22 gennaio 2008

Sessantottini: il fallimento di un’élite

di Mark Lilla
Quando la Germania era nel vortice di quelli che oggi chiamiamo 'gli anni Sessanta', i commentatori conservatori coniarono un termine antipatico per descrivere l’antipatico radicalismo dell’epoca: verspätete Widerstand. Significa 'resistenza tardiva'. Dietro c’era la convinzione che i giovani tedeschi che rapivano gli amministratori delegati, lanciavano bombe e picchiavano i poliziotti stessero inconsapevolmente mettendo in scena il dramma di quella resistenza al nazismo che non c’era stata negli anni Trenta. Nella politica vedevano una specie di pantomima nella quale i pubblici ufficiali erano fascisti, gli uomini d’affari erano collaborazionisti, le scuole erano carceri, i soldati erano assassini e i genitori erano la polizia segreta. Non riuscivano a vedere che la Germania era diventata una sana democrazia liberale, un pilastro dell’Occidente.
In realtà, non erano granché interessati al presente. Quello che li eccitava era la possibilità di rimettere in scena la storia vergognosa della Germania moderna, scritturando se stessi nel ruolo dei protagonisti di un rifacimento cinematografico nel quale avrebbero redento la patria.
La resistenza tardiva contribuisce di gran lunga a spiegare le dinamiche psicologiche di quella generazione europea. Sembrava che accettare la pace e la prosperità della nuova Europa significasse dimenticare la realtà del fascismo e del genocidio del passato, seppellirlo. La rabbia per quell’enorme rimozione si manifestò negli anni Sessanta con il disprezzo della sinistra studentesca per la democrazia liberale occidentale, e con un’esaltazione romantica delle tirannie del Terzo Mondo. Molti dei giovani di quelle affascinanti fotografie di dimostrazioni di piazza a Parigi e Berlino, che gridavano «Ho, Ho, Ho Chi Minh», indossando magliette di Che Guevara e brandendo il Libretto Rosso di Mao Zedong, intendevano dire proprio quello che scandivano: che avrebbero preferito Ho, Che o Mao ai loro leader democraticamente eletti. Solo verso la fine degli anni Settanta, dopo che i boat people cambogiani e vietnamiti raccontarono storie di massacri, si ebbe una crisi di coscienza.
Ora si parlava dei diritti universali dell’uomo e della necessità di difenderli, possibilmente con le rivoluzioni di velluto, ma se necessario con le forze armate internazionali. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta quell’ideale ha dato esiti positivi. I governi europei occidentali scelsero timidamente di non schierarsi pubblicamente a fianco dei movimenti anticomunisti nell’Europa dell’Est, per paura di far arrabbiare l’Urss, ma i sessantottini sostennero apertamente le proteste in Polonia e in Cecoslovacchia. Quando scoppiò la guerra dei Balcani, invocarono l’intervento. Ma anche quella era resistenza tardiva. I sessantottini facevano resistenza alle loro stesse gioventù, ai capelloni ingenui che inneggiavano al Che e sbeffeggiavano i soldati, senza chiedersi per cosa stessero combattendo.
Oggi le questioni più gravi che l’Europa deve fronteggiare – immigrazione e terrorismo – hanno poco o nulla a che fare con gli schiamazzi di un tempo. I Paesi europei si trovano a ospitare milioni di nuovi immigrati, in prevalenza musulmani, e non riescono a integrare loro o i loro figli nella società. Si tratta di una situazione senza precedenti nella politica europea moderna. E se mai c’è stato bisogno di un pensiero fresco, è oggi. Eppure ancora una volta la generazione del Sessantotto si è arenata nel passato, in più di un passato. Negli ultimi tre decenni la sinistra europea ha guardato al problema dell’immigrazione esclusivamente attraverso le lenti dell’antisemitismo e del colonialismo del passato. L’immigrazione andava accolta come un modo per riscattarsi dai peccati passati. Chiunque sollevasse dubbi sul fatto di integrare i nuovi arrivati veniva etichettato come razzista, o peggio.
L’espressione della frustrazione per il fatto che l’Europa stesse cambiando faccia portò negli anni Ottanta a spiacevoli fenomeni di destra come Jean-Marie Le Pen in Francia o Jörg Haider in Austria. La solidarietà con gli immigrati sembrava la strada nobile da percorrere, e capitava che i sessantottini dessero asilo a quelli minacciati di rimpatrio e guidassero fiaccolate contro il razzismo. Gli olandesi andavano fieri della diversità di Amsterdam, e i progressisti tedeschi abbracciavano i loro vicini turchi. I sessantottini francesi furono tra gli ideatori del gruppo Sos Razzismo, che stampò spillette alla moda sulle quali era scritto 'Giù le mani dal mio amico!'. La legislazione moderata per controllare l’immigrazione non approdò a nulla, grazie soprattutto all’opposizione dei sessantottini.
Ma dopo l’11 settembre in Europa l’aria è cambiata, e gli stessi sessantottini si sono divisi. Gli olandesi sono stati bruscamente svegliati dal brutale assassinio del regista Theo van Gogh, nel 2004, per mano di un fanatico musulmano. I tedeschi continuano a ricevere notizie degli omicidi d’onore che coinvolgono famiglie turche residenti in Germania. Nel 2005 le periferie francesi sono state sconvolte dagli scontri guidati dai figli degli immigrati. E i britannici si stanno ancora domandando il senso delle bombe di Londra, messe da terroristi che vi erano cresciuti. Molti sessantottini guardano ancora al problema dell’immigrazione alla luce degli anni Trenta e conservano la loro fede multiculturale nella tolleranza come panacea. Ma ha fatto la sua comparsa un gruppo dissidente, che vuole che i nuovi immigrati si adeguino al programma occidentale, e subito. Consapevoli di avere flirtato con il dispotismo negli anni Sessanta, alcuni importanti intellettuali europei ora si considerano gli unici difensori della libertà contro l’'islamo-fascismo' e i suoi simpatizzanti multiculturalisti.
Sono scioccati (comprensibilmente) dalle minacce di morte contro chi critica l’islam come Ayaan Hirsi Ali, la scrittrice fuggita dall’Olanda per rifugiarsi nel conservatore American Enterprise Institute di Washington.
Sono scioccati (comprensibilmente) dalla repressione delle donne in molte famiglie immigrate. E sono scioccati (comprensibilmente) dalle minacce alla libertà di espressione da parte di chi si ritiene offeso nella propria sensibilità religiosa.
Il problema di tutti questi shock è che li causa un problema che la generazione del Sessantotto ha, in gran parte, contribuito a creare. Una valutazione più sobria e realistica della questione dell’immigrazione, senza fissarsi sul passato europeo, avrebbe aiutato a raddrizzare quelle politiche lassiste che hanno condotto l’Europa in questo stallo.
Ma ora in Europa abitano milioni di nuovi immigrati con le loro famiglie, molte delle quali sono musulmane e non condividono le convinzioni culturali e intellettuali moderne.
Cosa fare? Un passo avanti ragionevole sarebbe quello di incoraggiare, all’interno della comunità musulmana, figure moderate credibili che incoraggiano la convivenza. Una di queste è il pensatore svizzero Tariq Ramadan, che ha un largo seguito tra i giovani musulmani istruiti che sperano di conciliare i loro convincimenti religiosi con la vita nell’Occidente moderno. Ramadan non è un liberal democratico illuminato, ma il suo messaggio offre motivi teologici per credere che i musulmani possano vivere pacificamente in Occidente senza considerarlo un territorio alieno e ostile [...].
Sono richiami difficili, ma molti più se ne dovranno fare nei prossimi decenni. Gli europei sono in acque inesplorate e per navigarvi avranno bisogno di un forte senso della realtà. Le fantasie sul rimettere in scena drammi del passato non fanno che rendere più difficile il compito.
Narcisisticamente concentrati sul proprio significato storico, i sessantottini semplicemente non sono preparati a pensare al futuro dell’Europa. Spetterà a una generazione nuova, più matura.
(© 2007, Newsweek, Inc. e, per l’Italia, Avvenire. All rights reserved. Reprinted by permission. Traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 13 gennaio 2008

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