27 febbraio 2008

Sinistra pentita. Torniamo al latino

È stata giusta l’abolizione nella scuola media e nella liturgia? A destra si parlò di "delitto cattocomunista" . La rivista "MicroMega" riapre la discussione
Di Paolo Di Stefano
Carlo Bo: "Un declino che non va addebitato alla politica". Cesare Segre: "Tutti uguali ma sul piano dell’ignoranza". Edoardo Sanguineti: "Chi prega deve sapere cosa dice"
Chi ha ucciso il latino? Semplice, il delitto e’stato consumato da un complotto cattocomunista. Cosi’, almeno, la pensavano un tempo i difensori della lingua di Cicerone. Si’, perche’a ben guardare, a far fuori il latino sono stati innanzitutto i riformatori di sinistra che sin dal dopoguerra hanno fatto dell’abolizione del latino nelle scuole medie un vero e proprio simbolo ideologico, quasi che rinunciando al latino si desse una picconata alla scuola di classe. Battaglia vinta, in nome della popolarita’se non del populismo. E proprio mentre il parlamento italiano rinnovava (si fa per dire) la scuola media, la Chiesa cattolica celebrava il secondo Concilio vaticano da cui emergeva l’esigenza "pastorale" di aprire la liturgia ad altre lingue. A ricordarci ora quella doppia spinta ai danni della lingua latina e’Giancarlo Rossi, architetto per professione, ma soprattutto ("per intervalla insaniae", come dice lui stesso) convinto assertore dell’utilita’di conoscere la cultura antica e redattore della rivista "Latinitas" oltre che frequentatore assiduo del circolo milanese "Sodalitas latina". Ed e’curioso che sia proprio un periodico di sinistra a farsi portavoce di questa appassionata difesa della lingua degli avi: l’articolo di Rossi, che si presenta come una appassionata e "argomentata difesa dell’importanza e dell’attualita’della lingua che ha formato la nostra civilta", apparira’sul prossimo numero di "MicroMega". Il latino, secondo Rossi, e’stato un palese "segno di contraddizione" nella nostra societa’. Innanzitutto per la scuola: per un quindicennio, nel dopoguerra, convegni, disegni di legge, consulte didattiche, inchieste ministeriali affrontarono la questione del latino, finche’prevalse la "tesi abolizionista" grazie alla forza retorica dei riformatori, che con "un’enfasi sconfinante nel fanatismo" ebbero buon gioco ricordando soprattutto i trascorsi fascisti della lingua imperiale. Ai difensori non restava che esprimere tutto il loro "disorientamento" di fronte a quei "pedagoghi cattolici ispirati al pragmatismo americano e ad un attardato russovismo e accademici di sinistra". I quali "fondavano la loro opzione su un voluto equivoco semantico: confondevano infatti insegnamento del latino con insegnamento grammaticale del latino". Fu, come sottolinea Rossi, un "successo solo politico e di facciata". Ma stanno proprio cosi’le cose? E, in caso contrario, di chi è la vera responsabilità della scomparsa del latino? Infine, non sara’a sua volta un eccesso di enfasi, quello di Rossi? Risponde Cesare Segre, secondo il quale l’"apologia" di Rossi e’ampiamente condivisibile: "A parte il fatto che il latino e’una lingua bellissima, bisogna ricordarsi che tutto sommato noi parliamo ancora latino, un latino rinnovato, certo, ma pur sempre latino. Il latino è il connettivo tra le lingue romanze ed e’quindi utilissimo per la comprensione. Non a caso ci fu chi propose di usarlo come lingua universale al posto dell’esperanto". Invece, ormai, il futuro e’tutto dalla parte dell’inglese: "Sarà l’inglese la nostra seconda lingua: è una soluzione indubbiamente più pratica. Però, non dimentichiamo che il latino rimane una lingua di cultura indispensabile. Entrando in una Chiesa, in qualunue parte del mondo, il latino era una lingua che ti faceva sentire a casa: ora, con i riti regionalizzati o provincializzati, manca un rito universale, al massimo si puo’seguire la messa attraverso i gesti del celebrante. La Chiesa e’corresponsabile del declino del latino: abolendolo dalla liturgia, ha cancellato quella nobilta’del rito che era percepibile anche da un laico. Le preghiere in italiano, poi, sono a dir poco orribili". Quanto agli schieramenti politici che si sono formati attorno alla questione del latino nelle scuole, Segre taglia corto: "Semplicemente la sinistra considerava il latino la lingua dell’aristocrazia, convinta che svigorire il latino era un modo per rendere tutti uguali. Certo, abolendo il latino tutti diventavano uguali, ma sul piano dell’ignoranza". E’ anche vero, come ricorda Edoardo Sanguineti, che ha pesato sul latino il rilancio fascista: "Penso che ci fu, in eta’fascista, un culto molto artificioso fondato sull’idea di romanita’e sulla retorica del ritorno all’impero. Da li’sono derivate tutte le fanfaluche di chi riteneva indispensabile la conoscenza del latino per il nostro modo di pensare e per la nostra struttura logica: era questa l’impostazione su cui si reggeva la cultura dei figli della Lupa. Un’iperbole. Ma prescindendo dalle questioni politiche, il fatto che il latino sia stato abbandonato dalla Chiesa gli ha inferto un altro colpo mortale poiche’attraverso la liturgia manteneva ancora una sua vitalità d’uso nella società. Certo, per i credenti si trattava di una lingua magica che non comunicava niente". Anche il laicissimo Sanguineti era contrario all’abolizione del latino nella liturgia? "Per carità, ho persino partecipato, giovanissimo, alla traduzione dei Salmi. Mi pareva un lavoro utile, e ancora oggi ritengo indispensabile che chi prega sappia esattamente che cosa dice, pregando. Da laico, penso che depurare la liturgia dal trattamento magico - cabbalistico dovuto al latino sia una buona idea". E a scuola? E’giusto restaurare l’insegnamento del latino? Non proprio, secondo Sanguineti. La questione e’come insegnarlo. Per cui le osservazioni di Rossi non sembrano piacere molto al poeta della neoavanguardia: "Intanto è assurdo trattare il latino come se fosse una lingua viva. E poi, non esageriamo: e’utile per certe direzioni di studio, non per altre. Inoltre, va mantenuto come insegnamento purche’si adottino forme meno approfondite e più sobrie rispetto al passato. Serve soprattutto come rete di informazioni fondamentali e come esperienza di lettura. Alleggerirei di molto lo studio della grammatica: le perifrastiche le lascerei agli studiosi. Insegnate agli studenti, secondo me sarebbero perseguibili come atti osceni in luogo pubblico. E poi, la traduzione dall’italiano al latino va bandita: per chi si interessa di crittogrammi c’è già la Settimana enigmistica...". No, non ci siamo proprio. Per Rossi la versione italiano - latino va difesa con i denti: "La competenza attiva - scrive -, cioè l’addestramento ad usare la lingua, e’la via più breve per conseguire una buona comprensione dei testi, come ben sa la generazione di chi a scuola traduceva dall’italiano in latino". Macche’. Per Sanguineti, le lacune sono altre. Culturali. Per esempio: "Di solito si insegna solo il latino classico e amen. E’ grave che mille anni di latinita’, quella medievale, spariscano nel nulla: invece, sarebbe importante dare l’idea del nostro collegamento con l’antichita’indagando anche il Medioevo latino. Solo cosi’si puo’comprendere il senso di una tradizione che attraverso fratture terribili e difficili ricuciture arriva fino a noi. Studiando solo il latino di Cicerone non si capisce una sola pagina della Bibbia!". E c’è un’altra proposta lanciata da Rossi come una boutade che non va tanto a genio a Sanguineti: l’inno europeo in lingua latina. Perche’? "Perche’sarebbe inutile suscitare il rancore dei Goti o dei Visigoti. Europa non è in sé latinità". Nessuna responsabilita’politica, per Carlo Bo, nel delitto consumato contro il latino. E per quanto riguarda la Chiesa? "Mi sembra giusto che abbia tentato di rendere intellegibile e più diretta la parola di Dio ai fedeli". E il latino lingua d’uso rivendicato da Rossi? "Non sono d’accordo, il latino, pur essendo una lingua formativa per la nostra civilta’, restera’sempre una lingua d’elite".
«Corriere della sera» del 22 novembre 1996

07 febbraio 2008

Orribile Urss, sembra il Reich

La denuncia di Ciliga fra censure rosse e brune
di Dario Fertilio
Un filo invisibile - l’oscura maledizione dei grandi - sembra collegare tra loro Vasilij Grossman e Ante Ciliga. Infatti il capolavoro romanzesco del primo, Vita e destino, proprio come i ricordi autobiografici del secondo (Nel paese della Grande Menzogna, Jaca Book, pp. 455, 35) sono dedicati all’Unione Sovietica. Molto diverse, però, le ambientazioni, dal momento che Vita e destino racconta con toni epici la battaglia di Stalingrado, mentre Ciliga descrive le sue drammatiche esperienze personali, avvenute fra il 1926 e il 1935, in un’area immensa compresa fra gli Urali e l’Oceano Pacifico, il Cremlino e l’arcipelago gulag. Li accomuna però una cosa: l’odio parallelo, e istintivo, che i loro libri finirono per suscitare fra i nazionalsocialisti come tra le fila dei bolscevichi. E non solo a causa del patto siglato nel ‘39 fra Molotov e Ribbentrop, ma anche perché le affinità fra i due sistemi, attraverso le loro descrizioni, balzano agli occhi del lettore. Quando Grossman dipinge la logica sovietica applicata alla difesa di Stalingrado, sembra che stia parlando anche di quella nazista. E quando Ante Ciliga svela i retroscena delle lotte di potere in corso nell’Urss, sottolineando le affinità esistenti fra i due mortali nemici, Stalin e Trotzkij, pare fotografare i regolamenti di conti interni alle gerarchie hitleriane. Il prezzo pagato da entrambi fu la censura, ma quella che subì Ciliga risultò ancora più paradossale. Nel Paese della Grande Menzogna avrebbe dovuto essere pubblicato in Francia nel 1940, e fu l’arrivo delle Panzerdivisionen hitleriane a provocare la sua inclusione fra i libri proibiti: i nazisti si preoccuparono di togliere di mezzo la denuncia degli orrori sovietici che poteva ricordare troppo da vicino i loro stessi mali. Destino ironico, quello di Ante Ciliga. Idealista e refrattario alla menzogna, marxista fino all’ultimo ma nemico della dittatura, mitteleuropeo portato a sentirsi a casa dovunque, da Trieste a Leningrado, letteralmente «consumato dalla curiosità per ogni cosa esistente al mondo», incarnò un tipo umano novecentesco inconfondibile, ma presto destinato a diventare sgradito, anzi intollerabile. Così si spiega perché lui, istriano di nascita, cittadino prima austriaco, poi italiano, jugoslavo, di nuovo italiano, abbia viaggiato da Mostar a Praga, Budapest, Zagabria, Vienna, Mosca, Irkutsk, Milano, Trieste, animato da una sete inestinguibile per la politica, ma sempre senza pace. Solo oggi, nel pantheon dei grandi eretici novecenteschi, può trovare riposo.
Corriere della Sera» del 18 gennaio 2008

L’anima euclidea della modernità

Le opere complete curate da Acerbi
di Armando Torno
Negli «Elementi» una concezione della geometria che non si piega a istanze pratiche
Chi fu Euclide? Difficile rispondere in modo soddisfacente. Di lui ci restano alcune opere, in particolare gli Elementi, la spina dorsale del pensiero matematico, ma non conosciamo le date di nascita e morte né chi frequentasse. La fioritura del suo sapere (fissata al 300 a.C. circa) si ricava da congetture, il carattere è consegnato ad aneddoti, le sue tendenze - Proclo lo colloca tra i più giovani discepoli di Platone - riflettono antichi bisogni di appropriazione. Eppure senza Euclide noi saremmo diversi, e altro sarebbe il nostro modo di guardare e analizzare la realtà. Se il mondo greco indicò all’uomo la via per comprendere numeri e figure oltre l’aspetto pratico - con la scuola di Pitagora, con quella di Elea - con Platone la matematica diventò definitivamente filosofia ed ebbe il compito di elevare la mente oltre le banalità dell’esperienza per vivificarla nella contemplazione del mondo delle idee. Euclide negli Elementi, ovvero nella celebre opera che fu seconda soltanto alla Bibbia per diffusione nei due millenni abbondanti che ci separano da lui, non si rivolge mai alla pratica ed invano si cercherebbe nei tredici libri che la compongono una regola di misura o di calcolo. Egli parla soltanto dei presupposti teorici. Per ricordare un caso, dimostra il teorema sulla proporzionalità dei cerchi ai quadrati dei diametri, ma non accenna ad una determinazione del relativo rapporto costante, vale a dire di quel pi greco che già gli scolari conoscono come 3,14. Euclide, insomma, non fornì degli esercizi ma offrì i presupposti a un metodo: forse per questo le sue opere furono bramate, chiosate, confutate, difese, tradotte, sempre studiate. C’è da farsi tremare i polsi nell’aprire il libro della storia delle sue influenze. Limitandoci a dei semplici cenni, diremo che Imre Toth in Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria (Vita & Pensiero) ricorda che l’inizio dei sistemi non euclidei moderni comincia con alcuni passi del sommo filosofo greco; aggiungiamo che presso i Romani trovò un ambiente ostile, giacché la geometria teorica era vista quasi esclusivamente in funzione di quella pratica. Ma Boezio, all’inizio del VI secolo - oltre cent’anni dopo il primo Concilio di Toledo, che scagliò l’anatema contro astrologia e matematica - sentì la necessità di tradurre gli Elementi. Troviamo Euclide nel mondo bizantino, soprattutto nell’islamico, anzi il primo fece da ponte per il secondo; la versione araba di Thabit ben Zurra lo farà ritornare in Occidente perché sarà la base di quella latina di Gherardo da Cremona (1114-1187), subito seguito da altri: a cominciare da Giovanni Campano da Novara (Ruggero Bacone lo cita con rispetto), cappellano di Urbano IV. Sarà Luca Pacioli a spiegare all’amico Leonardo da Vinci molte cose di Euclide e sarà ancora il magnifico greco a guidare la rinascita del XVII secolo: impensabile buona parte delle opere scientifiche di Cartesio senza la sua presenza, così come l’Etica di Spinoza, che avrà bisogno del suo metodo. In quel tempo si arrivò a parlare di un «Euclide spirituale», ma è storia troppo vasta per queste righe. La geometria si fece strada ribellandosi a Euclide, a partire dal famoso quinto postulato. Ma egli è ancora nei libri di scuola del mondo contemporaneo: siamo euclidei nell’anima, anche se cerchiamo una nuova assiomatica e le matematiche inseguono altri orizzonti. Tutto questo discorso lo poniamo in margine a un lavoro commovente, da poco uscito nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, diretta da Giovanni Reale. È un’opera che mancava: la traduzione italiana, con testo a fronte, di Tutte le opere di Euclide (pp. 2.734, 41). La cura si deve a Fabio Acerbi. C’è un’introduzione di 776 pagine che è un saggio tra i più esaurienti sul matematico greco e sulle sue opere. Vi trovate, oltre gli Elementi (persino i libri XIV e XV non autentici), i Data, l’Ottica e la Catottrica, i Fenomeni, gli scritti musicali o Sectio canonis. Fabio Acerbi merita più di un elogio e in questo lavoro c’è la sua vita e qualche vendetta: lo si capisce leggendo locuzioni quali «imperversano i gringos», forse rivolta - per usare una battuta di Anacleto Verrecchia - ai blocchi e ai commerci culturali organizzati dal «bestiame accademico».
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2008

Così fan tutti

Sanità e tessere
di Gian Antonio Stella
«AAA. Cercasi radiologo targato Ds». «AAA. Cercasi pediatra vicino An». «AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc». Dovrebbero avere l’onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della «Mastella Dynasty»: la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità. Il business della salute pubblica è visto dai segretari e dai capicorrente come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi. Da Sud a Nord, per le Regioni di un colore o di un altro. «Nel nostro ambiente si procede soltanto grazie al partito. Fra destra e sinistra non ci sono differenze. Hanno la stessa voracità», dice un chirurgo. Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia. A donna Alessandrina, che oltre a preparare cicatielli con ragù di tracchiole si diletta di spartizione di poltrone, sarebbero servite «due cortesie: una in Neurochirurgia e una in Cardiologia». Il marito invece, a sentire lo sfogo telefonico del consuocero Carlo Camilleri, si sarebbe arrabbiato assai per «l’incarico di primario a ginecologia al fratello di Mino Izzo... Ma ti pare... Proprio il fratello di uno di Forza Italia che è di Benevento ed è contro di me... Ma non teniamo un altro ginecologo a cui dare questo incarico?». Vi chiederete: che se ne fa Clemente d’un ginecologo «suo»? E poi, con nove milioni di processi pendenti e i tagli folli ai bilanci dei tribunali e i giudici che si portano la carta igienica da casa, come faceva il ministro della Giustizia a trovare il tempo di occuparsi della bottega clientelare? Ecco il punto: è in corso da anni, ma diventa sempre più combattuto e feroce, un vero e proprio assalto dei segretari, dei padroni delle tessere, dei capicorrente al mondo della sanità. Visto come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi. Vale per il Sud, vale per il Nord. Per le regioni d’un colore o di un altro. Nella Vibo Valentia in mano al centrosinistra ardono le polemiche sulla decisione di distribuire 40 primariati (di cui 38 a compaesani vibonesi: evviva l’apertura alle intelligenze mondiali), 85 «primariati junior» e 153 bollini d’«alta specializzazione» in coincidenza con le primarie del Pd e il consolidamento del Partito Democratico Meridionale di Loiero, capace di folgorare un uomo noto in città come il primario del 118 Antonio Talesa, prima con An. Nel Veneto divampano quelle sull’«arroganza» (parola del capogruppo leghista in Regione Franco Manzato) di Giancarlo Galan. Il quale è messo in croce da un paio di settimane dai suoi stessi alleati del centro-destra per le nomine dei direttori generali nelle Asl. «Poltrone per la Lega, una. Per An, zero. Per l’Udc, zero. Per i fedelissimi del presidente, tutte le altre», ha riassunto un giornale non sinistrorso come Libero. «Un sistema feudale», secondo Raffaele Zanon, di An. In pratica, accusa Stefano Biasioli, il segretario della Cimo, la più antica delle sigle sindacali dei medici ospedalieri, additata come vicina ai moderati, «Galan ha nominato 23 fedelissimi su 24 direttori. Tranne che a Bussolengo (lì ha dovuto cederne uno al sindaco di Verona Tosi) sono tutti suoi. Di Forza Italia...». Ma non diverse sono le accuse, a parti rovesciate, contro la gestione delle Asl «unioniste» toscane, umbre, emiliano-romagnole, «solo che lì il "partito" è così forte che se ne stanno tutti quieti e zitti», rincara Biasioli. Per non dire dei veleni intorno alla distribuzione di cariche nella sanità campana, cuore delle inchieste di oggi. O degli scontri interni alla destra per l’accaparramento dei posti in Sicilia, dove su tutti svetta l’Udc di Totò Cuffaro. Il quale non casualmente è un medico in una terra in cui i medici (compresi quelli legati alla mafia come lo storico «padrino» Michele Navarra o più recentemente Giuseppe Guttadauro) hanno sempre pesato tantissimo. Quanto questo peso sia attuale si è visto, del resto, alle ultime comunali di Messina. Quando tra i candidati c’erano almeno 111 medici. In buona parte ospedalieri. Tra i quali, in particolare, una ventina del «Papardo», la più importante struttura peloritana: il primario di oculistica e quello del laboratorio analisi, il primario di medicina e quello di neurologia, il primario di pneumologia e quelli di chirurgia vascolare, cardiologia, rianimazione. Quasi tutti schierati con An. E indovinate a che partito apparteneva il direttore generale? Esatto: An. «Li hanno militarizzati tutti», accusò indignato Nunzio Romeo, il candidato del Mpa. Peccato che lui stesso fosse medico e presidente dell’Ordine dei Medici e guidasse a nome del medico Raffaele Lombardo una lista con 41 medici. Pietro Marrazzo, il governatore del Lazio, dice che basta, per quanto lo riguarda è ora di finirla: «Se vogliamo marcare una svolta di sistema io ci sto. Sono qui. Disposto a rinunciare già domani mattina alla facoltà di nominare i direttori generali». Ma quanti colleghi lo seguirebbero? E cosa direbbero i partiti che sostengono la sua giunta all’idea di rinunciare alla possibilità di incidere su un settore chiave come questo? E’una tentazione comune a tutti, accusa Carlo Lusenti, segretario dell’Anao: «Se non sempre, la politica mette il naso 9 volte su 10. Per carità, non c’è solo la politica. Ci sono le lobby universitarie, le cordate, i sindacati... Però...». «E’un’intrusione massiccia. Capillare», conferma Biasioli. Capita nella «rossa» Liguria, dove lo scandalo è scoppiato con lo sfogo del presidente della Società ligure di chirurgia Edoardo Berti Riboli: «Nel nostro ambiente si procede soltanto grazie al partito. Fra destra o sinistra non faccio differenze. Hanno la stessa voracità, solo che la sinistra è molto più strutturata». Capita nell’«azzurra» Lombardia dove la stessa Padania scatenò due anni fa una campagna contro «lo strapotere di Comunione e Liberazione negli ospedali regionali». Arrivando a pubblicare un elenco di «primari ciellini» e un’indimenticabile lettera di Raffaele Pugliese. Lettera in cui il primario del Niguarda ricordava ai «suoi» pazienti quanto fosse fantastica la sanità lombarda. Quindi? «Mi permetto di suggerirLe di sostenere la rielezione dell’attuale presidente della giunta regionale Roberto Formigoni». E torniamo al tema: alcuni saranno bravi, altri geniali, altri straordinari. Ma perché dovremmo affidare la nostra pelle a un medico scelto per la tessera? E se il «mio» chirurgo fosse un fedelissimo trombone?
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2008

Storia: immaginazione al potere

Due celebri studiosi si confrontarono sul senso profondo della ricerca e sull’interpretazione dei fatti: un saggio propone quel dialogo Il giudizio di Le Goff Il giudizio di Furet
di Alain Finkielkraut
François Furet e Jacques Le Goff: chi è grande ricrea il passato
Giovedì 29 dicembre 1842, Jules Michelet incominciava in questi termini il suo corso al Collège de France: «Devo ringraziare le persone compiacenti che raccolgono le mie lezioni, ma nel contempo devo pregarle di non dare a questo alcuna pubblicità. Parlo con fiducia a voi, a voi soli, e non alla gente di fuori. Non vi confido solamente la mia scienza, ma il mio pensiero intimo sul tema più vitale. Appunto perché è molto numeroso, molto completo (per età, sesso, province, nazioni...), in questo uditorio sento l’umanità, l’uomo, cioè me stesso. Da me a voi, da uomo a uomo, tutto può dirsi. Sembra che uno solo parli, qui: errore, anche voi parlate. Io agisco e voi reagite, io insegno e voi m’insegnate. Le vostre obiezioni, le vostre approvazioni sono per me molto sensibili (...). L’insegnamento non è, come si crede, un discorso accademico o un’esibizione; è la comunicazione vicendevole, doppiamente feconda tra un uomo e un’assemblea che cercano insieme. La stenografia più completa, più esatta, riprodurrà il dialogo? No, riprodurrà solamente ciò che ho detto e non anche ciò che ho detto: io parlo anche con lo sguardo e con il gesto. La mia presenza e la mia persona sono una parte considerevole del mio insegnamento. La migliore stenografia parrà ridicola perché riprodurrà le lungaggini, le ripetizioni utilissime qui, le risposte che do sovente alle obiezioni che vedo nei vostri occhi, gli ampliamenti che do su un punto, in cui l’approvazione di tale o talaltra persona mi indica che vorrebbe fermarmi. Occorre quindi lasciar volare queste parole alate. Che si perdano, alla buon’ora! che si cancellino dalla vostra memoria, se ne resta lo spirito, va bene. Sta qui ciò che di toccante e di sacro c’è nell’insegnamento. Che sia un sacrificio, che non ne resti niente di materiale, ma che tutti ne escano forti, abbastanza forti per dimenticare questo debole punto di partenza. Quanto a me, se temessi che le mie parole rischiassero di gelare nell’aria e di essere riprodotte così, isolate da colui per il quale avete una qualche benevolenza, non oserei più parlare. Vi insegnerei qualche tavola cronologica, qualche secca e triviale formula, ma mi guarderei dall’apportare qui, come faccio, me stesso, la mia vita, il mio pensiero più intimo». Occorre tuttavia rendere grazie agli editori di Michelet per non averlo ascoltato e a Paul Viallaneix per avere pubblicato da Gallimard l’integralità dei suoi corsi al Collège de France (...). Ogni professore riconoscerà la sua esperienza nella descrizione fatta da Michelet della relazione pedagogica, ma ogni professore dovrà nel contempo misurare l’insormontabile distanza che lo separa da Michelet: sia all’orale sia allo scritto. Michelet è poeta e, anche se è praticata con stile, la ricerca della verità ha rotto con la poesia. Come dire che, per i contemporanei, Michelet non è più una fonte d’ispirazione o un pensiero vivo, ma un monumento letterario e un oggetto di storia? François Furet e Jacques Le Goff, voi avete entrambi contribuito a rinnovellare la disciplina storica. Quando leggete, di pugno di Michelet, che «la condizione imposta alla Storia non è più di raccontare solamente o di giudicare, ma di evocare, di rifare, di risuscitare le età» e che «il dovere dello storico è di dare assistenza ai morti troppo dimenticati», è ancora o è già della vostra pratica che parla? François Furet Michelet resta per noi, storici della Rivoluzione, un esempio ineguagliato: è il più grande storico della Rivoluzione che ci sia stato. È vero che non lavorava come lavoriamo noi: ha letto molti più stampati e archivi di quanto non si dica generalmente ma, come le persone dell’Ottocento, cita poco le sue fonti (o, se lo fa, lo fa in modo intermittente e ineguale). Di straordinario e che potrebbe apparire lontano da noi, senza in verità esserlo in alcun modo, ha soprattutto che tiene conto del lavoro dell’immaginazione. La storia è una disciplina in cui c’è il 50% di fatti e il 50% di immaginazione, anche quando si lavora su dati che sono numerosi come nel caso della storia moderna e contemporanea. Finkielkraut Lei direbbe quindi che questa proporzione vale anche per gli storici di oggi? Furet Assolutamente! Si riconoscono i grandi storici dal lavoro dell’erudizione, da un lato, e dal lavoro dell’immaginazione e dell’intuizione, dall’altro. A questo riguardo, la storia non sarà mai una scienza sociale come un’altra, perché è un lavoro, se non di risuscitazione, in ogni caso di risurrezione del passato. E la risurrezione del passato è il lavoro dell’immaginazione. I grandi libri di storia traggono il loro valore e il loro mistero dal fatto che sono più veri e fanno più appello degli altri all’immaginazione. Jacques Le Goff Sono pienamente d’accordo con François Furet. Ho coscienza della distanza, come Lei diceva, che c’è tra il mio lavoro di storico e Michelet, che si può ben definire un «genio». Detto questo, voglio soprattutto insistere sui modi in cui mi sento prossimo a Michelet. Devo a questo Corso, che non conoscevo, di avere scoperto un Michelet più prossimo alla mia pratica di quanto non pensassi dalla lettura delle sue grandi opere. In effetti, questo Corso ci fa vedere l’immaginazione all’opera su alcuni documenti. Credo che, per quanto concerne le pratiche e la concezione della Storia, occorra ridurre la distanza che si mette troppo volentieri tra Michelet e noi: occorre ridire, come ha appena fatto François Furet, che Michelet, per la sua epoca, era un erudito. Egli amava gli archivi e prendeva già come documenti ciò che noi stiamo scoprendo, ossia le opere letterarie e le opere d’arte. Non dimentichiamo d’altronde che l’urto da cui faceva dipendere la sua vocazione storica era stata la visita al recinto degli agostiniani, dove Alexandre Lenoir aveva riunito alcune sculture. Riprendo quindi a mia volta la formula di François Furet: nella storia c’è il 50% di erudizione e il 50% di immaginazione. Ritengo l’immaginazione veramente necessaria allo storico. La storia che cerchiamo di fare oggi, molto differente e nel contempo molto vicina, ha ritrovato questo tipo di ispirazione. La modernità di Michelet mi è molto fortemente apparsa in questo testo. Alla fine, Furet ha fatto allusione a una formula che ci seduceva e nel contempo ci infastidiva quando eravamo apprendisti storici, ammiratori già di Michelet: è la formula in cui si tratta della «risurrezione integrale del passato». Non ci sembrava possibile darlo come obiettivo alla Storia, perché ci sembrava per così dire antistorico volere far rivivere tale e quale il passato. Occorre che il passato riviva attraverso la differenza. Ma, qui, ho visto ciò che dà a questa formula ancora la sua piena efficacia per noi: Michelet ha piena coscienza di parlare dei morti. «Amare i morti è la mia immortalità», scrive per esempio. Ci mostra come ci sia un trattamento dei morti che resta ancora oggi un obiettivo per gli storici. Osservo infine che, nella formula della «risurrezione integrale del passato», «integrale» è un termine importantissimo: Michelet appare in questo Corso, più che nelle altre sue opere, come se avesse veramente compiuto quello che era stato attribuito ai fondatori della rivista «Les Annales» ma che questi non erano mai veramente riusciti a definire né a realizzare esattamente, ossia la storia totale o globale. Michelet lo ha fatto, e si potrebbe anche mostrare come questa passione storica debordi sul mondo della natura... Finkielkraut Restiamo per un istante ai morti: «Avevo una bella malattia che incupì la mia giovinezza ma molto appropriata allo storico. Amavo la morte. Avevo vissuto nove anni alle porte del Père-Lachaise, allora mia unica passeggiata. Poi, abitai verso la Bièvre, in mezzo a grandi giardini conventuali, altri sepolcri. Conducevo una vita che il mondo avrebbe potuto dire interrata, senza altra società che quella del passato e per amici i popoli sepolti. Rifacendo la loro leggenda, risvegliavo in loro mille cose svanite». Viene, un po’più avanti, questa confidenza straordinaria: «Il dono, che san Luigi chiede e non ottiene, io lo ebbi: il dono delle lacrime». Michelet oppone il dono delle lacrime come qualità dello storico all’obiettività di Spinoza secondo cui non bisogna «né ridere né piangere ma capire». Lei, da quale lato si situa? Furet (...) Michelet fa uno straordinario lavoro di ascesi per scendere nel mondo dei morti. Ciò corrisponde peraltro nella sua vita personale a una profonda depressione. Poi, all’improvviso, nel mezzo dei suoi Corsi al Collège de France (ossia anche nel mezzo della sua opera), allorché deve affrontare il Rinascimento dopo tre o quattro anni di corsi sul Medioevo, decide di installarsi nel mondo della Rivoluzione francese. (...) A partire dal 1842 o dal 1843 quindi, Michelet si lancia in corsi profetici sulla storia di Francia; si vede così apparire un Michelet per cui la storia è il presente: ha smesso di essere una discesa nel mondo dei morti, per diventare un dialogo con le persone cui si sente appoggiato. (...) Le Goff Lei, Finkielkraut, citava le parole sulle lacrime di san Luigi, e quello è un esempio del grandissimo talento di Michelet. Sono sempre stato colpito dalla prodigiosa intuizione di Michelet (...). In questo testo, sa mettere il dito sul dettaglio significativo, che è il seguente: san Luigi confessa al proprio confessore che il suo più grande motivo di tristezza è di non avere il dono delle lacrime che, per un cristiano del Medioevo, è necessario nel processo di penitenza. Michelet ha còlto che ciò esprime qualcosa di essenziale e di profondo, sia nel cristianesimo medievale sia in san Luigi.
«Corriere della Sera» del 17 gennaio 2008

Atenei «no-Pope» ma per popstar

di Aldo Grasso
Nei commenti sul vergognoso no dell’Università di Roma, detta «La Sapienza», alla visita del Papa, si è cercato di capire chi siano gli sconfitti: una sconfitta del Paese, giusto, perché ancora una volta ha vinto la violenza dei pochi; una sconfitta dei Laici, giusto, perché la laicità stessa è stata incapace di difendere i principi su cui si fonda; una sconfitta della Libertà d’espressione perché un Papa non può parlare all’università della sua città. Ma la sconfitta più grande è dell’università stessa, di tutte le università, del modo con cui oggi si fa cultura in università. Siamo al ridicolo. L’università italiana, «il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere», è quella che sforna in serie le lauree honoris causa a personaggi famosi come Valentino Rossi, Lucio Dalla, Roberto Benigni, Vasco Rossi, Mike Bongiorno, ma nega a uno studioso della statura di Joseph Ratzinger di parlare. Quando hanno laureato Valentino Rossi, si è sottolineato il talento del motociclista nel «creare eventi spettacolari, costruendo spazi di teatralizzazione capaci di muovere un’ondata comunicativa che valica le frontiere dei media nazionali». Talento di cui, evidentemente, è sprovvisto il Papa. Questa è l’università italiana. Quando hanno laureato Vasco Rossi, il noto cantante è stato definito «un mito e un brand». Il rettore ha poi aggiunto: «Nessuno avrebbe laureato, ai loro tempi, né Oscar Wilde, né Pasolini, né Edith Piaf: l’università deve anticipare i riconoscimenti di valore». Ma, a Papa Ratzinger, La Sapienza ha negato persino il diritto di parola. Questa è l’università italiana. Quando hanno laureato Lucio Dalla, hanno sentenziato: «Dalla ha cercato di comprendere la società, la storia e le religioni ed è stato un’antenna ricevente e trasmittente». Benedetto XVI non è nemmeno un’antenna. Questa è l’università italiana: Libera & Laica, No-Pope ma molto Popstar.
« Corriere della Sera » del 17 gennaio 2008

Kabul proibisce il film sui ragazzi afghani: «Incita alla violenza»

Stop alla pellicola tratta dal libro di Hosseini
di Maria Volpe
Al bando «Il cacciatore di aquiloni». Sotto accusa la sequenza dello stupro di un minorenne: «Scene inaccettabili, turbano la popolazione»
Chiunque lo abbia letto è rimasto toccato e affascinato dal romanzo di Khaled Hosseini. Qualcuno deciderà di vedere il film che ne è stato tratto (per poi fare il paragone e decidere se è meglio il libro o il film), ma qualcuno non potrà vederlo. Il cacciatore di aquiloni, infatti, non sarà distribuito in Afghanistan: le autorità lo hanno proibito perché sostengono che incita alla violenza razziale. «Sulla base delle istruzioni del ministero della Cultura e dell’informazione, l’importazione e la proiezione del film Il cacciatore di aquiloni sono state vietate» ha detto Latif Ahmadi, direttore dell’organismo statale Afghan Film. «Alcune delle sue scene sollevano dubbi e per alcuni sono inaccettabili: il film potrebbe quindi causare problemi al governo e alla popolazione» ha aggiunto il funzionario. Una scelta appoggiata dallo stesso presidente Hamid Karzai, preoccupato per le ricadute negative sull’alleanza politica fra hazara e pashtun, entrambi sostenitori del governo. La pellicola di Mark Foster (che in Italia uscirà il 15 febbraio) ripercorre gli ultimi trent’anni di storia afgana, attraverso l’amicizia tra il giovane Amir erede di un ricco signore pashtun, e Hassan, figlio del suo servo hazara. Il film - prodotto dalla Paramount Vantage e per l’appunto basato sul best seller dell’autore afghano emigrato negli Stati Uniti - ha già causato molti problemi. Non a caso il diktat dalla Afghan Film arriva dopo mesi di polemiche che avevano spinto i giovanissimi protagonisti afgani del film a vivere diversi mesi all’estero, per il timore di finire nel mirino dei talebani. Il padre dell’attore che interpreta il piccolo Hassan aveva dichiarato a suo tempo di non essere stato informato che ci sarebbe stata una scena di stupro e, una volta scoperto il fatto, aveva chiesto venisse tagliata. «La gente in Afghanistan non capirà che si tratta di finzione», aveva detto il padre. Il film è uscito negli Stati Uniti il mese scorso, dopo alcuni ritardi dovuti alle straordinarie misure di precauzione prese per le preoccupazioni sulla descrizione nel film dello stupro e altre scene di conflitto. Ma nel mondo il libro ha venduto moltissimo: ha scalato le classifiche di decine e decine di Paesi, tanto che la Dreamworks di Steven Spielberg ne ha comprato i diritti e ha deciso per l’appunto di farne un film. Una sola cosa è certa: la censura non impedirà la circolazione del film in Dvd pirata.
«Corriere della Sera» del 16 gennaio 2008

04 febbraio 2008

Il Calvino virtuale. Come Kundera

Un saggio di Arturo Mazzarella sul rapporto tra letteratura e digitale
di Paolo Di Stefano
Sono i padri dell’immateriale. «Palomar» anticipa la rete
Tutto comincia con Henry James e con quelle che lui definiva le molteplici finestre aperte nella «casa della narrativa». Se proprio dobbiamo individuare un nonno nobile della virtualità, bisogna risalire all’autore del Giro di vite, lucido analista dell’arte del romanzo. Secondo Arturo Mazzarella, che al rapporto tra virtuale e letteratura ha dedicato un interessante saggio (La grande rete della scrittura, Bollati Boringhieri, pagine 128, 15, in uscita domani), è ora che la critica metta da parte il suo arcinoto «orgoglio di casta». Quello che ha unito in un’unica battaglia a difesa del primato del sapere umanistico e della Letteratura intellettuali di estrazione e impostazione diversissima quali, per esempio, Fortini e Citati. Insomma la presunta estraneità della letteratura alla rete mediatica sarebbe stata (e sarebbe tuttora), per la «casta» letteraria, la garanzia dalla sua (e forse anche della propria) superiorità. Invece. Alla Letteratura si oppone una scrittura letteraria più «laica», che si propone, senza puzza sotto il naso, quale serbatoio di ibridazione e di commistione con altri linguaggi. E se in origine c’era James, Mazzarella non esita a individuare i padri di un filone più recente (diciamo dagli anni ‘90 a oggi) la cui esperienza si intreccia e spesso si sovrappone con quella della rivoluzione digitale. Senza alcun antagonismo. Il principio da cui si parte, e che viene ribadito con insistenza nel libro (sulla base dei più acuminati studi teorici in materia), è che il virtuale è un dispositivo concettuale prima che tecnologico. E come tale appartiene alla letteratura ben prima di approdare in ambito digitale: vi appartiene, come James aveva intuito un secolo fa, in una particolare accezione che poi diventerà indispensabile supporto per tutti i nuovi media. La virtualità è essenzialmente moltiplicazione dei punti di vista e il punto di vista è alla base delle manipolazioni e dislocazioni realizzate oggi dai film e dai video d’arte e dai «più accattivanti congegni illusionistici predisposti dai videogame o dall’animazione digitale». E si badi bene, avverte l’autore, di evitare un equivoco diffuso: virtualizzazione non è scarto dalla realtà, invenzione di frontiere alternative, ma scavo nella percezione, dilatazione delle potenzialità del reale. Mazzarella insegna Letterature comparate a Roma. E fa giustamente valere la sua competenza trasversale (dal cinema ai video, appunto) e transculturale, senza troppo preoccuparsi di occultare le proprie preferenze. Siamo nei primi anni Ottanta, quando i due «battistrada» Calvino e Kundera provano ad anticipare in due romanzi-chiave della contemporaneità quella che sarà «la flessibilità e contingenza del punto di vista» e la «libertà di movimento» che caratterizzeranno poi il virtuale tecnologico. Si tratta di Palomar (1983) e de L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984). Da una parte ci sono le «peregrinazioni prospettiche» del signor Palomar e il suo «microscopico scrutinio del visibile». Dall’altra la frenetica moltiplicazione di visuali, di incastri e di sovrapposizioni, le storie parallele, le infinite diramazioni dell’«albero delle possibilità» cui obbediscono i personaggi di Kundera. Detto questo, eccoci agli eredi più agguerriti presi in esame da Mazzarella. Si tratta di autori tra loro anche molto difformi per ispirazione e per stile, ma tutti finiscono per flirtare con l’universo dell’immateriale e con i labirinti delle possibilità e delle congetture, con l’idea di narrazione come rete virtuale. In tal senso è persino facile individuare nel capolavoro di Don De Lillo, Underworld, la pietra miliare di questa coraggiosa «scrittura letteraria» che si sottrae alla tirannia antiquata e anacronistica della Letteratura (vedi sopra alla voce «casta»): gigantesca epopea costruita sulle peripezie vissute da una palla di baseball, secondo le connessioni più acrobatiche e più improbabili tra microstorie individuali e storia collettiva. Sono davvero tanti i nomi e i titoli chiamati a raccolta per dimostrare quanto la letteratura sia stata capace non solo si assecondare lo spirito (virtuale) del tempo, ma di promuoverlo mettendo a frutto le risorse del patrimonio espressivo e tutte le strategie tecniche del discorso letterario. Paradossalmente più dei maestri della cyberletteratura come Gibson o Sterling, sono Javier Marias, Martin Amis, Bret Easton Ellis, Ballard, Foster Wallace quelli che formano la compagine più consapevole e la punta di diamante della contemporaneità nell’esaltare, senza feticismi, quel carattere virtuale che è proprio del testo letterario. Seguendo opzioni non omogenee, ovviamente, che posso insistere sulla dimensione del tempo o dello spazio. E su questa strada non mancano gli italiani, come il «nomade» Gianni Celati narratore centrifugo delle «Pianure» o come Pier Vittorio Tondelli, viandante per «città fantasma» e attraverso scenari immateriali quali la Rimini anni Ottanta. Una specie di videogioco la cui «rete dei possibili» si offre nella sua illusionistica apparenza.

Ma è così difficile mettere un indice? I nuovi orizzonti della scrittura, fra tradizione letteraria e innovazione digitale. Ottimo sottotitolo per il libro di Arturo Mazzarella. Ma è possibile che in piena e trionfante rivoluzione digitale, sia così difficile per un editore riuscire a chiudere un saggio (sia pure non scientifico o universitario) con un modesto indice dei nomi? Di quelli che permetterebbero di «navigare» tranquillamente nella pagina scritta come abbiamo imparato a fare con Internet. Di quelli che quando ancora la rivoluzione digitale era di là da venire si faceva di tutto per allestire, sia pure manualmente, a beneficio del lettore? Ciò non vale solo, ovviamente, per Bollati Boringhieri.
«Corriere della Sera» del 16 gennaio 2008

Quella citazione di Feyerabend: l’epistemologo che criticò Galileo

La frase contestata 1990: Ratzinger e il brano del filosofo contro lo scienziato
di Antonio Carioti
L’allora cardinale non voleva giustificare la condanna dello scienziato
Paul K. Feyerabend, lo studioso citato dal Papa, prendeva di mira il metodo galileiano perché non riconosceva alla rivoluzione scientifica un valore oggettivo. Era convinto che si fosse imposta non per la sua razionalità, ma per via delle «macchinazioni propagandistiche di Galileo». A suo dire, Galileo non si basa su evidenze empiriche, ma «inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici». Si spiega così, con lo spirito dissacratore del filosofo della scienza nato in Austria e affermatosi nel mondo anglosassone, la citazione che l’allora cardinale Joseph Ratzinger fece in una conferenza del febbraio 1990 proprio alla Sapienza di Roma. «La Chiesa all’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione»: queste parole di Feyerabend, tratte dall’edizione tedesca del suo saggio Contro il metodo, sono la pietra dello scandalo. L’epistemologo, allievo ribelle di Karl Popper, non stava però tessendo l’elogio dell’Inquisizione. Si proponeva semmai di dimostrare che non esistono regole invariabili nello sviluppo della conoscenza scientifica e che in particolare Galileo vinse la sua battaglia per l’affermazione della cosmologia copernicana soprattutto «grazie al suo stile e alle sue capacità di persuasione», ricorrendo ai «mezzi della propaganda» e utilizzando anche «trucchi psicologici», perché in realtà non disponeva di prove sufficienti ad affermare la propria tesi. Il punto di partenza delle rivoluzione scientifica galileiana, secondo Feyrabend, «è costituito da una forte convinzione, che contrasta con la ragione e l’esperienza contemporanee». Perciò il filosofo mostra comprensione per il cardinale Roberto Bellarmino, accusatore di Galileo, che suggeriva di considerare l’eliocentrismo solo una congettura, anche per non compromettere «la pace sociale» con teorie capaci di turbare la fede dei semplici. C’è anche un elemento provocatorio nelle affermazioni di Feyerabend, che nega l’esistenza di un confine netto tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, giungendo a rivalutare stregoneria e astrologia, fino a reclamare una «separazione fra Stato e scienza» simile a quella fra Stato e Chiesa. La sua polemica contro l’oggettività della conoscenza scientifica è peraltro condivisa da un pensatore assai lontano da Ratzinger, Gianni Vattimo, secondo il quale il valore delle teorie dipende soprattutto dal fatto che riescano a convincere, a trovare consenso nella comunità degli studiosi. Viceversa Marcello Pera, oggi grandissimo ammiratore del Papa, da filosofo della scienza avanzava precise riserve in materia, nell’introduzione scritta nel 1984 per il libro di Feyerabend Scienza come arte, difendendo l’idea di un «progresso cumulativo» nella conoscenza scientifica, pur consapevole che le sue tesi potevano «apparire conservatrici». Quanto a Ratzinger, è evidente dal contesto della citazione che il Papa non sposa la visione di Feyerabend, né intende usarla retrospettivamente per giustificare la condanna di Galileo. Ma vuole affermare che la razionalità scientifica ha dei limiti, posti in rilievo dalla critica più spregiudicata, e quindi va ricompresa «in una ragionevolezza più grande» di carattere filosofico e aperta alla trascendenza.
La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione P. Feyerabend, Wider den Methodenzwang, Frankfurt/Main 1976, 1983, p. 206
Filosofo della scienza, Paul K. Feyerabend è nato a Vienna nel 1924. Dopo il dottorato, segue i corsi di Karl Popper alla London School of Economics. Si trasferisce poi negli Usa, dove insegna filosofia a Berkeley. È morto nel 1994.
«Corriere della Sera» del 16 gennaio 2008

Fisichella: l’Università è diventata un centro sociale

Il vescovo ausiliare di Roma: è stato un oltraggio e un atto di intolleranza che non sembrava possibile
di Luigi Accattoli
«È un oltraggio al Papa, un atto di intolleranza che non si immaginava possibile nella Roma di oggi. Ma è anche un’umiliazione per l’Università la Sapienza che patisce un danno di immagine di fronte al mondo, risultando ostaggio di una piccola frangia di studenti e docenti che si ispirano a un’idea settaria di laicità»: è il commento del vescovo ausiliare di Roma e rettore dell’Università lateranense Rino Fisichella.
Lei è uomo di università: come prende questa notizia? «Il primo sentimento è di tristezza al vedere come una grande università, la più grande d’Europa, viva in un regime di intolleranza di fatto, che la mette in contraddizione con se stessa, cioè con quello che dovrebbe essere un’università: un luogo del confronto più aperto tra le diverse posizioni culturali. Sessanta professori ne condizionano quattromila e un gruppo di studenti emargina un’intera popolazione studentesca».
In questa vicenda «triste» trova qualche insegnamento? «Sì, che ormai viviamo sotto il fattore "i"...».
«I» come informazione, suppongo. Eccellenza se la prende con i media? «No, "i" come ignoranza, come intolleranza e come intransigenza laicista. Intolleranza di un ambiente accademico nei confronti di una persona che fu docente universitario e che è uno dei più grandi teologi del XX secolo. Intransigenza laicista che corre il rischio di sfociare in un fondamentalismo scientista di cui non si sentiva proprio il bisogno. I cultori di questa posizione non vogliono neanche ascoltare chi la pensa in altro modo».
Diceva anche «ignoranza»... «È ignoranza rivendicare la qualifica di "scienza" alle sole materie matematiche e fisiche, come è stato fatto in questa occasione quasi non esistessero le scienze umanistiche ed è ignoranza estrapolare una frase da un testo del cardinale Ratzinger per attribuirgli un atteggiamento di denigrazione di Galileo che mai egli ha avuto».
Non sarà che semplicemente ha vinto una posizione coerentemente laica? «No! Abbiamo assistito a un sopruso di una minoranza facinorosa. Che è poi una vittoria di Pirro, perché il Papa subisce l’umiliazione di non poter andare all’Università ma quella minoranza ha infangato la Sapienza, dandone un’immagine da Centro sociale o da Circolo culturale dei no-global. Io mi auguro che questo triste episodio dia luogo a uno scatto di responsabilità che aiuti al recupero della dignità che spetta a quell’istituzione».
E se di mezzo ci fosse anche un di più di rigore nella predicazione del Papa, che gli attira l’avversione laicista? «Per la predicazione del Papa si può parlare di chiarezza e non di "rigore", a meno che non si intenda il rigore scientifico».
Se la Chiesa si profila sulla scena pubblica non dovrà attendersi di andare incontro a reazioni critiche? «È certo che le dovrà attendere ed è giusto che tali reazioni si facciano sentire, ma questa non è critica: questo è impedimento a parlare».
Quale sarà stata la ragione ultima della decisione del Papa? «Egli è uomo di pensiero e la figura papale è segno di unità. Vedendo che non c’erano le condizioni per ragionare e che la sua presenza diveniva pretesto per violenze, ha scelto di togliere il pretesto».
«Corriere della Sera» del 16 gennaio 2008

194: da modificare, con realismo

di Dino Boffo
Approfitto di questa lettera per chiarire a tutti quello che, secondo me, dovrebbe essere già chiaro ma che tuttavia conviene ripetere, se non altro per venire incontro a voi più giovani, che tante cose non potete presupporle.
Il Concilio Vaticano II dà una definizione icastica: «L’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (GS.51). Da queste parole evidentemente non si sfugge. Tanto più che oggi, con l’ecografia, davvero non ci sono dubbi che quello che sta dentro la pancia della mamma è un essere appartenente alla specie umana, una creatura come me. Punto.
Parliamo chiaro, per sbrogliare ogni lettura impropria. La legge 194, che il prossimo 22 maggio compie trent’anni, è una legge inaccettabile poiché in casi ben determinati legittima esplicitamente l’uccisione di un essere umano che non perché ancora piccolissimo è meno umano di me. Questo autentico cratere posto al centro di una legge che – ricordiamolo – detta «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza» finisce per inquinare anche quegli articoli – ad esempio dall’1 al 3 – che vogliono dare attuazione alla prima metà del titolo e che sono mossi da una logica positiva ma pur sempre condizionata dall’obiettivo della norma stessa. Ora, quando si parla in pagine come le nostre di dare una piena attuazione alla 194 non si vuol dire che, presa nel suo insieme, questa legge è positiva. No: si cerca piuttosto di ricordare che nella legge, oltre agli articoli che regolamentano l’atto abortivo, ci sono anche quelli – assai espliciti, sebbene sistematicamente aggirati nella prassi – che ne restringono il campo. E la legge, che resta iniqua per aver consentito un fatto «abominevole», diventa apprezzabile (in senso etimologico) quando afferma che l’interruzione volontaria della gravidanza «non è un mezzo per il controllo delle nascite», né tanto meno per selezionare prima della nascita i figli sani da quelli 'malriusciti'. Lo sterminio durante la gravidanza dei bambini down per effetto delle dilaganti pressioni sulle gestanti per una sempre più invasiva e ansiogena diagnosi prenatale è lì a dimostrare che va fermato l’uso eugenetico dell’aborto, denunciato mesi fa su 'Le Monde' persino da un laico come il presidente del Comitato francese di bioetica Didier Sicard. Chiedere di attuare le parti 'positive' della legge non equivale a un apprezzamento assoluto ma relativo. Piuttosto che un male più grande, meglio, molto meglio un male minore, considerando che la 194 parla di vite umane che vengono soppresse e che invece si possono salvare, una a una se fosse necessario (e lo è). Siccome si ha la percezione che non vi sia ancora una maggioranza disposta a rivedere la legge, mi è fatto obbligo – mentre contribuisco con determinazione e coerenza a preparare condizioni culturali migliori – di cooperare con tutti coloro che ci stanno perché all’aborto non si arrivi per leggerezza, paura o disperazione. Questo significa porsi su quel piano della prevenzione alla scelta di abortire che oggi incontra un’area crescente di consensi.
Quando su 'Avvenire' si legge la frase «non vogliamo cambiare la legge» non si segue tanto quello che si desidera ma si compie un atto di realismo. Solo dei buontemponi o chi ci giudica senza leggerci può equivocare sulla volontà generale che presiede a questo giornale da quand’è nato. Il che spiega anche la nostra disponibilità a cooperare con tutti quelli che, come me, vogliono estendere la persuasione che l’aborto è sempre un fatto terribile. Una convinzione, questa, che prescinde dalla carta d’identità culturale o religiosa di ciascuno e chiama in causa la condivisione profonda di ciò che è umano, razionale, intuitivo. Per questo c’è da essere riconoscenti a Giuliano Ferrara per la generosità con la quale sul 'Foglio' ci aiuta a smascherare ipocrisie e opportunismi culturali all’ombra dei quali ha prosperato la sostanziale accettazione della tragica pratica dell’aborto come «contraccettivo postumo», secondo la denuncia che ne faceva 22 anni fa il filosofo liberale Nicola Abbagnano in una lettera ad 'Avvenire': «In questi casi – aggiungeva, e sono parole che sembrano scritte oggi – non c’è alcuna ragione che lo giustifichi, sicché diventa senz’altro un attentato alla sacralità della vita».
Parliamo, allora, di cose concrete, fattibili, efficaci. Spingiamo insieme lo Stato, le Regioni, gli enti locali, autorità pubbliche ed energie private, chiunque abbia anche solo la chance di aiutare una madre (e un padre) il più delle volte soli, impauriti o male informati ad accogliere il loro bambino: perché chi deve e chi può promuova e sviluppi servizi, iniziative, progetti a ogni livello per evitare che «l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite». Lo prescrive l’articolo 2 della 194, una legge dello Stato che da trent’anni non ci piace perché apre la porta alla soppressione di esseri umani, ma che può essere modificata. A partire dalla sua attuazione troppo spesso aberrante.
«Avvenire» del 13 gennaio 2008

«Fu la religione luterana a favorire l’ascesa di Hitler»

L’elettorato protestante e il desiderio di redenzione. Le tesi dello storico Wirsching sullo «Spiegel»
di Danilo Taino
Il prossimo 30 gennaio è il 75esimo della presa del potere del Führer
L’affermazione è forte: c’è un filo di continuità che lega Hitler a Martin Lutero. E che dunque rende tedesco, tutto tedesco nel Dna, il nazismo. Senza scuse esterne. Questo filo sarebbe «il desiderio struggente di redenzione», il bisogno del messia che la popolazione luterana viveva in misura totale per matrice religiosa. L’analisi viene da uno storico di valore, Andreas Wirsching, che insegna Storia moderna e contemporanea all’Università di Augsburg, in Baviera, regione profondamente cattolica. La sostiene in un’intervista al settimanale «Der Spiegel» in edicola oggi. La base di partenza, in effetti, è scioccante: se si guarda la mappa elettorale del voto alle elezioni tedesche del 31 luglio 1932, si nota che nel Sud della Germania, prevalentemente cattolico, e nella Renania, anch’essa con alte percentuali di cattolici romani, il partito nazista in genere non superò il 19% dei voti e spesso si fermò anche prima: tanto per smitizzare il fatto che Monaco fu la culla del nazismo. È nelle altre regioni, a grande prevalenza protestante, che Hitler sfondò: se si esclude Berlino, che bocciò drasticamente il futuro cancelliere, la Prussia e il Nord della Germania diedero allo Nsdap in molti casi la maggioranza assoluta. Il risultato fu un 37 e mezzo per cento a livello nazionale che consentì al Führer di forzare la situazione e salire alla Cancelleria nel gennaio successivo. L’analisi si inserisce in un lungo dibattito destinato nelle prossime settimane a riprendere quota: il prossimo 30 gennaio, infatti, è il 75esimo anniversario della presa del potere di Adolf Hitler e le domande sulle origini del nazismo in un Paese come la Germania torneranno all’ordine del giorno. La ricerca è quella - che forse non avrà mai esito definitivo - di una spiegazione del come sia stato possibile quello che accadde nei 13 anni successivi, pochi ma così immensi da lasciare senza fiato. Wirsching invita a separare le questioni economiche della Repubblica di Weimar, che pure furono essenziali per la presa del potere da parte dei nazisti, da quelle psicologiche che dovrebbero spiegare l’adesione di gran parte dei tedeschi al regime. Ed è in queste caratteristiche psicologiche che individua la continuità «specificamente tedesca»: il luteranesimo che si incarnò, in Germania, nel bisogno di trovare un valore messianico di redenzione nella Nazione. Molti non saranno d’accordo.
«Corriere della sera» del 14 gennaio 2008

L’Olanda e i super spinelli: rendono tossicodipendenti

Dietrofront: il sindaco di Rotterdam ora chiude 29 «coffee shop»
di Luigi Offeddu
Cresciuti del 25% i giovani che vanno in ospedaleUna concentrazione alta di tetraidrocannabinolo, il principio attivo, viene ottenuta secondo alcuni con modifiche genetiche
Negli ultimi due anni, è aumentato del 25 per cento il numero dei giovani olandesi registrati presso ambulatori e ospedali per seguire una terapia contro la dipendenza da cannabis. Motivo presunto: l’eccessiva concentrazione negli spinelli di «thc» o tetraidrocannabinolo, il principio attivo della sostanza. Una concentrazione ottenuta, secondo alcuni esperti, anche grazie a semi modificati geneticamente, cioè alla cosiddetta «super-marjiuana Ogm» (la stessa che, nel 2003, fu al centro di inchieste ed arresti in Svizzera, nel Canton Ticino, e in altri Paesi). L’allarme olandese, giunto da fonti ufficiali, ha confermato nelle sue decisioni Ivo Osptelten, laburista convinto e sindaco di Rotterdam: entro il 2009, ha stabilito con un decreto, chiuderanno per sempre i battenti 29 coffeeshops, o bar dove si vende cannabis in tutte le forme, la metà di tutti i coffeeshops della città, situati nel raggio di 200 metri dalle scuole. «Vogliamo scoraggiarne l’uso fra i giovani - questa la spiegazione ufficiale -, è roba che fa male alla loro salute e al loro cervello». E Rotterdam è la seconda città d’Olanda, Paese che oltre trent’anni fa tenne a battesimo la «gedogen», o politica della tolleranza attiva verso le «droghe leggere». Oggi, su questi temi, lassù è in atto quasi una rivoluzione: lo spinello visto non più come simbolo di liberazione, ma di potenziale allarme sociale e sanitario. Un po’perché il «turismo degli spinelli» in arrivo da tutta Europa è diventato in sé un problema per molte città, ma soprattutto per quella storia del «thc» superconcentrato. La sua concentrazione media era al 3-5% negli anni Settanta, e non superava il 10% una decina di anni fa: ma ormai - anche se i controlli costanti sono naturalmente impossibili - sfiorerebbe il 25%. Come nel resto dell’Europa, la cannabis resta anche in Olanda la sostanza stupefacente di uso più comune: secondo l’Osservatorio europeo sulla droga, hanno ammesso di averla usata almeno una volta nella vita circa 70 milioni di adulti europei, in media il 22% della popolazione fra i 15 e i 64 anni (con punte di oltre il 29% in Italia e in Gran Bretagna). E anche in Olanda, si sono registrate le stesse tendenze di fondo. Da un lato il numero dei consumatori si è stabilizzato, mentre salivano i consumi di cocaina. Dall’altro, nel caso degli spinelli, c’è stata la brutta sorpresa - o quasi - dei problemi di salute in aumento. Già nel rapporto 2006 dell’Osservatorio nazionale sulle droghe, riferito al 2001-2005, si delineavano le due tendenze: stabile il numero dei consumatori di cannabis fra i 15 e i 64 anni, e in aumento del 22% quelli che chiedevano di essere curati. Gli ultimissimi dati sono ancora più seri. Fra i soli consumatori in età scolare, l’aumento di coloro che hanno avuto problemi è stato invece del 12%, e soltanto dal 2004 al 2005. I pazienti registrati nei vari centri erano 1.950 nel 1994, e 5.500 nel 2005. La vendita della cannabis - limitata a 5 grammi per cliente - è ancora una realtà in tutti i coffeeshops dell’Olanda. Ma sono gli stessi coffeeshops che stanno scomparendo. Ad Amsterdam, la chiusura dei locali è stata giustificata con le ristrutturazioni urbanistiche nella «zona rossa». A Rotterdam, non c’è stato bisogno di scuse. A Maastricht, c’è un sindaco che chiede licenze più libere per i coffeeshops. Ma è un sindaco controcorrente.
La cannabis è una pianta a ciclo annuale della famiglia delle Cannabinacee. L’altezza varia tra 1,5 e 2 metri, ma in sottospecie coltivate può arrivare fino a 5. I preparati psicoattivi, come l’hashish e la marijuana, sono costituiti dalla resina e dalle infiorescenze femminili La storia La pianta è stata utilizzata fin dai tempi del Neolitico; la cannabis veniva fumata dalla setta siriana degli Hashashin, da cui prese il nome l’hashish. Ganja, il termine sanscrito per la cannabis, è ora sinonimo di marijuana nella cultura rastafariana, che la ritiene indispensabile per la meditazione e la preghiera

Manu Chao «Welcome to Tijuana, tequila sexo y marijuana» cantava nell’album Clandestino l’ex voce solista dei Mano Negra. Gli Articolo 31 nel ‘94 hanno dedicato una canzone a «Maria»: «Ricordo quando l’ho incontrata al parco, vestita in verde con quel suo profumo buono»,. Negli anni ’70 Bob Marley: per il re del reggae, «l’alcol distrugge mentre l’erba costruisce», perché «quando fumi erba conosci meglio te stesso».
«Corriere della sera» del 15 gennaio 2008

Il laicismo obbligatorio

L’università e il Pontefice
di Ernesto Galli Della Loggia
Non manda un suono per nulla limpido la protesta che si sta organizzando per impedire la visita del Papa all’Università di Roma, in programma per giovedì prossimo. Sia chiaro: è assolutamente lecito non condividere, e quindi criticare pubblicamente, l’idea d’invitare il Papa alla Sapienza: ma una cosa è questa, e tutt’altra cosa è protestare giudicando inammissibile l’invito, e di conseguenza cercare di far sì che concretamente la visita non avvenga. Proprio questo invece sta accadendo, sicché la protesta in corso sembra rispondere al puro e semplice intento di impedire la presenza e insieme la parola a chi risulta ideologicamente sgradito. Lo ha chiarito apertamente in un’intervista di ieri al Corriere uno dei più illustri tra gli aderenti alla protesta, Alberto Asor Rosa, illustrandone il merito in questi termini: «Non si può prescindere da un magistero pontificio fortemente connotato da posizioni conservatrici e reazionarie». Dal che sembra ragionevole dedurre che se, puta caso, l’orientamento del Papa (naturalmente sempre secondo l’inappellabile giudizio di Asor Rosa) fosse stato invece «progressista e democratico», allora la protesta non avrebbe avuto motivo d’esserci, e perciò probabilmente non ci sarebbe stata. Un punto di vista, ce lo consentirà Asor Rosa, che ricorda sgradevolmente quegli episodi, di cui in passato si sono rese responsabili più volte alcune università italiane, quando al loro interno si è cercato (spesso con successo) di impedire di prendere la parola a studiosi ebrei o israeliani perché considerati vicini a posizioni «sioniste». In realtà, come ha detto bene il rettore di Roma 3 Guido Fabiani, da sempre vicino alla sinistra e per sua ammissione un non credente, ma che tuttavia nel 2002 invitò Giovanni Paolo II nel suo ateneo, «l’esercizio della libertà di ricerca ha bisogno del rispetto e del confronto di valori». E’davvero necessario aggiungere che un tale confronto non può che essere con i valori diversi dai propri? Un’eguale, forte, perplessità suscita l’altra motivazione addotta dalla protesta, quella che contesta al Papa, per usare sempre le parole di Asor Rosa, le «continue intromissioni nella vita privata e pubblica del Paese». Ma anche qui: cosa è questo se non un giudizio di evidente natura politica, sul quale peraltro, Asor Rosa ne converrà, la metà o forse più del Paese non sarebbe d’accordo? Ora, nessuno pensa che sia illecito esprimere simili giudizi all’università e fuori, ma la protesta che si annuncia giovedì, è bene ribadirlo, non è rivolta già a esprimere giudizi, bensì a impedire a qualcun altro, cioè al Papa, di aprire bocca. Ma se si accettasse oggi una cosa del genere, mi chiedo, come potremmo allora condannare, come invece sia pur retrospettivamente facciamo, le gazzarre organizzate per esempio, nel 1923-24, dagli studenti fascisti fiorentini per impedire a Salvemini e Calamandrei di tenere lezione? In verità, dietro molte voci che animano la protesta (e che ne spiegano l’asprezza) c’è un’idea più radicale e più inquietante. L’idea che la visita di un papa significhi, in quanto tale, la violazione dello statuto pubblico, e perciò pluralista, dell’istituzione universitaria. C'è l’idea che in una democrazia che vuole essere tale la religione debba essere esclusa da qualsiasi spazio pubblico; che esistono orientamenti culturali e ideali - e quelli religiosi sarebbero i primi tra questi - i quali sono radicalmente incompatibili vuoi con la società democratica e con il suo ethos pubblico, vuoi più in generale con una moderna visione del mondo. E che quindi nell’università possa trovare posto e avere corso esclusivamente quello che si autodefinisce compiaciutamente il «libero pensiero». Idea inquietante che mette inevitabilmente capo a una sorta di obbligatorio laicismo di Stato, di pubblica preferenza sociale accordata all’irreligiosità: tutta roba in cui l’autentica tradizione liberale si è sempre ben guardata dal riconoscersi, ravvisandovi giustamente una più che probabile anticamera del dispotismo.
«Corriere della sera» del 15 gennaio 2008

La lezione di Voltaire valga anche per il Papa

di Pierluigi Battista
Ma davvero, impedire a chicchessia di parlare ed esprimere un pensiero in una sede universitaria sarebbe un’esuberante manifestazione di libertà dissidente? Sommergere di fischi, intimidirlo, intimargli il silenzio, tutto questo una prova di «libertà polemica», come ha detto un Enrico Boselli elettrizzato dal vento di contestazione che soffia sulla visita di Benedetto XVI alla Sapienza di Roma? E se un gruppo di bigotti clericali interrompesse, tanto per dire, un discorso del matematico Piergiorgio Odifreddi, e se un drappello di papalini agguerriti impedisse, tanto per dire, lo svolgimento di un convegno di socialisti, questa sarebbe inqualificabile sopraffazione, espressione di becera intolleranza e arroganza? O no? E allora, in che consiste esattamente la differenza? Eppure si dice: libero fischio in libero Stato. Ma allora deve valere sempre. O forse è meglio che non valga mai. Se cento persone non vogliono il Papa all’Università e ne sconsigliassero con i loro metodi chiassosi la presenza, verrebbe leso il diritto di chi invece vuole ascoltare ciò che il Papa ha da dire. Si ha troppo fiato per comprimere i fischi che spontanei sgorgano dal cuore? Si aspetti la conclusione del canto, come fanno i loggionisti contrariati dalla performance del baritono. Dopo, non prima. Altrimenti non sarebbe dissenso, ma pregiudizio. Non contrarietà a un argomento ma sordità preventiva al cospetto di qualsiasi argomento. Un attacco alla persona, non a una tesi. Intolleranza pura. Com’è che i libertari, i refrattari a ogni dogma, le persone aperte e miti come Boselli, non riescono a capire una cosa tanto semplice? Ma il Papa non dovrebbe mettere piede in una laica Università, obiettano. Sì, ma obiettano sempre quando a farne le spese sono gli altri. Pensate se un gruppo di ultras neofascisti avesse fisicamente ostruito un ingresso universitario per annullare una prolusione accademica di Dario Fo. Come l’avrebbe chiamata, il mite Boselli: «libertà di polemica»? Ma, obiettano ancora, se la Chiesa aspira a un ruolo pubblico, a esercitare un ruolo politico, allora non dovrebbe scandalizzarsi se qualcuno manifesta la sua ostilità, non a una fede ma a una posizione politica. Ma l’ostilità organizzata, con i goliardi del laicismo che a Roma si apprestano a sfilare, così pare, in una irriverente «frocessione» nei viali dell’Università, è appunto un’ostilità a priori, a prescindere da ciò che si dirà e di come lo si dirà. E poi, parlare non è un delitto. Svolgere un ruolo politico, nell’ambito delle leggi, è una facoltà prevista dalla Costituzione di cui si celebrano in questi giorni i sessant’anni. La democrazia è un’arena dove, se non si scontrassero tesi contrapposte, si assisterebbe a uno spettacolo avvilente, al trionfo del pensiero unico, dove vince chi fischia più forte. Non citano sempre, i maestri della tolleranza, quel detto di Voltaire sull’insopprimibile diritto a esprimere un’opinione anche se radicalmente in contrasto con la propria? Ma chissa perchè la lezione di Voltaire dovrebbe valere per tutti ma non per Benedetto XVI. Purtroppo i fischiatori non rinunceranno alla loro kermesse. I campioni del laicismo potrebbero rinunciare però a sostenerli. In nome della laicità, beninteso.
«Corriere della sera» del 14 gennaio 2008

03 febbraio 2008

Le scelte anti-apartheid

Il mercato del lavoro
di Pietro Ichino
Il regime di vero e proprio apartheid che condanna tanti giovani bravissimi, soprattutto ma non soltanto nelle amministrazioni pubbliche, a penare per molti anni prima di riuscire a conquistare un posto stabile è l’altra faccia del regime di inamovibilità di cui oggi beneficiano i lavoratori «di ruolo». Più questi sono inamovibili, più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della «cittadella». È quello che gli economisti chiamano «mercato del lavoro duale». Di fronte al quale si può proporre l’abolizione di tutte le forme di lavoro flessibile e low cost, in particolare le abusatissime collaborazioni continuative autonome, per costringere le imprese a garantire a tutti i nuovi assunti, con un modello unico di contratto di lavoro, l’inamovibilità di cui oggi gode soltanto metà della forza-lavoro italiana. È, sostanzialmente, la proposta della Cgil, condivisa dalla sinistra radicale. È il ritorno al diritto degli Anni 70 auspicato dal sociologo del lavoro Luciano Gallino nel suo ultimo libro «contro la flessibilità». Ed è un pò quanto il governo sta tentando di fare nel settore pubblico con le norme della Finanziaria che prevedono la stabilizzazione dei precari attuali e danno un giro di vite contro nuovi contratti a termine e collaborazioni «atipiche» in questo settore. Ma quando pure fossero resi inamovibili tutti gli attuali precari e si potesse assumere solo personale di fatto inamovibile, che cosa ne sarebbe delle future leve di giovani? Ci siamo dimenticati che nella seconda metà degli Anni 70, quando c’era solo l’alternativa secca tra il lavoro ultraprotetto e la disoccupazione o il lavoro nero, furono proprio Cgil, Cisl e Uil, per bocca dei Trentin, dei Crea e dei Benvenuto, a chiedere l’istituzione del contratto di formazione e lavoro (cioè di un contratto che oggi verrebbe qualificato come «precario») per facilitare l’accesso al lavoro regolare dei giovani? Nel settore privato, invece, il ministro del lavoro Damiano e il presidente della Commissione Lavoro della Camera Tiziano Treu dichiarano di voler seguire una linea d’azione diametralmente opposta. Su flessibilità e precarietà «non servono altre leggi», ha sostenuto Treu sul Corriere del 2 gennaio: occorre soltanto «modulare meglio le tutele dei vari tipi di lavoro... Per il resto propongo una moratoria legislativa». In altre parole: non si cambia una virgola del vecchio diritto del lavoro, salvo estendere qualche brandello di tutela ai cosiddetti «lavoratori atipici». È l’idea, risalente alla fine degli Anni 90, dello «Statuto dei lavori»; ed è la stessa, a ben vedere, cui si rifà anche il programma del Popolo della Libertà, esposto dall’ex sottosegretario al lavoro Maurizio Sacconi sul Corriere del 31 dicembre. Se nell’assise di febbraio sulla politica del lavoro il Pd farà propria questa linea, ciò significherà di fatto - al di là degli slogan - che il nuovo partito di Veltroni rinuncia a combattere il dualismo feroce del nostro mercato del lavoro: esso si batterà soltanto per spostare qualche precario tra i protetti e per dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori. Se si vuole davvero combattere efficacemente l’apartheid, e al tempo stesso non si vuole che il mercato del lavoro torni a essere inaccessibile alle nuove leve come era divenuto alla fine degli anni ‘70, la strada è una sola. Occorre, sì, un tipo unico di contratto per tutti i lavoratori dipendenti; ma disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa, secondo i migliori standard internazionali; e che tutti ne portino il peso in ugual misura. La riforma potrebbe, per esempio, consistere in questo: per tutte le nuove assunzioni che avverranno d’ora in poi si sostituisce l’attuale «giungla dei contratti» con un solo contratto a tempo indeterminato, che prevede un periodo di prova di sei mesi - oppure otto, come ora in Francia - con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni. Dopo il periodo di prova, l’articolo 18 dello Statuto si applica soltanto per il controllo dei licenziamenti disciplinari e contro quelli discriminatori o di rappresaglia. Per i licenziamenti dettati da esigenze aziendali è invece soltanto il costo del provvedimento a proteggere il lavoratore e a penalizzare l’impresa che ne faccia abuso: chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l’anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un’assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell’impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti. Certo, una scelta di questo genere comporta il problema di infrangere quello che un altro sociologo del lavoro molto vicino alla Cgil, Aris Accornero, ha chiamato «l’ultimo tabù»: l’articolo 18, nella cui difesa a oltranza la sinistra è parsa negli anni passati volersi bruciare i ponti alle spalle. Ed è facilmente prevedibile il fuoco di sbarramento che tornerà a essere scatenato. Ma il Pd, se deciderà di imboccare questa strada, potrà avvalersi di un argomento fortissimo: gli basterà ricordare la disperante inconcludenza di tutto quanto la sinistra è andata proponendo e praticando da dieci anni in qua nella sua lotta contro il lavoro precario. Se si rifiuta la strategia della progressiva redistribuzione delle tutele, ci si condanna all’alternativa che ha paralizzato la politica del lavoro della sinistra in questo ultimo decennio: o il ritorno indietro al diritto del lavoro degli anni ‘70, che significa condannare le nuove leve a una difficoltà enorme per entrare nel tessuto produttivo regolare; oppure i pannicelli caldi dello «Statuto dei lavori», cioè la rinuncia a combattere il dualismo del mercato. La realtà è che la scelta più incisiva ed efficace rispetto all’obiettivo, quindi più «di sinistra», è proprio quella che passa per la riforma dell’articolo 18.
«Corriere della sera» del 14 gennaio 2008

L’editore che «inventò» la Poesia

«Per tenere in piedi questa impresa ho investito anche la dote di mia figlia»
di Paolo Foschini
Compie vent’anni la rivista di Nicola Crocetti, primatista di longevità. Ha pubblicato Walcott e i greci in Italia. Il nobel Heaney lo celebra
Se non ci credete provateci: quanti di voi scommetterebbero che cliccare «sesso» su Google rinvia a 30 milioni di pagine mentre lo stesso esperimento con «poesia» ne ottiene appena quattro in meno? «Mi stupisco dello stupore altrui», è il commento serafico di Nicola Crocetti. E qualche motivo ce l’ha: perché Crocetti, nato a Patrasso 67 anni fa da madre greca, arrivato in Italia nel ‘45, è semplicemente l’uomo che dal 1988 pubblica ogni mese la rivista di poesia più longeva e più letta del mondo. «Soprattutto la più bella», secondo il grande poeta inglese Tony Harrison. Parliamo di Poesia, appunto. Il cui sito tra l’altro è il primo (non uno dei primi: il primo) ad apparire in cima a tutti quei milioni di Google-page sopracitati. Il suo ventesimo compleanno sarà celebrato lunedì sera a Milano, nella prestigiosa cornice di Palazzo Reale, con Moni Ovadia a leggere e i maggiori poeti oggi viventi ad ascoltare e raccontare, dal francese Yves Bonnefoy al premio Nobel irlandese Seamus Heaney: «Potrei ignorare qualsiasi invito - dice il solitamente schivo autore di Station Island - ma questo di Poesia è un onore riceverlo. E ci sarò». Numero speciale per l’occasione con cinquecento «poesie sulla poesia» scelte tra Ovidio e Raboni, Ritsos e Walcott, giù fino ai giovanissimi: la scelta era tra mille, come sempre in questi casi tanti mancano, e la caccia all’assente è sempre uno sport vecchio. Non che sia facile, fare l’editore di versi. «Per questa impresa - ripete Crocetti - ho usato anche la dote di mia figlia». Ma la storia e i numeri gli hanno dato ragione: ventimila copie mensili tirate e distribuite nelle 38 mila edicole d’Italia. «Il solo problema sono le Poste - allarga le braccia lui - che con i nostri abbonati sono meno puntuali di noi». L’idea gli era venuta a fine anni 70. Lui, che pure si vanta di non avere «mai composto un solo verso», in vita sua però ne aveva tradotti già allora migliaia. Specie dal greco (e il vizio non gli è passato, ora è alle prese col surreale seguito dell’Odissea: 33 mila versi in cui Nikos Kazantzaki, l’autore di Zorba, racconta la vera fine di Ulisse ucciso da un iceberg dopo aver incontrato Gesù e Don Chisciotte). Ma «passati i colonnelli - racconta oggi Crocetti - anche l’interesse dei grandi editori per la Grecia finì: così nell’80 me la sono fatta io, una casa editrice. E sette anni più tardi la Crocetti Editore è diventata madre a sua volta. Di questa rivista». Soprattutto all’inizio ci credeva solo lui. Chi te la compra?, gli dicevano. Ma la sua fede era granitica, alimentata da tre solidi argomenti. Il primo, come dire, di merito. Quando lo ripete, ancora oggi, si accalora fin quasi alle lacrime. «Insomma - insiste - di cosa parliamo noi a distanza di secoli? Diciamo la verità: parliamo di Omero, Esiodo, Saffo, Dante. Perché gli uomini muoiono, sempre. E a raccontarli restano solo le parole dei poeti». E se si vuole, anche fatta la tara della moda, i milioni che ascoltano la Commedia di Benigni non sono poi una conferma così facile da ignorare. Infatti il secondo argomento di Crocetti erano i numeri. «All’epoca in Italia si contavano 380 riviste di poesia. Tutte o quasi a circolazione locale, poche centinaia di copie l’una: ma testimoni di una sete reale. "Bisogna solo arrivare in tutta Italia", dicevo. Non in libreria ma in edicola, fino all’ultimo dei paesini: ora l’han capito tutti, anche coi libri. Ma allora io ho bussato a nove distributori, prima di trovare quello che ha creduto in me. Non se n’è pentito». Oggi è ancora lo stesso, la Sodip di Angelo Patuzzi. Il terzo argomento era il metodo, che poi è anche una critica tuttora ribadita verso la polvere delle accademie: «L’ho imparato negli Usa. L’importanza di parlare in modo semplice anche delle cose difficili. Perché questo è il difetto delle riviste letterarie italiane: il linguaggio da iniziati, professori che scrivono per altri professori. Ma la poesia deve raggiungere tutti. Io ho semplicemente cercato di consentirglielo». «Tutti», nel caso specifico, significa letteralmente tutti: «I lettori di Poesia sono studenti e casalinghe, professionisti e impiegati. Con una prevalenza di donne in verità», dice Crocetti. Che avrebbe una lista di aneddoti infinita: «Il più commovente è stato un edicolante di Catania che mi ha scritto qualche anno fa. "Intuisco che pubblicare questa rivista non sia facile - scriveva - e ho pensato di farle una cosa gradita così": la foto mostrava la sua edicola, con il logo di Poesia sul tetto al posto della pubblicità». È il tasto dolente, che Crocetti neppure vorrebbe toccare ma che è difficile far finta di non vedere. «La passione non basta...», si limita a dire. Ma il punto è che Poesia vive da sempre senza sponsor, senza mecenati, senza imprenditori alle spalle. In compenso, qualche tempo fa, la redazione con i suoi 70 mila volumi - laggiù nella periferia Gallaratese di Milano, in fondo al labirintico complesso Monte Amiata disegnato negli anni 70 da Aldo Rossi - si è beccata persino una visita notturna dei ladri: bottino 300 euro, i danni dieci volte di più. «Eppure - ricorda Crocetti - basterebbe poco. Penso ai Giulio II, ai Medici, agli Este, grazie ai quali abbiamo oggi i Michelangelo, i Raffaello, gli Ariosto... È questo che i "ricchi" di oggi non hanno ancora capito. Che solo sostenendo l’arte possono comprarsi l’immortalità». L’arte, e la poesia.

L’omaggio di Milano La serata per celebrare i 20 anni di «Poesia» è in programma alle 21 di lunedì a Milano nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Presenti il Premio Nobel Seamus Heaney oltre a Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Titos Patrikios, Massimo Cacciari, Nicola Gardini. A leggere i testi l’attore Moni Ovadia
«Corriere della sera» del 12 gennaio 2008

La politica e gli interessi non si possono separare

di Giuseppe Galasso
«Il tema della vivibilità non è nuovo», dice bene Stefano Semplici (sulla rivista «Paradoxa» n.3), concludendone che «il risultato finale della vivibilità si ottiene rinunciando alla scorciatoia delle contrapposizioni ad effetto, che, pure provocandoci, ci danno da pensare: i poeti e gli ingegneri, la natura e la città, la decrescita e il profitto, le chiese e i laboratori. Si tratta, in altri termini, di riconoscere che davvero nella vivibilità è in questione non l'amministrazione degli interessi, ma il senso della politica». E subito gli si direbbe di sì, se non venisse ugualmente subito in mente che il senso della politica non è in gioco soltanto qui, bensì in ogni altro settore o momento della vita umana o sociale. Occorre dimostrarlo? Per Aristotele l'uomo è un animale politico, come si sa. Egli sottolineava con ciò la costitutiva, insuperabile, ineliminabile dimensione sociale e comunitaria del modo di essere e di vivere dell' uomo nella storia, cioè nell'unico modo in cui lo si è conosciuto e lo si conosce. E la definizione ebbe tanta fortuna, anche se non sempre ben compresa, proprio perché coglieva questo dato di fondo. Sempre in gioco, dunque, il senso della politica (lo scrivo sottolineato anch'io, ma non capisco bene perché: la politica nel senso più alto? quale?). E la dannazione della politica è, però, sempre di aver a che fare innanzitutto con il gioco degli interessi (che non sono solo quelli economici e finanziari, ma quelli di tutto «questo guazzabuglio del cuore umano», come lo definiva Manzoni). Togliete alla politica questa bruta e cruda materia, traetela fuori dal rude confronto con essa, e non avrete più nessuna politica, né alta, né bassa. Insomma, il senso della politica non è mai a buon mercato (e mercato sia in senso letterale che figurato).
«Corriere della sera» del 12 gennaio 2008

La Dc clericale e fascista è soltanto una caricatura

di Giovanni Belardelli
Per cinquant’anni la Democrazia cristiana ha saputo attrarre a sé e depurare «tutto quello che di peggio era sedimentato nelle pieghe più oscure e più riposte della società nazionale». Questa descrizione della funzione svolta dalla Dc nell’Italia repubblicana si deve a uno studioso autorevole, Mario G. Rossi, in un saggio pubblicato su «Italia contemporanea», la rivista dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia da lui diretta. Era prevalentemente per la Dc, osserva Rossi, che votava quell’ampia parte del Paese che era attraversata da pulsioni clerico-fasciste e qualunquiste, da spinte populiste e antistataliste, da comportamenti familisti e corporativi, da una radicata propensione all’illegalità. Come commenta un giovane studioso (Andrea Rossi nel suo blog «orientamenti storici»), la Dc finisce così con l’essere descritta come una specie di cassonetto della nazione; per dire ancora meglio, il partito cattolico - secondo il quadro offerto dal direttore di «Italia contemporanea» - avrebbe svolto una funzione positiva, sì, ma alla stregua di un gigantesco impianto di riciclaggio in grado di rendere politicamente inoffensivi milioni di italiane e italiani altrimenti pericolosi, perché poco o punto compatibili con la democrazia e con lo Stato di diritto. Tanti mali della Seconda Repubblica, secondo Mario G. Rossi, deriverebbero proprio da qui, dal fatto che - scomparsi gli «spazzini» Dc - i liquami di quell’Italia eternamente e strutturalmente antidemocratica, egoista e non amante della legalità avrebbero tracimato dappertutto, alimentando la forza politica dell’attuale centrodestra. Non c’è che dire, un quadro davvero approfondito ed equanime della nostra storia più recente.
«Corriere della sera» del 12 gennaio 2008

Media e minori: il rischio è banalizzare

di Roberto I. Zanini
Il vero problema? È il «vuoto pneu­matico » che attraversa l’offerta dei media, vecchi e nuovi. Dalla tv a in­ternet passando per telefonini e video­giochi. Tutti sono accomunati da un lin­guaggio che si «identifica nell’assenza di contenuti». I risultati si chiamano «di­spersione », «banalizzazione», «dere­sponsabilizzazione » umana, sociale e politica, «imbarbarimento dei gusti». Nel giorno in cui il Consiglio nazionale de­gli utenti chiama a raccolta i suoi diret­ti referenti (Autorità delle comunicazio­ni, ministero delle Comunicazioni e Par­lamento) per affermare la necessità di razionalizzare e rendere più incisiva la battaglia per la tutela dei minori sui me­dia, dagli interventi del presidente del Censis Giuseppe De Rita e dal presidente dell’Autorità Corrado Calabrò emerge un quadro devastato del rapporto fra media e utenti, soprattutto se minori.
Il convegno sul tema «Media e minori. Per una tutela più efficace», si è tenuto ieri a Palazzo San Macuto, una delle sedi della Camera dei Deputati. Col presi­dente del Consiglio degli Utenti Luca Borgomeo, oltre a De Rita e Calabrò, e­rano presenti la presidente della Com­missione parlamentare per l’infanzia Anna Maria Serafini, il presidente della Commissione di vigilanza Mario Lan­dolfi e il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. Quest’ultimo, in parti­colare, ha annunciato che, crisi per­mettendo, il suo ministero ha quasi con­cluso la redazione del codice «Media e minori» che dovrebbe riunire, dando «o­mogeneità », tutti i codici di autoregola­mentazione attualmente in vigore su tv, telefonini, internet e videogiochi.
Proprio nel fornire un parere su questo documento, ha spiegato Borgomeo, il Consiglio degli utenti ha elaborato una propria proposta di modifica, con l’o­biettivo di dare maggiore efficacia alla tutela dei minori, affidandola a un uni­co organismo pubblico nel quale non vi siano, come capita adesso, commistio­ni fra controllori e controllati.
Attenzione, però, ha affermato De Rita, non basta concentrarsi sugli eccessi di violenza e di pornografia, «il problema è nel vuoto di contenuti, che conduce a uno svilimento dei gusti e diffonde il senso del nulla». Un problema della tv e dei nuovi media, che se da una parte moltiplicano la capacità di comunica­zione, dall’altra, ha sostenuto Calabrò «producono il paradosso per il quale tanto più il lontano si avvicina, tanto più il vicino sfuma, perde di senso. Questo genera deresponsabilità e un’assuefa­zione a modelli che spingono all’omo­logazione ». Anche perché fra gli opera­tori è diffusa la «convinzione che la qua­lità sia vecchia e stantia e che le masse siano incapaci di riconoscere la qualità». Accuse pesanti, alle quali, lo dimostra­no i fatti, non si risponde con i principi astratti inseriti nei codici e nei Contrat­ti di servizio della Rai. L’unica strada da percorrere, hanno sottolineato De Rita, Calabrò e Serafini è quella della forma­zione ad ampio raggio. «La scuola deve fare un significativo salto di qualità». Ma soprattutto occorre formare a una nuo­va coscienza dell’uomo e della civiltà chi pensa e produce contenuti per i media.
«Avvenire» del 25 gennaio 2008

Prof. Veronesi, il suo nuovo valore si chiama eugenetica

La buona salute è il criterio per cui vale vivere
di Assuntina Morresi
C’è chi ritiene la sentenza del Tar del Lazio – che pronunciandosi in merito alla legge 40 e alle sue linee guida avrebbe annullato il divieto della diagnosi preimpianto – una decisione «coraggiosa» dei giudici, una «difesa dei diritti fondamentali dei cittadini» e una «risposta ai loro nuovi valori». Lo ha scritto ieri il professor Umberto Veronesi, spiegando che eseguire la diagnosi preimpianto, cioè «la scelta, tra gli embrioni prodotti in vitro, di quello che non porta il seme della malattia, per impiantarlo» vuole dire «la certezza di un figlio sano».
Tralasciamo pure il fatto che questa tecnica, quando non altera pesantemente lo sviluppo embrionale, non dà la certezza della salute del nascituro, ma si limita a identificare alcune patologie legate al suo codice genetico.
Seguendo le considerazioni del professor Veronesi, si deduce quindi che avere un figlio sano non solo è un legittimo desiderio di ogni genitore, non solo è diventato un diritto fondamentale (come è stato ripetuto durante tutta la campagna referendaria del 2005), ma si è trasformato pure in 'nuovo valore'. A rigor di logica, quindi, avere un figlio non sano, malato o disabile, sarebbe un 'vecchio valore', cioè qualcosa di superato, o addirittura un disvalore, qualcosa che è visto dalla società come moralmente inaccettabile. Ammettiamo onestamente che è di questo che si sta parlando, quando si chiede di poter scegliere un embrione: la scelta presuppone sempre un 'migliore' e un 'peggiore', qualcosa che vale di più, a discapito di qualcosa di minor valore; e in questo caso, cioè nella scelta fra embrioni prodotti in laboratorio, il criterio per stabilire i migliori e i peggiori è la salute. Potrà non piacere, ma in questo modo si stabilisce ad esempio che un futuro malato di talassemia sarà in quanto tale peggiore di uno che non abbia questa malattia, o anche che una persona con una certa probabilità di sviluppare un cancro sarà peggiore di chi ha una probabilità inferiore, o di chi non ne avrà affatto (come sta già accadendo in Gran Bretagna, dove si usa la diagnosi preimpianto anche per questi casi). La qualità della vita diventa, nella filosofia propagandata dal professor Veronesi, misura del valore della vita stessa: è questa la sostanza etica dei 'nuovi valori'. Eppure, se si afferma che questa è eugenetica, c’è chi si ritrae, indignato.
L’eugenetica, per molti, è quella che produce figli biondi con gli occhi azzurri, o quella imposta dallo Stato. Ma scegliere l’embrione sano e scartare quello difettato, dire 'tu sì, tu no', che altro è, allora? Chiariamo una volta per tutte questo punto: ogni forma di selezione genetica sulle persone, è eugenetica.
Nella normativa italiana del dopoguerra l’eugenetica non è mai stata introdotta: non la prevede la legge 194 che regolamenta l’aborto, e neppure la legge 40, che nell’articolo 13 vieta espressamente la selezione genetica degli embrioni, e che infatti non permette a coppie portatrici di malattie ereditarie di accedere alle nuove tecniche di fecondazione in vitro. La tanto contestata legge sulla procreazione medicalmente assistita è stata formulata per dare un’opportunità a coppie infertili di diventare genitori, non certo per consentire la scelta di chi diventare genitori. Mai come in questi anni si parla di pari opportunità, di non discriminazione, di accettazione delle diversità, eppure al tempo stesso mai come nei nostri tempi la malattia e la disabilità sono così poco tollerate, tanto da ritenere lecita la possibilità di scelta del figlio: teniamo il sano, buttiamo il malato. Sono questi i nuovi valori?
«Avvenire» del 25 gennaio 2008