22 gennaio 2008

L’aedo Omero sui lidi albanesi

Un’ipotesi sulla vera patria del poeta
di Giovanni Mariotti
Come ha ricordato Luciano Canfora sul Corriere della Sera di sabato scorso, Omero non era, a detta di Vico, un singolo individuo, bensì un intero popolo; per il romanziere inglese Samuel Butler era una donna (ipotesi simpatica e anche credibile: i giapponesi hanno davvero, all’origine della loro letteratura, un Omero femmina, la Murasaki); e nelle ultime settimane l’austriaco Raoul Schrott ha formulato l’ipotesi che si trattasse di uno scriba della Cilicia al servizio degli Assiri. «Inventare Omero è un gioco innocente», ha scritto Canfora. La prendo come un’autorizzazione a giocare. Dopotutto il fatto che si tratti un gioco «innocente» non comporta che sia del tutto privo di significato. Attribuire una patria e un’identità a Omero vuol dire, per un occidentale, indicare la scaturigine della poesia... il luogo in cui, miticamente, si udì per la prima volta la musica dei versi. Io ho una mia ipotesi. Credo di sapere dove nacque Omero. Sette città greche si disputavano l’onore di avergli dato i natali... ma la città dove Omero nacque veramente non appartiene a quel novero. Secondo una tradizione, ripresa da Virgilio nel terzo canto dell’Eneide, due esuli da Troia, la vedova di Ettore, Andromaca, e il mite e scolorito indovino Eleno, avevano fondato sulla Riviera albanese, dopo una vita travagliata, una sorta di piccola Troia anastatica uguale in tutto e per tutto a quella che avevano abbandonato. Una «Troia Miniatur». Perché l’avevano fondata? Non certo per iniziare una nuova storia, con nuovi assedi e nuove battaglie e nuove flotte che avrebbero attraversato i mari, ma per sigillare le loro storie, che erano alla fine. Lì, a Butroto (così era stata chiamata quella Ilio che Virgilio avrebbe definito «piccola e simulata»), in quelle case e in quelle vie che non erano tanto quelle di una «vera» città, quanto l’immagine, o la reminiscenza, o la rappresentazione di un’altra, nacque Omero. Forse furono proprio Andromaca ed Eleno, o perlomeno qualche Troiano o qualche Troiana che ne avevano condiviso il destino, a nominare per la prima volta davanti a quel ragazzino, a volte attento e a volte stranamente distratto e lontano, certi personaggi... o a raccontare episodi che sarebbero entrati a far parte, come tessere di un mosaico, dei suoi poemi. L’arido ruscello lungo il quale camminava si chiamava Xanto, ma non era il «vero» Xanto... e le porte sotto cui passava ogni giorno venivano chiamate Scee, ma non erano le «vere» porte Scee. In quei luoghi Omero trascorse la giovinezza. Dalla riva del mare o da un’altura avrà osservato il profilo di un’isola i cui contorni si andavano via via dissolvendo, sino a diventare nuvola (si trattava di Corfù, dove più tardi avrebbe collocato Nausicaa, Alcinoo, la corte dei Feaci, e se stesso nelle vesti di Demodoco, l’aedo cieco...), e a partire da quel profilo sempre un po’velato... giacché gli occhi si andavano spegnendo... aveva immaginato un altrove fluttuante, porti e navi e isole ed eserciti e mostri che sarebbero esistiti soltanto in virtù dei suoi versi. Non sapeva se le storie che di continuo udiva raccontare (non si faceva altro, a Butroto, città di vecchi: non solo le voci, ma anche le pietre erano racconti) fossero accadute realmente oppure no, ma le sue parole non avevano bisogno della cosiddetta «realtà». Una copia che la evocasse, magari in modo infedele, una simulazione, un colore, una nuvola sul punto di disfarsi, nomi di isole e popoli sconosciuti che affioravano all’improvviso in mezzo al discorso, come profezie ed enigmi: era quanto bastava a muovere il suo canto. Niente accadeva a Butroto, perché tutto era già accaduto. Omero crebbe avvolto da uno strano senso di irrealtà. Via via che cresceva, il fruscio e il calpestio delle sillabe gli sarà sembrato più reale di qualsiasi altra cosa. Diventato aedo, ebbe a dire che gli dei avevano filato «la rovina per gli uomini perché avessero i posteri il canto». Memorabile esempio di cinismo professionale. Da lì a qualche secolo il severo Platone avrebbe definito la poesia «mimesi di mimesi», imitazione di un’imitazione. Se avesse potuto ascoltarlo, è quasi certo che Omero... la cui patria era l’imitazione di un’altra... avrebbe gravemente assentito.
«Corriere della sera» del 9 gennaio 2008

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