30 gennaio 2008

Vizi e virtù (poche) della "casta stampata"

In un libro di Luigi Bacialli il ritratto impietoso dei reporter: "Una categoria privilegiata che ha perso il senso della misura e della realtà"
di Ferdinando Maffioli
Una volta nei saloon il malcapitato che doveva allietare con le sue note avventori più o meno sobri esponeva timidamente il cartello «Non sparate sul pianista». Oggi sarebbe utile ripetere il segnale all’esterno delle redazioni. Prendere di mira i giornalisti infatti si rivela una granitica abitudine mentale che punta il dito, a prescindere, contro la «casta» (per fortuna il termine si sta inflazionando) dell’informazione. Niente di nuovo, per carità. Già l’esistenzialista Kierkegaard derogava dal suo Aut Aut arroccandosi in un monotematico disprezzo per la categoria dei «notturnisti», come li chiamava lui. Per non dire di quell’illustrissimo collega d’inizio Novecento che, non avendo il coraggio di confessare alla madre che faceva questo mestiere, la rassicurava dicendole che suonava il violino in un bordello di periferia.
L’ultimo «alzo zero» arriva però da dietro le linee ed è il libro di Luigi Bacialli (ex del Giornale) Casta stampata. Vizi, virtù e privilegi dei giornalisti (Mursia, pagine 214, euro 17, prefazione di Massimo Fini). Un attacco frontale, anche se viene dall’ultima di copertina: «Quella dei giornalisti rimane una categoria privilegiata, supponente e mai contenta che, paradossalmente, ha perso il senso della misura e della realtà». Diagnosi che ha l’ottimismo del de profundis e che rende superfluo chiedersi se ci siano posti in rianimazione. Bacialli srotola qui, con lo stile garbato e ironico che gli è proprio, il suo lungo papiro professionale. Da apprendista ventenne alla Notte alla direzione di Indipendente, Libertà di Piacenza, Giornale di Vicenza e Gazzettino. Parte, com’è ovvio, dall’altopiano degli ideali, dove si respira la «miscela» giusta per affrontare la professione, e dove sfila la carovana delle qualità: «Passione, umiltà, curiosità, entusiasmo, gioco di squadra, qualche frazione di cultura e tanto, tanto spirito di sacrificio» (altro che l’obsoleto «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare»).
Il giovane praticante sull’altopiano si trova bene. Anche se il direttore, il grande Nino Nutrizio, lo invita subito a gettare uno sguardo in basso, nel canyon della realtà: «Signor Bacialli, vi immaginate quante copie perderemmo se i lettori, vedendo con i loro occhi i giornalisti, capissero veramente con chi hanno a che fare?». Le virtù, però, evaporano presto e la «casta stampata» finisce col mostrare inevitabilmente la materia umana della sua faccia nascosta (ai lettori): «Pennivendoli impigriti e permalosi, babbioni stanchi e frustrati, lacchè e zerbini sulla rotta fissa poltrona-scrivania-poltrona». Sotto tiro Bacialli mette, e qui è naturalmente il Bacialli direttore, in particolare «gli invidiati speciali», quelli che alloggiano nel «cimitero degli eleganti», gli inviati che aspettano solo di prendere «il primo volo per il prepensionamento». Gente che neppure uno tsunami riesce a smuovere. «Telefonata: “Dovresti andare subito a Londra”. Risposta numero uno: “È appena mancato mio suocero”». E se l’impatto giustificativo è debole, «risposta numero due: “Sono al funerale di una mia vecchia zia”». E ancora: «Un incendio in un albergo di montagna ha fatto molti morti. Risposta: “Cosa vado a fare, le fiamme sono già state domate da un pezzo”».
Insomma, puntando sul «lato tragicomico della professione e sul peggio che il giornalista al lavoro riesce a dare di sé», Baciallino (così lo chiamò Montanelli quella volta che al telefono gli diede involontariamente del «brutto pirla») ha colto l’occasione per togliersi non poche pietruzze dalle sue calzature di lungo corso. Con una rapsodia di aneddoti sui maestri, gli editori, i colleghi intoccabili, i lettori bizzarri o fuori di testa, industrialini e industrialotti, politici, leader più o meno carismatici, su su fino al Papa. Sempre all’interno delle coordinate di un mondo che sembra destinato ad implodere: «Il New York Times ha pronosticato la fine del quotidiano tradizionale nel 2012». Amen.
Resta poco tempo, dunque, per godere del menu dei privilegi: viaggi gratis, regali lussuosi, mutua principesca, mutui agevolati (ma qui Bacialli è meno informato: c’è chi da anni paga il tasso fisso dell’8 per cento), corsie privilegiate per gli acquisti, primari sempre disponibili a fare una visita in caso di necessità. Quanto al potere - lo ricorda Fini nella sua preziosa (e impietosa) prefazione - il discorso è chiuso da un pezzo: «Abbiamo perso la capacità di essere un “contropotere” nei confronti della classe politica: perché nella stragrande maggioranza dei casi ce ne siamo fatti servi».
Allora è proprio così privilegiata la condizione di questa «stragrande maggioranza»? Di quegli «aurei mediocri» che puntellano con impegno, ogni giorno, le strutture redazionali? È davvero sul piedestallo il bracciante della tastiera, la guardia giurata del monitor, il frullatore non stop dei lanci d’agenzia (oltre 80mila a settimana), il forzato cesellatore di titoli e sommari, il servizio d’ordine per extracomunitari della sintassi, il patito (da patire) del doppio turno lavorativo, feriale e festivo? Diciamolo: la maggioranza dei giornalisti l’isola della Casta la può anche circumnavigare, ma non vi sbarca mai.
Ma se anche alla fine ci si rende conto che il continuo affanno del redattore si riduce al biblico «tutto è fumo e mangiare vento», questa professione un vero privilegio ce l’ha. È l’incontro con l’imponderabile che fa lo sgambetto mentre si cerca in tutta fretta di confezionare freschi scampoli di realtà. È il gioco sadico di un refuso che si traveste da istanza metafisica: «Non sembrò del tutto casuale - racconta Bacialli - che in un resoconto del viaggio di Hitler a Roma la “notte primaverile dell’illustre ospite” divenne “la prima notte virile dell’illustre ospite”». Oppure può essere la perdita, non si sa quanto volontaria, di una «t» a trasformare il titolone d’apertura di un quotidiano veneto, «Grande processione per il culto della Vergine», in un happening davvero diabolico. Anche i corrispondenti non disdegnano la metafisica: «Il ladro in fuga fu raggiunto da sette proiettili, di cui solo uno fortunatamente mortale».
Infine c’è «l’anima goliardica», per Bacialli ormai moribonda, che qualche volta spunta prepotente tra un’agenzia e l’altra e ti spinge a fare di una notizia - dopo averla trattata professionalmente - un modico uso personale. Anni fa ci fu l’emergenza dello sbarco degli albanesi in Puglia e in redazione si pensò subito di chiamare il collega, riservato, geloso delle sue cose e non proprio prodigo, che aveva la villa sul litorale ionico. Una fantomatica unità di crisi del ministero degli Interni gli chiese se poteva ospitare per qualche giorno un paio di famiglie di profughi, con prole. Non si seppe mai come riuscì a proteggere il suo sistema cardiocircolatorio, ma non cedette. Nonostante le insistenze - «Prenda almeno i bambini. Come li vuole? Li vuole biondi? Basta un piatto di minestra...» - fu irremovibile. E prima che gli si svelasse lo scherzo aveva già fornito un dettagliato elenco di parenti, amici e vicini che, a suo dire, non aspettavano altro che di accogliere gli sventurati. Ecco, solo in quei momenti il «mestiere» è davvero meglio che lavorare.
«Il Giornale» del 23 gennio 2008

Laici ma intolleranti

Manifesti all’interno della città universitaria «La Sapienza» in segno di contestazione
di Daniele Zappalà
« L’università come luogo di apertura non è minacciata dal sapere reale, fisico, storico o filologico. Ma da una perversione ideologica di questi saperi, oggi spesso di ritorno». È il principale monito valido per tutta l’Europa che il filosofo francese Rémi Brague lancia traendo spunto dagli sconcertanti fatti di Roma.
Professore alla Sorbona di Parigi ma anche a Monaco di Baviera, dove occupa la prestigiosa cattedra intitolata a Romano Guardini, autore di saggi tradotti in tutto il mondo, Brague invita a non abbassare la guardia di fronte ai nuovi estremismi antireligiosi.
Professore, l’ha sorpresa l’esplosione d’intolleranza alla 'Sapienza'?
«Che l’intolleranza miri la Chiesa non mi sorprende. Non la si attacca a causa dei suoi nei, reali – che essa ammette e di cui si rincresce a giusto titolo – o immaginari, ma perché essa rappresenta il bersaglio ideale. Per due ragioni. La prima è superficiale: non si rischia di farsi sgozzare o annientare. La seconda è più profonda: crediamo ancora in modo cieco al progresso e constatiamo che il male non scompare, anzi aumenta. Occorre dunque caricare tutto ciò sulle spalle del passato e trovare un capro espiatorio. Tutte le istituzioni del passato sono scomparse. Tranne due gruppi umani che rivendicano una continuità bimillenaria e che possono essere caricati di ogni crimine: il popolo ebraico e i cristiani. Gli ebrei hanno già pagato, e come! Le Chiese protestanti assumono tutto il passato cristiano, ma chi immagina di rimproverar loro tutto ciò che è avvenuto prima della Riforma? Resta la Chiesa cattolica».
Certi intellettuali atei, come il francese Michel Onfray o gli anglosassoni Richard Dawkins e Christopher Hitchens, rilanciano oggi un anticlericalismo virulento. Un segnale dei tempi?
«Non metterei tutti nello stesso paniere. Fra gli atei militanti, accanto a fenomeni da baraccone, ci sono alcuni autentici intellettuali. E se alcuni si accontentano d’insultare, altri avanzano argomenti, forse deboli, ma che occorrerebbe discutere. Ma il fenomeno più interessante è l’influenza dei più aggressivi fra loro, ben orchestrata dai media, la cui logica propria accentua ancor più il carattere caricaturale delle tesi. Tutto non è spiegato da delusioni personali. Il successo di libri grossolani è spia di un bisogno di odio che è un aspetto dell’odio dell’Occidente, e soprattutto dell’Europa, verso se stesso».
L’ideale di università è associato con l’apertura e la tolleranza. I fatti di Roma, in quest’ottica, appaiono paradossali. Una distorsione legata a laicismo e scientismo?
«L’università è un fenomeno che è nato in Europa e non altrove. Vale la pena ricordare che essa deve la sua esistenza al Papa. Le università medievali erano delle corporazioni che raggruppavano studenti, assistenti e professori, come altre raggruppavano apprendisti, maestri ebanisti, eccetera. Esse poterono sottrarsi alla giurisdizione del vescovo del luogo ponendosi sotto la protezione diretta del vescovo di Roma: è lui il garante dell’autonomia universitaria. Va poi detto che il sapere scientifico è un processo indefinito di approssimazione e di correzione. L’ideologia scientista si crede invece in possesso di un sapere totale e definitivo. Essa immagina soprattutto che la scienza è il solo accesso possibile alla verità. Affermazione che non è più scienza, ma filosofia, e non della migliore qualità».
Gli estremisti di Roma paiono spinti da irrazionalità e paura. L’opposto di quella ragione a cui invita il discorso censurato del Papa. Un Papa che ricorda la forza e la coerenza della ragione fa paura?
«Stalin avrebbe chiesto, durante la guerra: 'Il Papa? Quante divisioni di blindati?' Noi sappiamo bene che non ne ha alcuna. Allora, perché fa paura? Forse proprio perché ricorda la via della ragione alla nostra civiltà. L’università è supposta come la guardiana della ragione e della saggezza. 'La Sapienza' vuol dire questo… Ma essa è ancora fedele a questo compito? Avrebbe per caso già capitolato di fronte alla forza? Non penso soltanto a quelle dell’economia o della politica, pur così reali. Penso soprattutto alla capitolazione volontaria davanti all’opinione secondo cui 'tutto si equivale', dal momento che vi si crede. O davanti ai simulacri di gruppi di pressione liberi di descrivere il mondo o di riscrivere la storia in modo arbitrario».
Dietro gli eventi di Roma, è in gioco anche la democrazia?
«Il Papa doveva parlare alla 'Sapienza' su invito delle autorità legittime di quest’università. Suppongo che esse siano democraticamente elette. Il problema è già interno all’università: imporre le proprie decisioni e non capitolare davanti a qualche agitatore. Se l’università capitola, perché lo Stato, su un’altra scala, dovrebbe far ancora rispettare le sue leggi?».
Queste nuove spie d’intolleranza laicista e scientista sono una novità o richiamano invece fasi storiche precise?
«In Francia come in Italia, si può pensare al XIX secolo della Terza République e del Risorgimento. Allora, lo Stato cercava di contrastare l’influenza del clero sulla società. Ma si trattava anche di una strategia della borghesia per distogliere da sé il malcontento popolare. Si potrebbe anche pensare, in un registro ancora più tragico, al Messico dell’inizio del XX secolo, in cui un regime positivista e anticristiano affogò nel sangue le sollevazioni popolari. Il leninismo e il nazismo volevano entrambi farla finita col cristianesimo. Si consideravano entrambi fondati su una scienza, economica per il primo, biologica per il secondo, storica e sociologica per entrambi. La religione era per entrambi un ostacolo al progresso, sociale per l’uno, razziale per l’altro. Il fatto che si trattasse di pseudoscienze non cambia il fondo del problema. Il fanatismo può pervertire tanto la scienza quanto la religione».
«Avvenire» del 18 gennaio 2008

Intolleranza e laicità

di Giulio Anselmi
Lasciamo parlare il Papa alla Sapienza e ascoltiamo con civile rispetto quello che dirà, liberi, subito dopo, di approvare o criticare le sue affermazioni: l’invito ad andare gli è stato rivolto, nella piena osservanza delle regole, dal rettore e dal senato accademico dell’ateneo romano; Joseph Ratzinger ha tutti i titoli per intervenire in una cattedrale della cultura, come hanno fatto del resto alcuni suoi predecessori, e al pari di altre eminenti personalità. Recenti incidenti, come quelli avvenuti a Ratisbona e in Vaticano, renderanno del resto particolarmente cauti i ghost-writers della Santa Sede e lo stesso Pontefice.
Il caso che ha scatenato qualche decina di professori e un certo numero di studenti contro la visita papale ha tutta l’aria di rappresentare uno di quegli episodi tipicamente italiani che vengono cavalcati con furore ideologico e animo goliardico, al riparo di qualche motivazione strumentale (questa volta è la persecuzione ai danni di Galileo e l’abiura alle sue convinzioni cui lo scienziato fu a suo tempo costretto). Grandi polveroni, senza vera importanza. Tutt’altro rilievo ebbe la visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati, che il Papa polacco utilizzò per chiedere al Parlamento italiano di varare un provvedimento di clemenza in favore dei carcerati.
Ma allora, forse per il carisma di Wojtyla che nessuno ardiva criticare nella fase finale del suo pontificato, forse per il diverso clima politico, furono pochissime e flebili le voci di contestazione per quella che invece aveva il sapore di un’ingerenza. La verità è che nel nostro Paese assistiamo a una crescente invadenza della Chiesa, accentuatasi durante la lunga presidenza della conferenza episcopale da parte del cardinale Ruini. La Repubblica italiana, come hanno rilevato studiosi illustri, da Arturo Carlo Jemolo a Gian Enrico Rusconi, deve fare conti sempre più complicati con l’enorme rilevanza della Chiesa-istituzione e della sua immagine pubblica, in gran parte monopolizzata dalla figura e dal ruolo del Pontefice. La strategia della Chiesa investe gran parte delle sue energie sulla società civile, che si sforza di guidare. E ciò dilata e porta a un livello insostenibile di tensione l’antica questione della laicità dello Stato.
Di fronte a un magistero ecclesiale che, secondo molti, si concentra nella guida dei comportamenti interpersonali, spaziando dalla scuola alla famiglia alla bioetica fino ai temi complessi della genetica (cavalcati con determinazione da quegli efficaci alleati della gerarchia ecclesiastica che vanno sotto il nome di atei devoti) lo Stato vacilla. La Chiesa parla con la voce della certezza: Extra ecclesiam nulla vox. Lo Stato si trova esposto a pressioni di settori importanti dei suoi cittadini che si ispirano alla dottrina cattolica. Misurando la diversa capacità di fornire risposte sulle questioni fondamentali della vita, la Politica indietreggia: per convinzione, calcolo o subordinazione culturale ministri e segretari di partito aderiscono, si sottomettono o traccheggiano.
La complessità di questi problemi - che la posizione del Papa come vescovo di Roma moltiplica in infiniti equivoci - aiuta a capire perché il nostro Paese riesca con fatica a difendere l’equilibrio che si era espresso nella lunga stagione democristiana della Prima repubblica, imperniata sulla pratica conciliante di uno Stato sostanzialmente imparziale in cui nessuno poteva pretendere di imporre agli altri le proprie convinzioni. Chi si afferma laico oggi dovrebbe riflettere sulle ragioni di questo arretramento e, magari, impegnarsi a contrastarle. Senza immaginare laicità militanti alla francese, ma cercando di realizzare condizioni favorevoli alla convivenza. Chi si accontenta di imbrattare la facoltà di Fisica della Sapienza con cartelli in cui si annuncia la «settimana anticlericale» non è un laico. E nemmeno un tardo epigono del laicismo ottocentesco. Ma solo un intollerante pericoloso.
«La Stampa» del 15 gennaio 2008

Alla Sapienza: quanti cattivi maestri …

di Paolo Simoncelli
Chissà se i 67 firmatari che hanno evocato Galileo per impedire al Papa di intervenire alle pur barbose cerimonie d’inaugurazione dell’anno accademico alla 'Sapienza' di Roma, sanno che i primi accusatori dello scienziato furono i suoi colleghi aristotelici dell’Università di Padova che videro tracollare le loro radicate convinzioni sulle sfere celesti, e che rifiutarono di por l’occhio nel cannocchiale per non veder le prove dell’improvvisa vacuità del loro sapere. E che furono questi accademici, ben prima di domenicani e gesuiti, a spostare le accuse contro Galilei dal piano scientifico a quello teologico. Comprensibilmente; con Galilei nasceva infatti il 'revisionismo', metodo di accertamento scientifico del sapere tradizionale acriticamente tramandato.
Chissà quanti dei 67 firmatari seguono quel metodo quando viene applicato alla storia contemporanea con i frutti offerti alla riflessione e alla ricerca da un Nolte o un De Felice, o non piuttosto preferiscono allora gli arcigni inquisitori del dogmatismo ideologico. Ce lo chiediamo intanto noi, dubitando di una loro pronta risposta e di un più comodo sonno (anche della ragione). E c’è da sospettare della persistenza di questo sonno o di una disattenzione costante. Chissà infatti dov’erano quando veniva impedito a De Felice e Romeo e Saitta e Del Noce e Cotta e poi Colletti ecc. di far lezione e diffondere un metodo critico radicalmente antitetico a quello basato sulla violenza ideologica e la sopraffazione fisica? Libertà e metodo, aggrediti chissà se anche da parte di alcuni degli odierni 'difensori', allora non godevano neanche d’una difesa d’ufficio, in pieno silenzio laico (e accademico).
Oggi è difficile evadere dal ripristino (già di per sé sconvolgente) dell’ovvietà, ma va pur detto che è stato arrecato un vulnus profondo al concetto stesso di 'universitas studentium et studiorum', ossia all’insieme centripeta delle forze della cultura, dei saperi, della sinergia intellettuale ecc.
che è forza tradizionale ed esclusiva delle Università pubbliche, dove infatti tiene o ha tenuto lezioni e conferenze anche il padre delle Brigate rosse, Renato Curcio. Alla 'Sapienza' di Roma (che già con equanimità e grande disinvoltura aveva conferito lauree ad honorem, durante la guerra a ministri nazisti come Rust e Funke, e subito dopo la guerra a ufficiali e politici americani come Poletti e Myron Taylor) sono stati presenti a vario titolo noti testimoni di libertà e pace, come Scalzone, Feltrinelli…, ma il Papa no; verrebbe da dire che effettivamente è meglio di no.
Ah, dimenticavamo nella lista, la conferenza di Ahmadinejad alla Columbia University di New York (ma, si obietterà, quella è un’Università americana, privata, per entrare e assistere alle lezioni bisogna pagare una retta alta, mica è italiana e pubblica dove chiunque può entrare e presenziare a lezioni e conferenze; beh, non proprio chiunque).
«Avvenire» del 17 gennaio 2008

L’abilità di sparute minoranze: egemonizzare i ceti intellettuali

Sempre più chiaro che laicità non vuol dire modernità
dDi Luca Diotallevi
Minimizzare la crisi della nostra comunità nazionale non è più un fatto di prudenza, ora è divenuta un’imprudenza. Da Napoli a Roma, non ce la facciamo più a mantenere lo spazio pubblico sgombero da immondizia e ideologia.
La situazione è tanto grave da far sì che la sanzione pubblica delle responsabilità politiche individuali, pur necessaria, non sia neppure la cosa più urgente. Ci sono piuttosto alcune cose che dobbiamo dirci alla svelta. Tra queste c’è che Laïcité e modernità non coincidono. La modernità è istanza di differenziazione, è istanza di relazione e di responsabilità fondate sulla distinzione tra diversi ambiti e codici sociali: ma la laïcité è una pessima risposta a questa istanza.
La laïcité non è distinzione né relazione, ma pretesa da parte della politica di egemonizzare lo spazio pubblico, perseguendo il progetto di una sovranità assoluta per cui 'pubblico' si riduce a 'statale'. Una sovranità che si esprime innanzitutto su ogni forma di legge e di diritto, tutto riducendo alla legge dello stato.
La laïcité non è distinzione né relazione, perché prima ancora che pretesa di negare dignità pubblica al fenomeno religioso, è pretesa di asservirlo ai propri scopi. Non si dimentichi che radici importanti della laïcité sono nell’eresia 'gallicana' e nelle politiche giacobine di sottomissione del clero al servizio dello stato. La laïcité è il culto fondamentalista di una ragione assoluta che vuole giungere ad imporre persino credenze e riti propri, è quella ' seculocracy' ostile al cristianesimo, al sapere critico ed alla democrazia liberale. La laïcité non è distinzione né relazione, perché è negazione del passato e delle radici storiche: utopia pericolosa dell’autofondamento. Insomma, la laïcité non è modernità, perché la modernità non è solo né innanzitutto giacobinismo.
La modernità è anche quella, teoreticamente meno incoerente e ormai quantitativamente prevalente, della religious freedom, è quella che vive nei regimi di libertà religiosa (come quelli anglosassoni, certo, ma anche in contesti come quello italiano in cui la costituzione sancisce la pluralità degli ordinamenti). È la libertà delle società in cui 'pubblico' non è sinonimo di 'statale', dove lo spazio pubblico è variegato perché pubbliche sono politica e scienza, religione, economia e famiglia; società in cui il reciproco limitarsi delle istituzioni nega ogni monopolio e desacralizza ogni potere. Quella della libertà religiosa è la libertà di società in cui la legge ed il diritto non sono solo quelli dello stato, ma innanzitutto quelli delle persone (common law).
In questi regimi, istituzioni religiose e politiche non si minacciano assoggettamenti né si risparmiano critiche. Mentre per la laïcité il 'muro di separazione' tra religione e politica coincide con quello tra privato e pubblico, nei regimi di libertà religiosa quel muro corre attraverso lo spazio pubblico, come il muro che separa politica da economia.
Nella coscienza di queste società non è negata la memoria. La coscienza storica ricorda invece che le radici permanenti delle società aperte stanno anche nelle tradizioni ebraico-cristiane. La Chiesa cattolica, dal canto suo, ha dato voce col Concilio a questa responsabilità per la libertà religiosa, sancendo nella Dignitatis Humanae i principi insieme cristiani e moderni del 'non obbligare, non impedire' e della distinzione tra diritto e morale.
Non smettiamo di parlarci perché la gravità del momento non risiede nel fatto che la opinione pubblica italiana abbia dubbi sul valore della religione, anche pubblico. Il pericolo sta nella capacità mostrata da sparute minoranze di egemonizzare i ceti intellettuali. Sarà un caso, ma ancora una volta la sconfitta della libertà accompagna la sconfitta della maggioranza.
«Avvenire» del 17 gennaio 2008

Uomini adatti alla fuga davanti al Papa dialogante

In quei 67 docenti un deficit di coraggio
di Davide Rondoni
Una volta si diceva che la miglior difesa è l’attacco. Ma poiché il coraggio, come insegnava Manzoni, uno da solo non se lo da, i vili più spesso scelgono la fuga come modo per salvare le penne, anche a costo di lasciare sul campo la dignità. È quel che successo al robusto manipolo di 'coraggiosi' docenti de La Sapienza che han deciso di fuggire dal confronto con la parola di Benedetto XVI. Poiché di questo si è trattato.
Mandando avanti fumosi documenti, la minaccia di fumogeni, mandando avanti le teste affumicate da vecchi slogan di pattuglie di ragazzi sempre replicanti sogni invecchiati di costoro, hanno coperto la loro fuga. Benedetto XVI ha preso atto che costoro hanno costretto l’università La Sapienza alla fuga.
Tale viltà segnala un deficit non solo di laicità e di senso istituzionale e storico; soprattutto segnala paura e irresponsabilità. Due caratteristiche che in un ricercatore stanno come a un calciatore la lentezza e il piede a banana. La paura è quella che non accetta l’ospite. Lo lascia fuori dalla porta poiché teme che possa turbare il castelluccio di convinzioni e il tran tran di un piccolo potere.
L’irresponsabilità - che è più grave - è quella speciale viltà per cui si preferisce evitare di dare risposte alle urgenze, alle scoperte e alle novità del reale, e ci si limita nel cerchio tranquillizzante della propria ideologia, o della propria strategia di carriera. Una irresponsabilità dinanzi alle nuove acquisizioni della scienza - quelle sulla cui base Benedetto XVI sta richiamando tutti a uno sguardo umano e attento alla vita della persona. E una irresponsabilità dinanzi ai giovani che invece di essere introdotti al senso critico della realtà, considerandola il più largamente e profondamente possibile, vengono educati a slogans e a semplificazioni. È il viver come bruti, denunciato da Dante. Il documento dei Professori - che non passerebbe un serio esame di ammissione a qualsiasi Facoltà - e le successive dichiarazioni di alcuni, denunciano la vile attitudine a non entrar in 'mare aperto', nel merito delle questioni, preferendo buttare addosso all’interlocutore da cui si fugge una serie di luoghi comuni, di riduzioni che non solo mancano di rispetto ma, il che è quasi più grave in sessantottini di lungo corso, mancano di fantasia.
Sappiamo dalle statistiche che La Sapienza è al 150° posto per qualità, e un motivo ci sarà. In tale declassamento un peso lo deve avere anche questo tipo di viltà irresponsabile. Che convivendo con l’impegno ammirevole di tanti docenti, stavolta è emersa con la sua grigia e buffa divisa di gendarmi in fuga, e che nutre una ragnatela continua, dentro e fuori le aule. Questo non è un problema per il Papa, ma per l’Italia.
Nessun ragazzo, nessun intellettuale minimamente dotato di libero cervello presume che il Papa oggi abbia altra forza se non la persuasività del suo pensiero e della testimonianza dei cristiani. Solo un occhio offuscato può descrivere l’Italia in preda a falangi oscurantiste vaticane sui media e nelle aule politiche. Il fatto è, invece, che uomini liberi, credenti e non, menti aperte e ragazzi vivaci vedono in Benedetto XVI uno dei riferimenti più alti e sinceri con cui paragonare esistenza e scelte. E questo fa paura a chi invece cerca una supponente, cieca tranquillità. Si tratta di un eroismo da pantofolai, abituati alle coccole di media e di tribuni. Uomini adatti alla fuga di fronte a un Papa come di fronte alla realtà.
Ma, come hanno sempre scritto i poeti, la realtà è testarda. E si ripresenta, cercando uomini avventurosi, non vili.
«Avvenire» del 17 gennaio 2008

Quell’idea malata di laicità

Giornata nera per l’Italia
di Francesco D’Agostino
Una giornata «nera», quella in cui Benedetto XVI ha declinato l’invito fattogli dalla Sapienza. Nera per quegli studenti, contestatori attardati, che hanno creduto con le loro provocazioni di contribuire alla crescita politica e culturale del loro Ateneo. Nera per quei docenti che avevano protestato contro l’invito fatto al pontefice dal loro rettore e che non solo non sono riusciti a dare una sia pur minima adeguata motivazione alla loro insofferenza ideologica, ma che al contrario hanno dato prova di scarsa informazione e della incredibile povertà del loro orizzonte epistemologico. Nera per la Sapienza, la maggiore Università del nostro paese e la più nota all’estero: l’immagine di intolleranza che ha dato di sé non può che comprometterne ulteriormente il prestigio, già da tempo vistosamente deteriorato. Nera per tutto il nostro Paese, che continua ad offrire al mondo un’immagine negativa di sé, aggiungendo alle sue tante pecche quella dell’incapacità di porsi in libero ascolto di una delle poche voci, come quella del Papa, capaci oggi di creare cultura (perché è proprietà della cultura vera e viva attivare dibattiti, polemiche, approfondimenti, confronti di intelligenze, come appunto sistematicamente fanno le prese di posizione di Benedetto XVI).Ma soprattutto una giornata nera per la laicità, e per la laicità italiana in particolare, che ha rivelato all’improvviso (e per molti inaspettatamente) tutta la sua debolezza intrinseca, tutta la sua fragilità. Ezio Mauro, direttore di 'Repubblica' ha usato un’espressione ancora più forte: l’idea (di laicità), nel nome della quale si è riusciti a ostacolare l’ingresso del Papa alla Sapienza, sarebbe un’'idea malata'. Se è vero (come dubitarne?), questo è qualcosa che ci deve accomunare nella costernazione, credenti e non credenti: perché la laicità (lo ripetiamo da sempre!) è un valore umano e cristiano fondamentale, che deve stare a cuore in pari misura a tutti. Laicità infatti è percepire e rispettare fino in fondo il più grande dono che Dio abbia fatto all’uomo: quello di poter giudicare le cose 'terrene' con la propria testa, affidandosi al buon uso della ragione, operando per il bene umano oggettivo, che non è un bene esclusivo dei credenti, ma un bene che va difeso e promosso da tutti e per tutti. Quando la laicità 'si ammala' tutti inevitabilmente ne soffrono.
È possibile che la laicità italiana 'guarisca'? Deve essere possibile, perché è necessario, necessario, per il bene di tutti. Ma non si tratterà di una guarigione né facile, né rapida. Per risanare l’idea di laicità si chiede ai 'laici' un grosso, anche se non difficile, sforzo di onestà intellettuale: si tratta semplicemente di riconoscere che se esiste una laicità 'malata', è perché si può - e, ripeto, si deve - ipotizzare l’esistenza di una laicità 'sana'.
L’espressione 'sana laicità' appartiene da tempo al linguaggio della Chiesa ed è stata a volte oggetto di incomprensione, se non di irrisione: ma mai come oggi essa appare in tutta la sua immediata evidenza. È 'sana' la laicità, che resta fedele ai propri fondamenti: il buon uso della ragione, il dialogo, la rinuncia ad ogni sopraffazione e intimidazione intellettuale, il rispetto per i diritti umani fondamentali e in particolare per la libertà religiosa. È 'sana' quella laicità che, se da una parte esige che le cose terrene siano gestite senza pregiudiziali confessionali, dall’altra riconosce però senza timidezze e senza ambiguità l’immenso contributo della religione (e in particolare, nel nostro Paese, del cristianesimo) alla civiltà e al bene umano. Senza questi riferimenti vitali la laicità 'si ammala' e si trasforma in intolleranza, pregiudizio, dogmatismo e, all’estremo, in violenza.
È troppo chiedere a quei laici (per fortuna non pochi!), che stigmatizzando la vicenda della Sapienza, hanno salvato la dignità della loro visione del mondo, di 'fare ancora uno sforzo' per sciogliere definitivamente quanto di patologico si annida nel laicismo italiano?
«Avvenire» del 17 gennaio 2008

Il legame tra contraccezione e aborto

La diffusione dei metodi di contraccezione ha di fatto aumentato l'uso dell'aborto come metodo di controllo delle nascite in tutto il mondo. Lo dicono i dati
di Assuntina Morresi e Eugenia Roccella
Meno bambini, sì, ma anche meno aborti. In Italia il ricorso all'aborto è in calo da anni: più sensibilmente se guardiamo i numeri assoluti, molto meno se si considera il rapporto tra gravidanze interrotte e gravidanze portate a termine.

I dati lo confermano: l'aborto è il metodo anticoncezionale più usato al mondo
La tendenza italiana sembra confermare che la diffusione dell'informazione sessuale, l'abitudine all'uso di anticoncezionali, l'emersione dell'aborto dalla clandestinità grazie a una legge abbastanza buona, abbiano prodotto il risultato sperato. Lo ha scritto su queste pagine (Il Foglio del 18/10/05) anche Luigi Manconi, in polemica con Giorgio Israel su un possibile paragone tra la pratica di massa dell'interruzione di gravidanza e la Shoah: "Rispetto ai primi anni Ottanta il tasso di abortività registra una riduzione percentuale di - 44". Manconi non specifica, ma la cifra che riporta si riferisce esclusivamente al caso italiano. I dati internazionali dicono tutt'altro. Dicono, per esempio, che l'interruzione di gravidanza è uno dei metodi anticoncezionali più diffusi al mondo, secondo soltanto alla sterilizzazione femminile. Le donne che hanno subito la legatura delle tube sono ormai più di 150 milioni, quasi tutte nei paesi terzi; una cifra da massacro, di cui nessuno sembra preoccuparsi. Gli aborti vengono immediatamente dopo; nel 1995, per esempio, sono stati complessivamente 46 milioni, di cui 26 milioni legali. Alcune nazioni detengono il primato in valore assoluto: circa 8 milioni di aborti in Cina, 6 in India, intorno a 2 nella Federazione Russa e altrettanti in Vietnam.

Nonostante il principio: l'aborto non deve in nessun caso diventare strumento di controllo delle nascite
La realtà che emerge dalle cifre è articolata, complessa, diversa da paese a paese (soprattutto si legge, visibile e drammatica, la linea di demarcazione che separa le zone povere o in via di sviluppo da quelle sviluppate) ma ha una sua coerenza interna: l'aborto è uno dei metodi privilegiati nella lotta mondiale contro la crescita della popolazione. Nonostante in quasi tutti i documenti ufficiali ci si preoccupi di enunciare l'aureo principio secondo cui "l'aborto non deve in nessun caso essere adoperato come mezzo di controllo delle nascite", questo è quello che effettivamente accade. Tanto che gli stessi organismi internazionali, sempre così attenti alla scelta delle parole, ogni tanto si dimenticano del politicamente corretto e rubricano l'aborto tra gli strumenti di regolazione della fertilità. Nella Guida 2002 dell'Oms, per esempio, si spiega come il controllo della fecondità si avvalga di "metodi e tecniche che vanno dai contraccettivi alla regolazione mestruale e all'aborto, usati con l'intenzione di prevenire la gravidanza e/o il parto". Ricordiamo che per "regolazione mestruale" si intende l'evacuazione dell'utero, in caso di ritardo, senza aver effettuato un test di gravidanza; insomma, un aborto con il beneficio del dubbio. Sempre per ammissione dell'Oms, "le statistiche sull'aborto sono notoriamente incomplete", e va detto che in genere i dati della regolazione mestruale, e talvolta persino quelli della Ru486, non vengono conteggiati fra gli aborti.

Il primato europeo
Nonostante i valori assoluti impressionanti di Cina, India e Vietnam, in Asia "solo" il 25 per cento delle gravidanze finisce in aborto, mentre il primato spetta all'Europa, con il 48 per cento di aborti. Se si confronta il numero di aborti riferiti a 100 gravidanze, salta agli occhi la differenza: su 100 gravidanze iniziate, 23 finiscono in aborto nei paesi in via di sviluppo, e 41 in quelli sviluppati.
Molto pesa la situazione dei paesi ex comunisti: la Russia di Lenin è stata la prima nazione al mondo in cui l'aborto è stato reso legale, nel 1920. Con Stalin tornò illegale nel 1936, ma dal 1955 la legge fu reintrodotta, e l'aborto divenne il primo metodo di controllo delle nascite: nei rapporti riguardanti il periodo 1965-1982 si parla di 8.500.000-11.700.000 aborti l'anno, con un tasso di 170-220 donne su 1000 (oggi,nel mondo, la media è di 35 donne su 1000). A detta dell'Oms, quella attuale di due milioni l'anno potrebbe essere una sottostima, per via della presenza di molte cliniche private nelle aree urbane. Nel recente rapporto delle Nazioni Unite," Monitoraggio della popolazione mondiale 2002. Diritti riproduttivi e salute riproduttiva", i primi 18 posti nella classifica mondiale della percentuale di aborti spettano a regimi ex o ancora comunisti: dal 63 per cento della Federazione russa, al 53 per cento della Romania e al 41 per cento dell'Ungheria (dati riferiti al 1999). Il rapporto Onu sottolinea la presenza di una "cultura abortiva" in questi paesi, in cui l'interruzione di gravidanza è tuttora ritenuta più semplice e sicura dei metodi contraccettivi. Anche la tesi, in astratto convincente, secondo la quale a un più diffuso uso degli anticoncezionali corrisponderebbe un calo delle interruzioni di gravidanza, si rivela irrealistica: non esiste, almeno a leggere i dati, una correlazione necessaria tra crescita dell'uso di contraccettivi e riduzione degli aborti.

Aumento dei metodi contraccetivi = aumento degli aborti
A Cuba, dove il 72 per cento delle donne usa metodi contraccettivi, ed è alto anche l'uso (o meglio l'abuso) della sterilizzazione, il numero di aborti rimane comunque elevato, (78 donne su 1000 nel 1996, 59 per cento di aborti, pari a 2.3 aborti per donna, come la Romania), e in continuo aumento dal 1980. Quella di Cuba è una tendenza comune anche a molti paesi dell'Europa occidentale, dove a un aumento della diffusione dei contraccettivi corrisponde un aumento di aborti, specie nelle donne con meno di venti anni. Qualche esempio: nel Regno Unito dal 1990 al 2000 è aumentata la percentuale, già alta, di donne in età fertile che adotta metodi moderni di contraccezione (dall'80 all'83 per cento). Dal 1990 è inoltre disponibile la pillola del giorno dopo (non conteggiata nel rapporto precedente), che aveva raggiunto 800.000 prescrizioni l'anno, e che, dal 2001, si acquista senza ricetta medica. Nello stesso periodo la percentuale di aborti per le donne al di sotto dei 20 anni è salita dal 36 al 39 per cento. In Francia dal 1999 la pillola del giorno dopo è distribuita anche nelle scuole, e se ne sono vendute oltre 2 milioni di confezioni, più del 97 per cento senza ricetta. L'Ufficio Regionale per l'Europa dell'Oms informa che su 1000 nati vivi, nel 2000 si contavano 253 aborti, saliti a 277 nel 2002. Nello stesso periodo e sempre su 1000 nati vivi, considerando solo le donne al di sotto dei venti anni, gli aborti sono passati da 1705 a 1820. Ancora dal 2000 al 2002 e su 1000 nati vivi: in Spagna gli aborti da 160 sono diventati 184, e per le donne al di sotto dei venti anni si passa da 808 a 898, mentre in Svezia dove gli aborti in generale sono aumentati da 343 a 348, per le ragazze al di sotto dei venti si va da 2995 a 3770 (si passa cioè da 30 a 38 aborti per 10 nati vivi).
Quella della crescita simultanea di aborto e contraccezione è una tendenza comune nei paesi sviluppati, che rallentar solo di fronte al crollo della fertilità. Secondo alcuni studiosi, solo quando l'indice di natalità scende tra l'1 e il 2 per cento, e non c'è più equilibrio tra invecchiamento della popolazione e nuove nascite, la situazione tende a stabilizzarsi.
« Il Foglio » del 26 ottobre 2005

Laicità, giuste distinzioni e dialogo pacato

di Carlo Cardia
In un pacato e argomentato articolo di Giancarlo Bosetti su «Repubblica» sul tema della laicità si fanno delle affermazioni assai utili per un dibattito che si disincagli dalle secche della facile polemica e faziosità. Si dice, in primo luogo, che la laicità è il terreno comune nel quale tutte le posizioni in materia di religione devono essere rispettate, e riflette «la disponibilità a condividere un terreno comune di valori condivisi necessari per convivere». Altra cosa è l’ateismo, quando assume la forma di una metafisica asseverativa, o quando pretende che la inesistenza di Dio sia sostenuta dalle risultanze della scienza. E’ poi molto positivo l’accenno al fatto che la realtà multiculturale, nella quale ormai siamo immersi, presenta un caleidoscopio ricco di fedi ed orientamenti religiosi, che esaltano il valore della laicità. Anche se si aggiunge che in Europa i musulmani sono diventati venti milioni (mentre) i cattolici praticanti sono una minoranza sovrastimata». In realtà il confronto dovrebbe farsi con parametri omogenei: musulmani praticanti (che sono il 6-7 % di venti milioni) e cattolici praticanti. Ovvero, meglio ancora, tenendo conto che l’appartenenza religiosa oggi non si esprime soltanto nella pratica religiosa costante. Infine, l’articolo coglie nel segno quando ricorda che il principio dell’eguale rispetto comporta che le religioni non vengano equiparate a oroscopi o altri intrattenimenti. Con ciò riferendosi probabilmente a quella pubblicistica che, in Italia e altrove, ha ripreso una polemica antireligiosa fondata sull’irrisione o su grottesche forzature. Bisogna dire che un confronto basato su questi presupposti può essere fecondo, di alto livello culturale, come c’è stato in tante fasi della modernità, e come si è sviluppato in Italia portando a risultati storici, primo fra tutti la Costituzione democratica.
Rimanendo, quindi, in questo orizzonte di dibattito rispettoso, si possono fare delle obiezioni ad altre affermazioni. Ad esempio quando si parla delle vaste preferenze di cui beneficia in Italia la Chiesa cattolica, e si auspica l’estensione delle pratiche concordatarie in modo bilanciato ad altre confessioni.
Bisognerebbe considerare che le vere preferenze di cui beneficia la Chiesa cattolica in Italia sono quelle che derivano dal consenso popolare.
Questo è un punto su cui si discute poco, che meriterebbe seri approfondimenti, anche perché è uno degli elementi distintivi del nostro paese. Inoltre, già oggi lo Stato (con le Intese) estende a diverse confessioni molti sostanziali diritti che il Concordato riconosce alla Chiesa cattolica, ed è pronto ad estenderle presto ad altri culti. L’altro punto di discussione emerge quando si afferma che «se i cattolici diventeranno un fattore di divisione e disordine, uno Stato giusto sarà inevitabilmente più severo, esigente, ed esattore, con le loro organizzazioni». Questo è un tasto molto delicato. Cosa vuol dire che i cattolici possono diventare fattore di divisione? Non sono stati sino ad oggi una delle grandi forze stabilizzatrici e di progresso del Paese? O forse divengono fattori di divisione quando sostengono determinati valori? Se così fosse si tornerebbe indietro, ad una visione giacobina di volte in volta prevalsa laddove si è affermato uno Stato ostile alla religione: lo Stato concede di più ad una Chiesa se è più remissiva, ma diventa severo, esigente ed esattore, se la Chiesa è più autonoma. Ma il nostro deve essere uno Stato giusto ed imparziale con tutti. Questo, probabilmente, è il punto che deve ancora maturare nell’attuale dibattito culturale e politico. Nel gioco della democrazia lo Stato deve farsi sempre guidare dal principio di imparzialità lasciando liberi i cittadini e i soggetti sociali di far sentire la loro voce e le loro opinioni per concorrere (senza per ciò temere ripercussioni negative) alla formazione della volontà generale; la quale poi non è mai data una volta per tutte, ma può modificarsi secondo i mutamenti che si manifestano nel corpo sociale.
Resta, in ogni caso, un dato non trascurabile. La discussione può andare molto più avanti proprio se recupera quella pacatezza, e quella serietà, di impostazione che caratterizza l’intervento cui ci siamo riferiti.
«Avvenire» dell’8 gennaio 2008

«Diritti umani ovunque senza eccezioni»

Discussione laica, razionale, non emotiva
di Marina Corradi
Coraggio di porre a tema il valore primordiale della vita
Che la moratoria dell’Onu sulla pena di morte «stimoli il dibattito pubblico sul carattere sacro della vita umana». È pacato l’inciso del Papa, nel discorso rivolto ai rappresentanti del Corpo diplomatico, e dedicato agli scenari mondiali. Pensoso, quasi denso di una accorata umiltà: quella comunità internazionale che dice 'no' alla pena capitale, riconoscendo in sostanza una intangibilità della vita umana, si interroghi pubblicamente sul diritto alla vita, fin dal suo inizio. È un invito, anzi un 'fare voti', secondo l’espressione letterale di Benedetto XVI: se la morte non può essere data per una intrinseca sacralità della vita anche del peggiore degli uomini, andiamo oltre, vediamo in quale direzione ci porta questo asserto, quando parliamo di principio della vita. Guardate, sembra dire il Papa: la vita che la comunità politica internazionale difende con la moratoria dell’Onu, non è la stessa, non incomincia già in quel tempo in cui viene invece 'normalmente' eliminata nel mondo 50 milioni di volte all’anno?
Non ha toni da anatema quella frase, né è, tra le righe, l’'ordine' dal Vaticano di smantellare la legge sull’aborto di questo o quello Stato. Coloro che, in Italia ad esempio, ripetono sempre e soltanto che «la 194 non si tocca » non hanno motivo di inalberarsi. Il Papa dice una cosa altra o precedente: che si apra, ovunque, una riflessione pubblica sul carattere sacro della vita. Come una spinta, sul tema dell’aborto, a ricominciare dalla 'cultura', intesa come dibattito, visione del mondo, educazione.
L’inciso del Papa sottolinea una contraddizione: se sulla inammissibilità della pena capitale oggi l’occidente democratico è d’accordo, sull’aborto inteso come diritto intangibile invece resiste almeno in Italia una sorta di tabù, di stereotipata reazione pavloviana: «La 194 non si tocca ». Ma – fermo restando che, visti i progressi delle tecniche di rianimazione neonatale, sembra necessario porre almeno un limite temporale all’aborto terapeutico – l’accento posto da Benedetto XVI va innanzitutto sul piano culturale. Più sull’apertura a un nuovo sguardo che a battaglie politiche contro una legge che resta sostanzialmente iniqua per le quali, oggi in Italia, non paiono esserci le condizioni; battaglie che invece – ciò che alcuni pro-life non colgono subito – potrebbero schiudere la porta a derive gravi sul fronte ampio della legislazione in materie bioetiche.
Sul Corriere di ieri il vicedirettore Pierluigi Battista diceva, da laico, qualcosa di non molto diverso su quello che potremmo chiamare il 'primato della cultura': e cioè che l’unico modo per tornare a discutere di aborto è nello «sfidare il senso comune sulla base di un argomento culturale». La 194 non si tocca, scrive Battista, ma perché, si domanda lealmente, anche la cultura sull’aborto deve aspirare a uno statuto di intoccabilità? È una domanda interessante da girare a quanti abbiano il coraggio di guardare all’aborto come è oggi: fenomeno di massa, in buona parte di extracomunitarie, o prassi normale tanto da pensare di risolverla con una pillola. È una domanda molto laica, là dove invece alcuni, come Antonio Scurati sulla 'Stampa', nell’inneggiare a un’Italia monoliticamente «laica e materialista » definiscono l’embrione «macchia di gelatina fetale» o «poltiglia di materia cieca». Macchia, poltiglia, come dire un nulla. Espressioni stranamente virulente in bocca a un 'laico' che poi accusa cattolici e 'atei devoti' di agire in preda a un «panico morale».
Mentre a noi pare che solo un inconfessato panico possa far chiamare un embrione «gelatina ». Il panico di chi ha come idolo la assoluta libertà individuale, indifferente a ogni altra istanza etica. E non intende fare un solo passo per vedere una diversa realtà, che potrebbe nuocere al suo personale diritto – cioè al suo unico dio, ferocemente difeso da un 'laico' tabù.
«Avvenire» dell’8 gennaio 2007

22 gennaio 2008

La vera moratoria è l’esercizio dello spirito critico

di Maurizio Caverzan
Televisione: cattiva maestra o buona maestra? Al di là degli interrogativi un po’ generici sulla natura intrinseca dell’elettrodomestico più invasivo della nostra epoca su cui si sono esercitati schiere di studiosi - Volevo solo dirti che è lei che guarda te, Paolo Landi, Bompiani e Tutto quello che fa male ti fa bene, Steven Johnson, Mondadori, tanto per citare due uscite del 2007 agli antipodi tra loro - forse conviene semplicemente chiedersi se la televisione che guardiamo ogni giorno ci arricchisce o ci impoverisce, ci stimola o ci assopisce. Secondo la tesi prevalente è lei, «la televisiun» che, per dirla con Jannacci, «la g’ha na forsa da leun», a determinare i nostri comportamenti influenzando il nostro sistema di valori. Salvo poi, una volta modificato il costume, ri-assorbire dalla vita quotidiana modelli, idee, provocazioni da rimescolare e restituire nuovamente rafforzati. Per usare un esempio fresco fresco, il Grande Fratello cominciato ieri sera ha tra i suoi concorrenti una famiglia siciliana di cinque persone e un transessuale. Che cos’è questa operazione se non il tentativo di riflettere e vampirizzare il dibattito che attraversa la società civile nel campo della morale e della sessualità per averne un vantaggio in termini di ascolti e di visibilità sui giornali? Non facciamoci illusioni: sempre di più sono i cervelloni del marketing a suggerire tracce e contenuti dei programmi. È vero: esistono tante televisioni, tanti canali tematici con i quali ognuno si fa il palinsesto da sé, e non una sola televisione. Ma quella che parla a tutti, il media universale che rappresenta il battito cardiaco del Paese, è la televisione generalista. E per la televisione generalista l’imperativo è catalizzare il maggior numero di spettatori. Perciò si devono rappresentare propensioni e gusti maggioritari. Il resto è minoranza, nicchia, élite.
Se provassimo, come in una sorta di ricerca di mercato, a fare la spesa nel supermarket della televisione italiana fatta di reality, di quiz e di giochini, di varietà e di talk show pomeridiani, torneremmo a casa con la sporta piena di prodotti ben precisi. L’infotainment, il genere prevalente in questi anni in tv che mescola informazione e intrattenimento, news e gossip, ha finito per creare un impasto che somiglia al chewingum della modernità. Tanto per elencare, in ordine sparso, la nostra borsa della spesa sarebbe carica di bellezza, successo, moda, look, esibizione, velocità, protagonismo, individualismo, ambizione. Mentre rimarrebbe drammaticamente povera di riflessione, riservatezza, ascolto, solidarietà, lentezza. Negli ultimi anni l’omologazione culturale di pasoliniana memoria si è data un alone di sofisticazione passando per palestre e beauty farm, per centri estetici e atelier della moda. E tutti noi finiamo per somigliarci, per convergere - «centrifugati» - sotto l’ombrello del conformismo dominante.
Grazie a Dio ci sono le eccezioni, delle finestre d’aria che rompono l’embargo del modello unico prevalente. Lasciando stare l’informazione e i programmi di approfondimento, qualcuno fa notare il tramonto dei reality show a vantaggio delle formule narrative come la fiction e, soprattutto, i telefilm americani. Il successo di una serie come Dr. House, per esempio, va registrato come un piccolo fenomeno controcorrente e, dunque, a suo modo significativo. Alla qualità dei dialoghi, abituale punto di forza di quasi tutte le serie hollywoodiane, il telefilm con Hugh Laurie aggiunge elementi di anticonformismo, genialità, originalità, misantropia: tutti «valori» oggi minoritari. Anche nel campo dell’informazione leggera, la formula dell’intervista (Che tempo che fa, Le Invasioni barbariche, Il senso della vita) offre spesso una boccata d’ossigeno al telespettatore in fuga dal modello unico.
Tuttavia, sarebbe un errore farsi troppe illusioni. Il corpaccione della nostra tv, ahimè, è quell’altro, quello con i palinsesti intrisi di diete, griffe e amori vip. Ma alla fine, tra la provocatoria proposta di moratoria per la tv (spegnerla? non vederla?) e l’eccessivo ottimismo di credere che tutto quello che fa male invece finirà per giovarci, l’unica arma di difesa è il solito vecchio spirito critico.
«Il Giornale» del 22 gennaio 2008
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«I nostri programmi sono una centrifuga che ci appiattisce»
di Paolo Bracalini

Un grande «centrifugato» in cui realtà e tv, starlette e aspiranti tali, modelli e cloni si sovrappongono perfettamente in un gioco di rimandi infallibile che determina cosa esiste e cosa no. È quella che Edmondo Berselli chiama «realtà tivuizzata» in un intervento sull’Espresso in cui l’editorialista di Repubblica propone, come via di fuga da questa melassa alienante, una moratoria, una resistenza culturale che potrebbe partire proprio da una tv più «aperta». Berselli, autore del recente Adulti con riserva - Com’era allegra l’Italia prima del ’68 (Mondadori, pagg. 180, euro 16.50), conduce oltre a firmarlo come autore, Su al Sud su Raidue, un programma che racconta l’Italia facendo ampio uso di materiali dell’archivio televisivo.
Berselli, ma quando siamo caduti dentro questa realtà tivuizzata?
«La realtà tivuizzata esplode con il dilatarsi dell’offerta televisiva a partire dagli Anni ottanta. L’effetto sulla società italiana è fortissimo. Cambia tutto e la tv ha un ruolo formidabile perché da un lato intercetta il cambiamento e dall’altro lo riflette di nuovo sulla società stessa, con la creazione di un’estetica televisiva che rafforza i comportamenti visti in tv. Per stare dentro la tv ci sono dei codici da rispettare, e questi a poco a poco diventano di uso comune».
Ma non è un effetto inevitabile della tv come mezzo di massa?
«Il punto è che nella tv del passato c’era un solo canale, poi solo due. Adesso nei game show della sera i concorrenti sono più simili ai personaggi della tv che alle persone della strada. Non essendoci più la necessità di saper fare qualcosa, allora tanto vale prendere ragazze belle, ragazzi palestrati. Un quiz ormai assomiglia più ad Amici di Maria de Filippi che a Rischiatutto. Questa è la realtà tivuizzata».
La moratoria come la intende, tenere la tv più spenta?
«Non lo so, io la tv la tengo già spenta abbastanza. Non si può pretendere di migliorare la società, ma magari migliorare la tv può essere un programma non dico politico ma almeno culturale per l’Italia».
Quindi questa liberazione può partire dalla tv stessa, dal suo interno?
«Oggi la tv presenta dei modelli comportamentali secondo cui chiunque può far tutto purché sia presentabile in tv dal punto di vista estetico. Non c’è nessuna dichiarazione di intenti sulle professionalità. Se si vede la tv di fine Anni cinquanta inizio sessanta si trova una qualità tecnica e professionale enorme. Questo mi induce a pensare che oggi il riscatto della tv non passi attraverso il servizio pubblico o le trasmissioni culturali, ma da un inserimento di capacità e professionalità anche nei programmi di intrattenimento normali».
Per questo nel suo «manifesto» per una nuova tv lei non usa mai il termine «spazzatura»?
«Perché si può far bene anche la tv spazzatura. La tv buona non è quella intelligente, ma quella di qualità. Il problema principale oggi è scomporre la rigidità dell’offerta tv, che crea un universo concentrazionario di intrattenimento e pubblicità in cui tutto è uguale».
Ma non è invece che i telespettatori vogliono proprio questa tv?
«No, non credo. È molto cambiato il modo di guardare la tv. I programmi vengono “agganciati” per poco e poi si passa ad altro. Quindi, se la tv non si decostruisce è il telespettatore che la smonta per pezzi. La tv generalista è particolarmente arretrata, nel senso che è fatta in modo tale da essere rigida. Se la tv non è flessibile, è uno strumento superato. Noi tutti viviamo in una realtà in cui l’informazione, la musica, l’intrattenimento sono un flusso continuo. Ci siamo abituati alla sorpresa, c’è bisogno di non sapere cosa c’è dopo. Se questo è vero, allora la tv è una specie di totem immutabile».
Ma una tv flessibile, scomponibile, non produrrebbe altri modelli tivuizzanti?
«Ne produrrebbe molti di più forse rispetto a quelli attuali. La società italiana ha fatto tutto il possibile per adeguarsi a pochi modelli, mettendosi quei vestiti, facendosi quelle abbronzature, adeguandosi al calciatore e alla velina, alla pupa e al secchione, quando in realtà ne rimangono fuori molti altri. Sono sempre fiducioso nella creatività della società. I modelli che non trovano spazio in questa tv potrebbero trovarlo se ci fosse un’offerta più diversificata».
Non sarebbe un «centrifugato» di post modernità anche quello?
«Ecco, che il centrifugato diventi centrifugato davvero, non perché mette insieme i modelli e ne fa venire fuori uno solo, ma perché scompone tutto e ognuno si prende quello che vuole. Dobbiamo essere noi a usare la tv e non la tv a usare noi».
«Il Giornale» del 22 gennaio 2008

Se tutto diventa merce tutto diventa marcio: globalizzare la dignità

di Gennaro Matino
Il mercato è scambio: gli uomini sono spinti dai propri bisogni al commercio dei beni. Nelle primitive forme di baratto probabilmente si scambiavano dei beni equivalenti, forse chi aveva più acqua la scambiava con chi aveva più cibo. Forse all’origine delle prime forme di società la spinta del bisogno si affiancava a quella della solidarietà. Probabilmente si dividevano i beni secondo i bisogni di ciascuno. Oggi è diverso: dove ci sta portando un’economia senza solidarietà? Se la globalizzazione dei mercati ha globalizzato la povertà in alcune aree del pianeta e in fasce sociali sempre più ampie è perché lo scambio ha perso la sua originaria valenza: il suo essere divisione equa delle risorse del pianeta per fronteggiare insieme le situazioni di scarsezza.
Oggi lo scambio avviene tra chi si è preso tutto e chi, non avendo nulla da dare in cambio, è costretto a subire le regole di un mercato senza regole. Il capitalismo sfrenato, in nome di una presunta libertà dell’economia, ha finito col globalizzare l’ingiustizia, facendo perdere all’economia il suo essere scienza della liberazione e del progresso di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. La Chiesa che un tempo, in difesa dei valori etici universali e della libertà, arrivò a scomunicare ideologie e sistemi, oggi in difesa di quegli stessi valori non può che far sentire ancora più forte la sua voce. Il capitalismo senza etica è devastante, rendersene conto è la prima condizione per schierarsi dalla parte degli ultimi. Invece sembra che tra noi credenti ci sia un diverso approccio al problema. Anche se il Magistero affronta la questione con estremo coraggio, le nostre comunità non sempre sono interessate a tali problematiche. Nelle comunità parrocchiali dovremmo approfondire con maggiore attenzione la Dottrina sociale e ricordare quanto sia preoccupante e lontano da ogni principio evangelico l’atteggiamento di quanti, pur di accumulare tesori sulla terra, ostacolano la realizzazione di quel regno di giustizia e pace che noi cristiani siamo chiamati a costruire. Si dovrebbe rilanciare la Populorum Progressio, ancora attuale perché mai attuata e forse noi tutti dovremmo prendere atto che, su questo punto, aveva ragione Marx quando sosteneva che l’economia è la base della storia, come ben sa chi con la ricchezza genera ingiustizia. Di fatto oggi la coscienza dell’uomo sembrerebbe essere determinata dal solo interesse economico, dall’ingordigia di chi volendo ottenere sempre di più ha sovvertito le naturali leggi dello scambio. Bisognerebbe riscoprire il coraggio profetico della Rerum Novarum per frenare forme di capitalismo che, come all’epoca di Leone XIII, sfruttano la mano d’opera infischiandosene dei diritti dei lavoratori, della loro sicurezza, soprattutto se si tratta di extracomunitari, adulti o bambini che siano. Il numero delle morti bianche è un triste bollettino di guerra che ci dà la giusta misura di quanto, in nome del profitto, si calpesti la vita. Noi tutti dovremmo avere il coraggio di smascherare quanti, nascosti dietro il volto anonimo delle multinazionali, alimentano un’economia diabolica che sta trasformando persino i bambini in merce di scambio, in consumatori ideali, perché indifesi, di un mercato senza scrupoli.
La base economica di una società rispecchia l’etica di un popolo e non può esservi etica in un mondo che consente alle leggi del mercato di dimenticare che nello scambio dei beni l’unico vero bene dell’uomo è la sua dignità. Nessuno dovrebbe ignorare che l’economia è dell’uomo e non l’uomo dell’economia. Mai come oggi la Chiesa deve gridare dai tetti la sua indignazione o davvero l’etica non rimane altro che una sovrastruttura incapace di correggere la coscienza infelice dell’uomo.
«Avvenire» del 22 gennaio 2008

All'Angelus per non diventare clericali

Sono due le ragioni principali per cui i laici dovrebbero essere presenti in massa domani in piazza San Pietro all’Angelus di Benedetto XVI. Una è culturale e si riferisce a un fatto da auspicare, l’altra è politica e riguarda un fenomeno da temere
di Marcello Pera
La ragione culturale è: i laici devono distinguersi dai laicisti. Nel vocabolario corrente, laico è chi non crede, laicista è colui che crede che chi crede non abbia alcuna ragione per credere. Non è uno scioglilingua. Il laico non appoggia la propria concezione del mondo su una fede rivelata; il laicista ritiene che qualunque fede rivelata non abbia senso, se non banalmente privato, come un tic o un vizietto. L’uno non crede, o non riesce a credere, ma riconosce che la fede è una dimensione dell’esperienza umana che svolge una funzione propria, ad esempio il conferimento di senso alla vita, l’attribuzione all’uomo di un ruolo nel mondo, l’interpretazione del male.
L’altro, il laicista, nega questa dimensione: la fede per lui è un'illusione o un fraintendimento o uno scacco alla ragione. Per sostenere la propria posizione, il laicista usa un’arma che ritiene micidiale, quella delle prove. «Che prove hai del tuo Dio?», chiede. Lo hai forse visto? Ci hai parlato? Un amico fidato lo ha incontrato? Ne hai dedotto l’esistenza da una teoria accettata? Ma basta rifletterci per capire che questa non è un’arma, bensì un boomerang. «Che prove hai dell’amore per tua moglie?». Lo ripeti a te stesso? Lei ti risponde? Lo confermano tutti? Un’esperienza quotidiana come questa fa capire che non tutte le «prove» si riducono a osservazioni, misurazioni, calcoli, ragionamenti. Nella vita degli uomini ci sono l’emozione, il sentimento, la passione, il senso interno, l’esaltazione, lo sgomento, la certezza morale. Sono prove anch’esse. Se il laicista non le avverte, lo si può compatire, ma se non le avverte e le nega, allora c’è da misurarsi con lui e sconfiggerlo, perché provoca danni.
Il laicista infatti non è solo sordo e cieco. Negando diritto alla fede o deridendola come residuo mitologico, il laicista è supponente e tracotante: vuole imporre il suo punto di vista, vuole avere il monopolio della verità. Dice di seguire Galileo, ma di Galileo non capisce neppure la distinzione (e talvolta contrapposizione) fra verità di fede e verità di scienza. Per questo il laicista è antireligioso e soprattutto anticristiano.
La ragione politica per accorrere all’Angelus è che i laici devono distinguersi dai clericali. Perché il laicismo, per inevitabile contrappasso, genera il clericalismo.
C’è oggi in Italia e in Europa una domanda sempre più diffusa di identità. La paura dell’Islam, colpevolmente nascosta, e lo smarrimento di fronte alle pratiche bioetiche, deplorevolmente trascurato, la alimentano. Chi siamo noi? In che cosa crediamo? Quali diritti abbiamo e riconosciamo? Anche quello di ospitare gli intolleranti? Anche quello di praticare l’aborto eugenetico? Anche quello di nascondere e violare i valori della nostra tradizione? A questo bisogno di identità si lega la rinascita del fenomeno religioso: è la richiesta, dapprima smarrita poi confusa infine esplicita, di fondamenti, di basi solide, insomma di fede.
Per merito suo e per bisogno altrui, Benedetto XVI è interprete illuminato di questa nuova domanda di religiosità e di identità. La gente lo sente, e accorre attorno a lui. La politica, invece, sente poco o nulla. Non ha capito per tempo la nuova domanda e non riesce a farsene interprete con le categorie sue proprie: una visione, una strategia, una leadership che non parli il linguaggio inerziale di un tempo: «il trono separato dall’altare», «libera Chiesa in libero Stato», e altre formule ieri utili e oggi vuote.
Qualcuno, per la verità, fuori d’Italia, s’è svegliato. Tony Blair si è convertito al cattolicesimo, Sarkozy richiama le fonti della nostra civiltà cristiana, in Laterano come in Arabia Saudita. In Italia, invece, no, la politica tace. Con il rischio che, così come la gente, per avere risposta alla propria domanda, è costretta a saltare la politica e a rivolgersi direttamente agli interpreti della fede, anche i partiti politici facciano altrettanto, e si lascino solo guidare, trascinare, ordinare dalla Chiesa. Così il laicismo può produrre il clericalismo, e un leader politico sordastro può diventare un chierichetto furbastro, un «ateo devoto» preso alla lettera, non nello spirito sano di chi ha coniato l’ossimoro.
I laici che hanno buona memoria e buona fede non possono volere questo esito. Siccome, fra tanti laicisti, colui che ha dato una vera lezione di laicità è proprio Benedetto XVI, i laici hanno una ragione in più per mostrargli un segno di gratitudine. Con una presenza pensata ai fini culturali e politici, non esibita a scopi elettorali e cinici.
«Avvenire» del 19 gennaio 2008

La 194, una conquista di civiltà? No, questo non ditelo

A proposito di affermazioni di Veltroni, ma non solo
di Francesco D’Agostino
Apprezzo molto il fatto che Walter Veltroni reputi non banale né strumentale il dibattito che si è riacceso in merito all’aborto e che si dichiari disponibile a misurarsi con autentica disponibilità dialogica su questo tema.
Apprezzo di meno che egli abbia dichiarato con perentorietà che «la legge 194 non si tocca» (in politica non si dovrebbe mai dire mai). Ciò che non apprezzo affatto, invece, è che per lui la legge 194 sia «una conquista di civiltà, che deve essere difesa». Chiunque sia convinto che la vita umana prenatale è ben altro che «una macchia di gelatina fetale» (come incredibilmente l’ha definita sulla
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Antonio Scurati), non può qualificare «conquista di civiltà» una legge che, in qualsiasi modo la si voglia leggere, legittima la soppressione di una vita.
Insomma: esistono forse ragioni politiche che giustificano la difesa della legge 194 (del tipo: «la legge 194 è una legge 'imperfetta' e ritoccarla potrebbe paradossalmente 'peggiorarla'»); si può anche ritenerla un «male necessario», tuttavia è impossibile valutarla come un «bene». Tuttavia, Veltroni è di questa opinione, e la motiva. La legge sarebbe una «conquista di civiltà» in quanto avrebbe contribuito: a) ad abbassare il tasso di interruzioni di gravidanza – ridottosi del 44% – e a debellare la piaga degli aborti clandestini; b) a difendere «la salute e la dignità di tante donne». Analizziamo separatamente i due argomenti. Non entro in merito alla correttezza dell’analisi statistica fornita da Veltroni, anche se sappiamo tutti che in Italia i dati statistici sono sempre molto opinabili. Diamoli comunque per accertati. Ciò che li rende poco utilizzabili nel nostro dibattito è il fatto che si sarebbero potuti ottenere dati analoghi, attivando misure alternative e ben diverse di contenimento della piaga dell’aborto clandestino. Siamo certi che, attraverso forti e innovative politiche di sostegno economico, psicologico e sociale a favore delle donne e delle famiglie, non si sarebbe potuto ridurre comunque il tasso di abortività, senza sacrificare centinaia di migliaia di vite umane prenatali? Proporre una moratoria sull’aborto significa anche proporre un grande e provocatorio esperimento sociale: sospendiamo la pratica dell’aborto – almeno in parte e soprattutto per i casi in cui non siano in gioco reali questioni di salute fisica delle donne – e nello stesso tempo impegniamoci strenuamente nella difesa della maternità e della famiglia: potremmo accorgerci, a conti fatti, di poter ottenere gli stessi risultati che rendono, secondo Veltroni, «intangibile» la legge 194.
Un simile impegno sì che meriterebbe di essere lodato con l’impegnativa espressione «conquista di civiltà». Aggiunge Veltroni (e questo è il suo secondo argomento): la legge 194 ha comunque difeso la salute e la dignità di tante donne. L’affermazione sembra molto chiara, mentre è molto ambigua. Quanto alla salute, tranne casi rarissimi (per i quali comunque agisce l’esimente dello stato di necessità) non si ravvisano oggi ipotesi terapeutiche che giustifichino un aborto. Alla donna che ha motivazioni abortive extra­sanitarie così forti, da indurla a ricorrere comunque all’aborto clandestino, non andrebbe offerta come alternativa di «civiltà» la legalizzazione dell’aborto, ma l’efficace rimozione delle ragioni (economiche, psicologiche e sociali) che l’inducono a una scelta così tragica e che una semplice legislazione abortista non è assolutamente in grado di rimuovere. Ancora più ambiguo il riferimento alla 194 come legge che tutela la «dignità» della donna. Ora, lo stesso Veltroni nega che la donna abbia un «diritto assoluto» all’aborto: questo significa (dato che alle parole va data la valenza che ad esse spetta) che per la nostra legge le scelte abortive non possono essere ritenute «insindacabili». Quindi, non è vero che la legge 194 tuteli davvero la dignità della donna; essa tutela solo il suo eventuale «interesse» all’interruzione della gravidanza, bilanciandolo (in modo peraltro incredibilmente modesto!) con la tutela che la stessa legge si impegna a riconoscere alla vita umana «fin dal suo inizio». Ma soprattutto, ammesso e non concesso che la legge tuteli davvero la dignità della donna, possiamo sottacere il fatto che essa non tutela in alcun modo la dignità dell’uomo?
La legge infatti non prende in considerazione sotto nessun profilo l’eventuale interesse del partner della donna (e padre del bambino) ad opporsi all’aborto, impegnandosi ad esempio a rimuovere radicalmente le eventuali ragioni economiche che la donna possa addurre per giustificare la propria scelta abortiva. Una vera conquista di civiltà sarebbe quella di una legge che rispettasse e promuovesse assieme maternità e paternità e non escludesse l’uomo da una decisione femminile che comunque lo coinvolge. Non lasciamoci intrappolare da riferimenti illuministici a pretese «conquiste di civiltà»; quello che qui è in gioco è la sostanza antichissima, direi archetipica, della nostra identità umana: dare la vita e dare la morte, diventare madri e diventare padri, accogliere i propri figli.
«Avvenire» del 19 gennaio 2008

Una sconfitta del Paese

di Ernesto Galli della Loggia

A questo punto la decisione era molto probabilmente inevitabile: Benedetto XVI ha preferito non recitare la parte dell'ospite sgradito. Ha preferito evitare allo Stato italiano la vergogna di dover difendere la sua presenza all'Università di Roma schierando i reparti antisommossa, e ha deciso di rinunciare alla sua visita. È una grande vittoria dei laici. Il «libero pensiero » ha trionfato e i suoi apostoli possono cantare vittoria: ha trionfato la scienza contro l'ignoranza, la ragione contro la superstizione, Voltaire contro Bellarmino. Hanno trionfato i grandi pedagoghi democratici che nei giorni scorsi, dall'alto della loro sapienza, avevano detto il fatto loro a Joseph Ratzinger definendolo una personalità «intellettualmente inconsistente».
E' una vittoria non da poco. Per la prima volta ciò che finora è stato sempre possibile a tutti i pontefici romani, e cioè di muoversi senza problemi sul territorio italiano, di essere accolti in qualunque sede istituzionale, di prendere la parola perfino nell'aula del Parlamento, per la prima volta tutto ciò non è stato invece possibile a Benedetto XVI. E questo nel cuore della sua diocesi, nel cuore di Roma.
Ma che importa? Assai più importante, dovremmo credere, è che i laici abbiano vinto. Peccato che non riusciamo proprio a crederci. Quella che ha vinto, infatti, è una caricatura della laicità.
E' la laicità scomposta e radicaleggiante, sempre pronta ai toni dell'anticlericalismo, che cinicamente ha usato la protesta dei poveri professori di fisica piegandola alle necessità della lotta politica italiana, delle risse del centro-sinistra intorno ai Dico e all'aborto, della gara per conquistare influenza sul neonato Partito democratico. E' la laicità che vuole ascoltare solo le sue ragioni scambiandole per la Ragione. Che, nonostante tutte le chiacchiere sull'Illuminismo, nei fatti non sa che cosa sia la tolleranza, ignora cosa voglia dire rispettare la verità delle posizioni dell'avversario, rispettarne la reale identità. E' la laicità che dispensa i suoi favori e le sue critiche a seconda di come le torni politicamente utile. Che da tempo, perciò, non si stanca di scagliarsi contro Benedetto XVI solo perché lo ritiene ostile alle sue posizioni sulla scena italiana e allora va inventandosi chissà quale assoluta diversità tra lui e il suo immediato predecessore, fingendo di non sapere che di fatto non c'è stato quasi un gesto, una presa di posizione importante, di Giovanni Paolo II che non sia stata condivisa, o addirittura ispirata, da papa Ratzinger.
Laicità? Sì, una laicità opportunista, nutrita di uno scientismo patetico, arrogante nella sua cieca radicalità. Con la quale un'autentica laicità liberale non ha nulla a che fare. Che anzi deve considerare la prima dei suoi nemici.

«Corriere della sera» del 16 gennaio 2008

Scuola, il valzer dei professori: quattro su 10 cambiano ogni anno

Novità per un terzo degli studenti. Le famiglie protestano
« Così è sempre più a rischio la continuità didattica nelle classi »
di Salvo Intravaia
C´era una volta la continuità didattica. Ogni anno 4 insegnanti su 10 cambiano scuola o sono costretti a cambiare classi. Tra pensionamenti, trasferimenti, supplenze, "cattedre a 18 ore" e altri "marchingegni normativi", oltre un terzo degli alunni italiani anche durante lo stesso anno assiste ad un valzer degli insegnanti che non ha precedenti. Per una consistente fetta di alunni delle scuole statali completare un ciclo di studi con la stessa squadra di docenti è ormai quasi impossibile. La cosiddetta continuità didattica, considerata indispensabile per un buon apprendimento si è trasformata in una specie di lotteria. L´immancabile balletto di maestre e professori fa disperare soprattutto mamme e papà. «Il problema è particolarmente sentito dai genitori», conferma Angela Nava, presidente del Coordinamento genitori democratici, che continua: «Il grosso delle lamentele si registra prima della pausa natalizia, quando le graduatorie dei supplenti vengono aggiornate e le scuole procedono a nuove nomine. Ma anche per il turn-over riguardante il sostegno: sono tantissimi i genitori che ci chiedono come fare a mantenere lo stesso insegnante dell´anno precedente». Eventualità che, per una serie di complicate ragioni, quasi sempre non si realizza. Per comprendere il fenomeno è meglio affidarsi ai numeri.
Le cattedre attualmente funzionanti nella scuola italiana sono poco più di 776 mila con un numero di docenti a tempo indeterminato pari a 706 mila. Tutto il resto dei posti è occupato da supplenti annuali e fino al termine delle attività didattiche (fino al 30 giugno), ma anche da supplenti temporanei che si contendono un numero imprecisato (tra 40 e 60 mila) di spezzoni di cattedra: frazioni inferiori alle 18 ore settimanali. Per soli trasferimenti lo scorso mese di settembre hanno cambiato scuola oltre 73 mila insegnanti (a fronte di oltre 130 mila richieste), pari all´11,1 per cento del totale. I pensionamenti nel 2007 hanno toccato quota 42 mila (quasi il 6 per cento dei titolari in servizio) e sui supplenti che cambiano scuola praticamente ogni anno non ci sono ancora numeri definitivi. Due anni fa erano 124 mila, l´anno scorso 120 mila, (il 15,5 dei docenti in servizio). Dopo le 50 mila assunzioni decise dal governo e effettuate la scorsa estate, i precari sono calati di qualcosa ma non di molto visto che i pensionamenti hanno per buona parte compensato i nuovi arrivi.
Trasferimenti, pensionamenti e supplenze determinano una mobilità dei docenti che supera il 32 per cento. Ma ci sono altri complessi "meccanismi", alcuni dei quali non contabilizzati, che aggravano la situazione portando i numeri a ridosso del 40 per cento. Distacchi sindacali e all´università, comandi presso gli uffici centrali e periferici dell´amministrazione scolastica, assegnazioni provvisorie e utilizzazioni (per un solo anno), insegnanti inidonei, "cattedre a 18 ore" e, soprattutto, le supplenze assegnate dalle stesse scuole in base alle graduatorie d´istituto. «Ci sono classi che cambiano due o tre professori anche nel corso dello stesso anno perché le graduatorie d´istituto vengono aggiornate ad anno ampiamente iniziato. Per apprendere occorre instaurare una relazione con l´insegnante ma se questi cambiano di continuo come si fa?», si chiede Irma Caputo, dell´Unione degli studenti. «Possibile - sbotta la Nava - che in un paese democratico non si riesca a trovare una soluzione?».
E anche quando il prof non si sposta in un´altra scuola, a causa del meccanismo che obbliga i dirigenti scolastici ad assegnare 18 ore di insegnamento a tutti i docenti, spesso, gli stessi sono costretti a cambiare le classi da un anno all´altro. Basta infatti che si formi una classe in più o in meno per rivoluzionare l´assegnazione delle cattedre ai professori. Per limitare il balletto dei docenti ad una valore "fisiologico" al ministero si stanno dando da fare. «La continuità didattica - dichiara Mariangela Bastico, vice ministro della Pubblica istruzione - è un valore per la qualità della scuola. Il grosso del fenomeno è determinato dai precari che stiamo contribuendo a stabilizzare attraverso le 150 mila assunzioni varate l´anno scorso. Con l´ultima Finanziaria abbiamo deciso di stabilizzare la maggior parte degli insegnanti di sostegno. Ci stiamo anche adoperando per evitare il cambio dei supplenti in corso d´anno e per limitare le sostituzioni nei settori cruciali».
«La Repubblica» del 14 gennaio 2008

L'ossessione del figlio perfetto

Circondato dai pediatri, monitorizzato e iperprotetto, corre un solo rischio: non sapere affrontare il futuro
di C. De Gregorio
Diciassette luglio, servizio nel tg delle otto di sera: la pasta corta ha superato nei consumi la pasta lunga. Gli italiani mangiano più maccheroni e meno spaghetti, i produttori si sono già adeguati: triplicati i fusilli. Motivo? I bimbi mangiano meglio la pasta corta, non sanno arrotolare le fettuccine. I genitori, docili, eseguono. Intervista ad un esperto. Un cuoco? Un critico gastronomico? Niente affatto: un gastroenterologo. Il medico compare sullo schermo in camice, dice che in effetti la digestione della pasta corta è più rapida. Stressa meno lo stomaco. Pazienza per le trenette al pesto, fine del servizio. Le esigenze del bambino e i consigli della scienza contro il piacere della carbonara: uno a zero, non c'è rivincita.
Bambini super-monitorati e iper-medicalizzati
Il bambino perfetto ha monitorati anche i tempi di digestione. Brevi, perché alle tre comincia l'attività del pomeriggio e non può essere appesantito. Canoa, pentathlon, cinese, violino. Mangia biologico, di preferenza. Non si ammala e se gli capita guarisce subito. E' vaccinato 13 volte nella vita, è sottoposto a cicli di antibiotici almeno quattro volte all'anno. E' sospettato di patologia ad ogni scarto dalla rotta prevista. Tre bambini vivaci su dieci sono sottoposti a test del deficit di attenzione, se faticano ad addormentarsi a luce spenta hanno probabilmente un disturbo del sonno. I distratti e i pigri non esistono più: solo principi di dislessia e specialisti pagati all'uopo per curarli. I bambini perfetti imparano una lingua prima del compimento del terzo anno di età perché è ormai di conoscenza comune che i neuroni preposti al linguaggio si attivano entro quella data. Vanno dal dentista all'indomani della caduta dei denti di latte, subiscono interventi di correzione del palato 150 volte più di dieci anni fa.
Sport e fitness
A dodici anni eliminano le orecchie a sventola, un semplice intervento di otoplastica. A quattordici sono a dieta, a diciotto 25 ragazze su cento desiderano modificare (diminuire, assai più spesso aumentare) il seno: dieci lo fanno. Nella fascia d'età elementare le attività sportive che insidiano il calcio e la danza, per tradizione italica e sessista i più adatti a sviluppare scatto atletico nei maschi e grazia nelle femmine, avanzano le nuove discipline: rugby, scherma, golf, canoa (dove c'è acqua, ovviamente, e anche d'inverno). Pentathlon, caldamente consigliato dai pediatri per la completezza e autentico inferno dei genitori: occorrono attrezzature complete da equitazione, fioretto e spada, nuoto oltreché pomeriggi interi a disposizione per l'accompagnamento. La domenica le gare. I tornei in trasferta.
Anaestetizzati dal dolore, dormono nel letto dei genitori, dettano la dieta
I bambini perfetti sono venuti al mondo con l'anestesia (epidurale, da vent'anni procedura di massa) e vivono anestetizzati dal dolore, preservati dai rischi, controllati a vista, accompagnati ovunque. Da baby sitter, in genere. Le madri lavorano. Sono figli del progresso della scienza e molto spesso di madri vicine ai 40; 35-45 per l'esattezza: destinati, altrettanto spesso, a restare figli unici. La "dittatura del figlio", quella di cui ormai si occupano anche le poste del cuore per via del fatto che ha soppiantato una qualsiasi anche blanda forma di intimità coniugale e di vita sociale, ne è la conseguenza diretta: dormono nel letto dei genitori, dettano la dieta e i tempi di vita, le amicizie. La maggior parte di frequentazioni fra adulti è conseguenza delle amicizie dei figli: compagni di scuola o di sport. Magari i genitori si sarebbe scelti comunque, forse no.
La tirannia della medicina sull’infanzia
Roberto Volpi, demografo dell'infanzia e autore di “I bambini inventati” (sottotitolo: "la drammatizzazione della condizione infantile oggi in Italia") sta ora lavorando a un testo sulla tirannia della medicina sull'infanzia: L'amara medicina. Fa notare come alla sovrabbondanza di stimoli 'cultural' dei piccoli cresciuti come baby-manager non consegua un miglior rendimento scolastico dei medesimi: i nostri risultati nei test europei sono tra i peggiori. Crede che l'ansia da prestazione inculcata dai padri corrisponda più ad un'esigenza di gratificazione (o di compensazione delle frustrazioni) degli adulti che non ad una risorsa dei piccoli, che finiscono per somigliare a robottini identici e sostanzialmente incapaci di affrontare le vere difficoltà.
La cancellazione dell’idea di rischio
“È chiaro che il figlio unico di genitori quarantenni è il destinatario di tutte le aspettative: o lui o nessun altro". Dice: "Non c'è più nessuna capacità di accettare l'idea di rischio. Dalla gravidanza in poi la nascita di un figlio è una questione affidata agli specialisti. Ecografie, diagnosi prenatali sofisticate che scongiurano la possibilità di anomalie e difetti. Parti pilotati e anestetizzati. Infanzie concepite come slalom tra timori da scongiurare: vaccini, profilassi, tutori. Per tutto si chiede il parere della scienza: dai giochi sicuri ai lettini anatomici. Tuttavia non ci sono studi che certifichino, per esempio, che le vaccinazioni antinfluenzali facciano diminuire il rischio di morte per influenza che negli anziani è rimasto identico, 5 per cento, prima e dopo le campagne di prevenzione. L'Unicef dice che l'Italia è al quarto posto tra i paesi per tasso di mortalità infantile dovuta a cause non naturali, prima fra i grandi paesi e molto avanti a Giappone e Stati Uniti: negli ultimi trent'anni le morti di bambini per cause violente si sono ridotte del 75 per cento ma la percezione è opposta. Di un pericolo in costante aumento".
In Italia più pediatri e più ospedalizzione infantile
Nelle catene di negozi per bambini interi reparti sono dedicati alla sicurezza: angoli di gomma per i tavoli e reggisportelli, cancelletti per le scale e cuscini antisoffocamento. La notizia di premi Nobel cresciuti orfani e fra gli stenti del vagabondaggio non inficia le vendite. I prodotti per sterilizzare gli alimenti sono il top di gamma. Le nonne dicevano che mangiare un po' di terra faceva bene agli anticorpi, roba dell'altro mondo nell'era Napisan. Vincenzo Calia, pediatra e direttore della rivista Un pediatra per amico: "L'Italia ha il più elevato numero di pediatri per abitante del mondo. Tuttavia il tasso di ospedalizzazione è doppio che in Inghilterra pur essendo le condizioni di salute le stesse. La medicalizzazione dell'infanzia è capillare. Il sabato e la domenica i pronto soccorso sono gironi infernali: la gente ci va per qualunque motivo e nessuno li scoraggia. Quando si decise di introdurre un ticket sui codici bianchi, quelli delle persone che non hanno niente, per demagogia e per interesse si stabilì che i bambini fossero tutti come minimo codice verde: è rimborsato, il bianco no. Inoltre è chiaro che l'eccesso di medici provoca un'offerta distorta: commercio di malattie. Si enfatizza una patologia per vendere la sua cura. Il fatto che i bimbi siano pochi e dunque pregiatissimi è il terreno ideale per coltivare l'ansia".
Il modello che manca
La vera ragione per cui un bimbo su tre finisce di notte al pronto soccorso (ci sono folle la notte, a Roma, al Bambino Gesù) è per traumi causati non dalla mancanza di salvasportello ma dal fatto che i piccini si sono lanciati da un armadio (da un letto, da un divano) e fratturati o contusi pensando di essere come Batman. Pensavano di poter volare, ecco. I cartoni, la tv: il tema è sconfinato ma la questione del modello è chiara. Il regalo più grande sarebbe spiegargli fin da piccoli non solo che volare è impossibile ma che persino camminare è piuttosto difficile: si cade, spesso. Spesso cadere è utile. Farsi male serve. Sentire dolore aiuta: per esempio a sentire meglio il piacere.
Da adolescenti dallo psichiatra
Da adolescenti, poi, gli ex bambini perfetti vengono portati in massa da neuropsichiatri dell'età evolutiva: in prevalenza per sanare lo scarto tra il peso delle attese e le loro effettive possibilità. Ferita del sé grandioso, si chiama. Se alimenti un senso del sé grandioso prima o poi si sfracella. Nell'uso di droghe, per dire: un modo per dimenticare il fallimento del progetto. L'alternativa è restare da mamma fino a trent'anni: nemmeno questa un'idea particolarmente felice. Scrive la madre (separata) di un figlio preadolescente: "Ci siamo iscritti entrambi a un corso per imparare ad accettare le sconfitte. E' un'iniziativa del nostro comune, si chiama "Gli ultimi saranno i primi. Bella, sa?". Ecco, un bel corso a pagamento magari Vangeli alla mano. I figli perfetti a scuola di imperfezione, fra un corso di cinese il lunedì e uno di tai chi il giovedì. A lezione per arrivare ultimi e insieme campetti da allenamento sportivo a porte chiuse, se possibile. Moltissimi club già lo fanno visto che i genitori, dalle tribune, urlano "ammazzalo". Poi telefonano agli allenatori - non solo Previti - per far giocare i figli titolari. I coach, esausti, chiudono i cancelli alle famiglie. Meazza del resto era orfano.
«La Repubblica» dell’11 gennaio 2008

L’aedo Omero sui lidi albanesi

Un’ipotesi sulla vera patria del poeta
di Giovanni Mariotti
Come ha ricordato Luciano Canfora sul Corriere della Sera di sabato scorso, Omero non era, a detta di Vico, un singolo individuo, bensì un intero popolo; per il romanziere inglese Samuel Butler era una donna (ipotesi simpatica e anche credibile: i giapponesi hanno davvero, all’origine della loro letteratura, un Omero femmina, la Murasaki); e nelle ultime settimane l’austriaco Raoul Schrott ha formulato l’ipotesi che si trattasse di uno scriba della Cilicia al servizio degli Assiri. «Inventare Omero è un gioco innocente», ha scritto Canfora. La prendo come un’autorizzazione a giocare. Dopotutto il fatto che si tratti un gioco «innocente» non comporta che sia del tutto privo di significato. Attribuire una patria e un’identità a Omero vuol dire, per un occidentale, indicare la scaturigine della poesia... il luogo in cui, miticamente, si udì per la prima volta la musica dei versi. Io ho una mia ipotesi. Credo di sapere dove nacque Omero. Sette città greche si disputavano l’onore di avergli dato i natali... ma la città dove Omero nacque veramente non appartiene a quel novero. Secondo una tradizione, ripresa da Virgilio nel terzo canto dell’Eneide, due esuli da Troia, la vedova di Ettore, Andromaca, e il mite e scolorito indovino Eleno, avevano fondato sulla Riviera albanese, dopo una vita travagliata, una sorta di piccola Troia anastatica uguale in tutto e per tutto a quella che avevano abbandonato. Una «Troia Miniatur». Perché l’avevano fondata? Non certo per iniziare una nuova storia, con nuovi assedi e nuove battaglie e nuove flotte che avrebbero attraversato i mari, ma per sigillare le loro storie, che erano alla fine. Lì, a Butroto (così era stata chiamata quella Ilio che Virgilio avrebbe definito «piccola e simulata»), in quelle case e in quelle vie che non erano tanto quelle di una «vera» città, quanto l’immagine, o la reminiscenza, o la rappresentazione di un’altra, nacque Omero. Forse furono proprio Andromaca ed Eleno, o perlomeno qualche Troiano o qualche Troiana che ne avevano condiviso il destino, a nominare per la prima volta davanti a quel ragazzino, a volte attento e a volte stranamente distratto e lontano, certi personaggi... o a raccontare episodi che sarebbero entrati a far parte, come tessere di un mosaico, dei suoi poemi. L’arido ruscello lungo il quale camminava si chiamava Xanto, ma non era il «vero» Xanto... e le porte sotto cui passava ogni giorno venivano chiamate Scee, ma non erano le «vere» porte Scee. In quei luoghi Omero trascorse la giovinezza. Dalla riva del mare o da un’altura avrà osservato il profilo di un’isola i cui contorni si andavano via via dissolvendo, sino a diventare nuvola (si trattava di Corfù, dove più tardi avrebbe collocato Nausicaa, Alcinoo, la corte dei Feaci, e se stesso nelle vesti di Demodoco, l’aedo cieco...), e a partire da quel profilo sempre un po’velato... giacché gli occhi si andavano spegnendo... aveva immaginato un altrove fluttuante, porti e navi e isole ed eserciti e mostri che sarebbero esistiti soltanto in virtù dei suoi versi. Non sapeva se le storie che di continuo udiva raccontare (non si faceva altro, a Butroto, città di vecchi: non solo le voci, ma anche le pietre erano racconti) fossero accadute realmente oppure no, ma le sue parole non avevano bisogno della cosiddetta «realtà». Una copia che la evocasse, magari in modo infedele, una simulazione, un colore, una nuvola sul punto di disfarsi, nomi di isole e popoli sconosciuti che affioravano all’improvviso in mezzo al discorso, come profezie ed enigmi: era quanto bastava a muovere il suo canto. Niente accadeva a Butroto, perché tutto era già accaduto. Omero crebbe avvolto da uno strano senso di irrealtà. Via via che cresceva, il fruscio e il calpestio delle sillabe gli sarà sembrato più reale di qualsiasi altra cosa. Diventato aedo, ebbe a dire che gli dei avevano filato «la rovina per gli uomini perché avessero i posteri il canto». Memorabile esempio di cinismo professionale. Da lì a qualche secolo il severo Platone avrebbe definito la poesia «mimesi di mimesi», imitazione di un’imitazione. Se avesse potuto ascoltarlo, è quasi certo che Omero... la cui patria era l’imitazione di un’altra... avrebbe gravemente assentito.
«Corriere della sera» del 9 gennaio 2008

Videogiochi, è l'ora delle regole

La Ue ha varato l'accordo sui contenuti di quelli che sono sempre meno giocattoli e sempre più narrazioni: d'ora in poi verrà indicata un'età minima
di Giuseppe Romano
Nel mondo dei videogiochi è appena successo qualcosa d'importante: un accordo­quadro europeo affinché da ora in poi chi ne compra uno non debba più aspettarsi sgradite sorprese nei contenuti al momento di utilizzarlo. Anche i lettori distratti ricordano le feroci polemiche che periodicamente affollano i giornali riguardo videogame violenti, disgustosi, offensivi, inadatti ai bambini. Si è diffusa l'impressione che spesso i giochi per computer siano volgari e inguardabili, e qualcuno comincia a chiedersi se per caso sia in atto una vera e propria strategia di 'invasione culturale', che attraverso prodotti definiti 'per ragazzi' diffonde contenuti che farebbero impallidire anche un adulto. Non è così. Non del tutto. Per fare chiarezza, però, è bene distinguere piani diversi.
Secondo chi scrive ce ne sono almeno quattro: il piano creativo, quello produttivo, quello educativo, quello commerciale. Cominciamo dal piano creativo perché quando si parla di 'videogiochi' non si può dimenticare che si tratta di un piccolo settore entro un'enorme rivoluzione. L'era digitale ci ha cambiati. Dalle carte di credito al Telepass, dal navigatore satellitare al robot di cucina, le innovazioni si affollano con un influsso pratico, nelle nostre vite, non inferiore a quello che a suo tempo ebbero la luce elettrica, il frigorifero e l'aeroplano.
Dentro l'intenso flusso di parole, immagini, numeri che imbozzola il mondo, le 'storie interattive' - il termine 'videogioco' è limitante - sono l'avanguardia di un nuovo stile espressivo, che utilizza una tecnologia specifica, quella digitale, per raggiungere lo stesso scopo importante che altri canali di espressione e d'arte - la letteratura, il cinema, ecc. - perseguono con mezzi diversi. A partire dagli anni Ottanta si sono diffuse 'storie interattive' di ogni tipo, sempre più sofisticate. Coinvolgendo persone di tutte le età (allora e oggi) e suscitando passioni che vanno oltre l'entusiasmo sia in chi le inventava sia in chi ne fruiva. Produrre videogiochi costa molto e rende ancora di più. Per dare un'idea, il giro complessivo dell'industria ha finito col superare quello del cinema, con un fatturato mondiale attorno ai ventun miliardi di euro. Un mercato in netta espansione, che contende il primato assoluto a quello della musica. E non per caso stiamo utilizzando parole­chiave come industria, mercato, fatturato: elementi che hanno profondamente trasformato il panorama, spostando l'interesse primario dal piano creativo al piano commerciale. L'artigianato è un ricordo. La competizione tra le
console di ultima generazione, la sorprendente Wii di Nintendo, la massiccia Xbox di Microsoft e la consolidata (ma un po' appannata) Playstation di Sony, nel 2007 tocca livelli da capogiro. Nel 2006, da gennaio a dicembre, le famiglie italiane ci avevano speso 740 milioni di euro (una famiglia su tre possiede una console), e c'è da scommettere che alla fine di quest'anno la cifra sarà più alta. Ragioni di sano pragmatismo, se non altre, fanno intuire che l'interesse dei produttori dovrebbe coincidere con quello dei consumatori: acquistare una console implica decidere che da quel momento in poi si compreranno giochi in quel formato e non in altri.
Non è interesse di chi produce giochi ingannare chi deve comprarli. E allora com'è possibile che accadano 'infortuni' inaccettabili?
Che genitori sconvolti scoprano i figli alle prese con scene ripugnanti (ma coin­volgenti)? La risposta chiama in causa gli altri due tasselli del puzzle. Sarebbe banale addossare tutte le colpe ai commercianti: ma, d'altra parte, se papà e mamma sotto le feste entrano in un negozio e chiedono qual è il videogame che va per la maggiore, non è detto che trovino una consulenza pedagogicamente azzeccata. Tuttavia, se è vero che un commerciante può legittimamente essere animato dal desiderio di 'piazzare' un prodotto, i genitori dovrebbero a loro volta riflettere sul fatto che forse non si fiderebbero ciecamente al momento di regalare al figlio un libro o un film: dunque, in parte la 'colpa' è anche loro. Esaltata dalla constatazione che mai come in questo momento la gerarchia educativa è apparsa compromessa: non è più vero, non sempre, che gli adulti 'ne sanno di più' dei giovani. Anzi, è acclarato che la perizia e la competenza di un bambino decenne al computer possono essere assai superiori a quelle dei genitori che dovrebbero consigliarlo. Per tutte queste ragioni la recente istituzione della normativa definita 'Pegi' (Pan European Games Information) è significativa.
Essa è tesa anzitutto a mettere i produttori di videogiochi al riparo dalle critiche. E per questa via dovrebbe garantire gli acquirenti rispetto alla qualità e alle caratteristiche di ciò che comprano, più di quanto non lo siano mai state le classificazioni adottate finora. La classificazione Pegi - che viene illustrata sui siti www.pegi.info/it e www.pegionline.eu/it, dove si trova anche una guida per individuare giochi con le caratteristiche desiderate - suddivide i videogame per fasce di età (cinque: dai tre anni in su, dai sei, dai dodici, dai sedici e dai diciotto) e per tipologie di contenuti, raffigurate tramite immagini (linguaggio scurrile, discriminazione, droghe, paura, gioco d'azzardo, sesso, violenza). Sono i medesimi produttori a proporre la classificazione, inviando informazioni e dettagli a un organismo centralizzato di valutazione con potere d'interdizione, di divieto, di sanzione. La proposta viene analizzata e approvata, o modificata. In questo modo l'acquirente dovrebbe avere una certa garanzia di non incontrare sorprese: anche perché, in caso di denunce di cui sia accertata la ragione, i provvedimenti possono arrivare all'obbligo di ritirare il videogioco dal commercio.
Tutti i principali editori di videogame hanno aderito, in parecchie nazioni Ue (solo la Germania è rimasta fuori perché le sue leggi già obbligano i produttori a particolari classificazioni), tra cui l'Italia dove se n'è fatta promotrice Aesvi, associazione nazionale di categoria, che ha agito in sintonia col governo.
Tutto a posto da ora in poi? Almeno, c'è qualche chiarezza in più. Purché i genitori ricordino che nessuno conosce i loro figli meglio di loro.
«Avvenire» dell’8 gennaio 2008