04 gennaio 2008

La moratoria dell’aborto e la politica

Noi rispettiamo la politica, ma la politica rispetti le nostre idee
di Giuliano Ferrara
Non posso impedire a una deputata di Rifondazione comunista di dire che la moratoria è uno strumento retrogrado per ricondurre le donne alla schiavitù procreativa, qualunque cosa significhino queste parole; non posso impedire a una pletora di insigni esponenti pubblici e parlamentari di equivocare, in buona o malafede, e inscrivere la moratoria dell’aborto da noi proposta tra le suggestioni “neoconservatrici” di una santa alleanza con il clericalismo; ho già detto d’altra parte che è una perdita di tempo discutere con le posizioni di chi si è bevuto il cervello, in ogni parte del panorama politico e culturale, e non vuole accettare e nominare le cose per quel che sono, per come si vedono a occhio nudo.
Posso soltanto ripetere che nel quarantennio che ci divide dal 1968 il mondo è migliorato perché ha combattuto l’aborto clandestino e la pregiudiziale condanna di coscienza delle gestanti che non ce la fanno, anche con leggi di tutela dell’aborto in strutture pubbliche, ma è infinitamente peggiorato perché l’aborto di massa, che ha raggiunto e superato la cifra del miliardo, si è via via caratterizzato come aborto selettivo, come pianificazione familiare a sfondo eugenetico, razzista e sessista. Mancano all’appuntamento demografico duecento milioni di bambine, e solo in Asia. È aperta la via al designer baby, cioè alla fabbricazione del bambino oggetto. E tutto questo nel silenzio del mondo laico, al quale appartengo per nascita, per formazione, per cultura: un mondo che ha archiviato e dimenticato, nella più assoluta comodità e convenienza opportunistica, celebri e straordinarie stroncature dell’indulgenza verso l’aborto di un Bobbio, di un Pasolini e di decine di altri grandissimi protagonisti, in tutto il mondo, della vita pubblica.
Non posso impedire ad alcuno, purtroppo nemmeno ad alcune persone che stimo, di pensare che queste idee siano una trouvaille propagandistica, un’arma di lotta politica o, peggio, un marchingegno per soddisfare ambizioni non confessate. Ho sempre avuto un grande rispetto per la politica, che a volte per mestiere deve cavarsi d’impaccio anche con i travisamenti del reale, dell’evidente, del limpido, ma chiedo che la politica rispetti, anche quando non sia in grado di condividerle, idee che maturano nella società, magari in un gruppo o in persone di minoranza. Non ho intenzioni aggressive verso la maggioranza di centrosinistra, per sfruttare le contraddizioni sue interne sui temi etici, come è stato detto, né ambizioni egemoniche sulla minoranza di centrodestra per esercitare un qualche ruolo pilota di cui né io né questo giornale saprebbero cosa farsene. Non coltivo un rapporto di corridoio con il potere ecclesiastico, tutto il bene che penso della capacità di leggere questo tempo dei cristiani e delle loro chiese lo scrivo su questo giornale da anni, quando sia necessario con ironia e sempre con la massima disponibilità ad accogliere ogni tipo di dissenso. Sono felice e contento quando registro imbarazzi per ogni dove, e li rispetto e non polemizzo, e sono felice e contento quando registro adesioni sincere, logiche, argomentate in modo ineccepibilmente rispettoso della profonda, radicale laicità di tutta la questione, da grandi personalità cattoliche come il cardinale Camillo Ruini.
Non sono teocon, parola buffa, non sono niente. Sono una persona, ho il compito di sollevare questioni pubbliche nell’ambito del mio mestiere, inteso come Beruf, come lavoro e vocazione, non come mestieraccio. E lo faccio senza esibizionismi, senza ricattare né giudicare alcuno. Lo faccio perché ci credo. Credo che mettere l’aborto, non fuorilegge, ma al di fuori della coscienza accettata di ciò che sono i diritti umani, sia cosa buona e giusta. Credo che si debba affermare in termini morali e spirituali, ma soprattutto di cultura della nostra esistenza, la libertà di nascere. Credo che si debba passare il 2008 a ripetere: “Fate l’amore, non l’aborto”. E a comportarsi di conseguenza nelle politiche pubbliche.
«Il Foglio» del 3 gennaio 2008

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