidio» lo sterminio degli armeni. Un’azione «immorale, inumana e disonesta» secondo Fethiye Çetin che però condanna anche le risoluzioni adottate dai parlamenti dei Paesi europei perché «finiscono con il rinvigorire il nazionalismo, influendo negativamente sugli sforzi di dialogo e di memoria che in Turchia sto cercando di fare insieme alle persone che la pensano come me». È uno sforzo di memoria anche il libro che comincia quando la nonna di questa battagliera avvocatessa che ha difeso in tribunale Hrant Dink, il giornalista turco-armeno accusato di «insulto all’identità nazionale» per aver parlato di genocidio (e poi assassinato da un estremista), la chiama da parte e le chiede di aiutarla a rintracciare i genitori e il fratello, emigrati in America. La nonna però è reticente, quasi a disagio, e soltanto dopo varie insistenze rivela: «Io non mi chiamo Sher, mi chiamo Heranush. Io non sono turca, sono armena». E così comincia a raccontare del padre Hovannes, della madre Isguhi, dei fratellini più piccoli, Horen e Hirayr, con i quali, fino al 1915, viveva in pace in un borgo di duecentosette case, che si chiamava Habab. Poi «un giorno, nei mesi più caldi e propizi alla crescita del grano, i gendarmi fecero irruzione nel villaggio... tutti i maschi adulti furono legati a due a due e deportati». Tra loro c’erano anche i nonni, due zii paterni e lo zio materno di Heranush. Nessuno di loro fece più ritorno e della loro sorte non si seppe più nulla. La sera stessa il villaggio fu di nuovo preso d’assalto e alcune ragazze che si erano rifiutate di tagliarsi i capelli e nascondere la loro bellezza sotto abiti disadorni furono portate via. A quel punto la madre di Heranush decide di prendere con sé i figli e rifugiarsi in un villaggio vicino, dove abita la cognata. Ma i gendarmi fanno irruzione anche lì e deportano tutti, uomini e donne, compresi Heranush, sua madre e i suoi due fratelli, nella vicina città di Palu. Poi «separarono gli uomini dalle donne e fecero entrare le donne nel cortile della chiesa. Si udirono grida strazianti provenire dall’esterno». Una ragazzina, salita sulle spalle di un’altra per poter guardare oltre il muro, riferì ciò che vide: «Tagliano la gola agli uomini e li gettano nel fiume». Finito il massacro, venne ordinato a tutti gli abitanti rimasti di radunarsi e partire. Così, per i più fortunati, cominciò l’esilio, per gli altri la lunga marcia verso la fine. C’è chi muore di stenti, chi, come la zia di Heranush, si getta nel fiume con i suoi figli. E poi ci sono i bambini strappati alle famiglie e affidati ai loro aguzzini. Come Heranush, che finisce nella famiglia del caporale Hüseyin, uno dei più clementi tra i gendarmi. Trattata un po’come una figlia, un po’come una domestica, Heranush viene ribattezzata Seher, impara velocemente il turco e diventa una muthedi cioè una convertita (in quanto tale sarà sempre una cittadina di seconda categoria). Soprattutto impara ad amare quell’uomo che è stato tra gli oppressori del suo popolo e della sua famiglia e che però gioisce nel sentirsi chiamare papà. «Capii che la nonna non si era mai interrogata su di lui e che mai l’avrebbe fatto», scrive Fethiye Cetin cogliendo l’essenza di un rapporto di amore-odio, dove la vergogna si mescola con il ricordo delle origini e l’istinto di sopravvivenza prevale su ogni cosa. «Queste ragazze mutilate nel cuore e negli affetti, - scrive Antonia Arslan nell’introduzione - all’oscuro della sorte dei loro cari, costrette a diventare donne in un ambiente ostile ed estraneo, si adattano alle nuove condizioni di vita, e come alberi che il vento ha contorto ma non ucciso, fioriscono in creature forti, in rispettate matriarche». La storia di Heranush ha un tardivo lieto fine, la nipote riesce, quando la nonna è ormai morta, a trovare quella parte di famiglia che era fuggita in America e a ricongiungersi con loro. Per molti altri armeni il lieto fine deve ancora venire: «Un primo passo per la riconciliazione nazionale - dice Fethiye - sarebbe l’uscita della Turchia dal negazionismo. Solo dopo questo turchi e armeni potranno vivere in pace».

Fethiye Çetin, Heranush, mia nonna. Il destino di una donna armena, Alet Edizioni, 12,00 €

«Corriere della sera» del 3 dicembre 2007

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