23 marzo 2008

Bobbio e l’aborto

Il contributo di un laico
di Claudio Magris
Nel clamore delle polemiche sull’aborto c’è un grande quasi dimenticato: Norberto Bobbio. L’8 maggio del 1981, alla vigilia del referendum, il maestro laico di diritto e libertà - che ha manifestato sempre il più grande rispetto e anzi interesse per la fede, che non ha mai pensato di definirsi con tracotanza ateo ma, per coerenza e appunto per rispetto, ha ritenuto doveroso rinunciare ai funerali religiosi - rilasciò a Giulio Nascimbeni, il carissimo amico scomparso di recente, un’intervista per il Corriere della Sera. In essa, con pacatezza e anzi con disagio («è un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri») ribadiva «il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. E’lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell’aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all’aborto». Si soffermava sulla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili», ribadendo che «il primo, quello del concepito, è fondamentale», in quanto «con l’aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere». Perché, in un momento in cui si cerca non di toccare la legge 194 - cosa che dovrebbe tranquillizzare tutti, perché è essa che consente di abortire, dichiarando peraltro esplicitamente che l’interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite - bensì di creare una cultura consapevole della realtà dell’aborto, così pochi (tra i quali il Foglio) ricordano Norberto Bobbio e queste sue parole di assoluta chiarezza, molto più difficili da dire allora che non oggi? Forse perché dette in tono pacato, problematico, con l’animo di chi aborre le eccitazioni collettive e le scalmane di piazza, mentre oggi prevale chi le ama e se ne inebria, anche quando si rivolgono contro di lui, ed è felice solo nella ressa dello scontro, nel fumo della battaglia (peraltro poco pericolosa), che invece poco si addice alla ritrosia subalpina di gente come Bobbio o Einaudi? Le discussioni di oggi sono altamente meritorie, perché aiutano, contro ogni pigrizia e viltà mentale, a guardare in faccia cos’è l’aborto. Visto che nessuno vuole toccare la legge 194, nessuno dovrebbe protestare contro queste discussioni, a meno che non sia un entusiasta dell’aborto. Visto che nessuno vuol toccare la legge 194, non ha senso presentare una lista elettorale che si proponga di andare al Parlamento solo per non fare leggi; per creare e diffondere una cultura dei diritti di ogni individuo, in tutte le fasi della sua vita, il luogo non è il Parlamento, bensì la società, il dibattito, l’agorà. E’ciò che sta giustamente accadendo, e non solo per le iniziative di Giuliano Ferrara ma anche e già prima con alcune interessantissime e innovatrici riflessioni di intellettuali e scrittrici femministe - ad esempio Alessandra Di Pietro, Paola Tavella, Anna Bravo o Maria Carminati - le quali, senza rinnegare alcuna loro battaglia, affrontano in modo libero e originale i valori della maternità e della vita. Anche in merito a ciò che spetta al dibattito pubblico e a ciò che spetta al Parlamento, la chiarezza di un Bobbio, con la sua straordinaria arte di distinguere le cose e gli ambiti, sarebbe preziosa ma non è forse gradita. Oppure non si ricordano quelle parole di Bobbio in difesa del concepito perché dà fastidio che sia stato un non-praticante, estraneo o quanto meno esterno alla Chiesa cattolica, a pronunciarle?
«Corriere della sera» del 19 febbraio 2008

Soltanto una scuola libera sarà anche pertinente

La piena parità nei programmi elettorali
di Giacomo Samek Lodovici
Il tema della vita è entrato nella campagna elettorale: è troppo sperare che qualche partito si prodighi davvero per un altro valore non negoziabile come la libertà di educazione? L’importante intervento del cardinale Scola all’Università Cattolica di Brescia, dove ha appunto auspicato l’esistenza di una pluralità di scuole e la realizzazione di una piena parità scolastica, potrebbe essere accusato di voler promuovere gli interessi di parte dei cattolici.
Ma l’esistenza di scuole non statali garantisce un principio morale fondamentale e irrinunciabile, che non è certo di parte: la libertà dei genitori di scegliere per i figli una scuola conforme alle proprie convinzioni. Infatti, la scuola dovrebbe proseguire il diritto naturale dei genitori di educare i figli, ed essere un complemento educativo della famiglia, mai un sostituto.
Ciò esige che lo Stato renda possibile una reale ed effettiva libertà di scelta, realizzando una vera parità scolastica e consentendo ai genitori di iscrivere i figli negli istituti più confacenti alle loro convinzioni. Lo Stato deve cioè garantire la possibilità che i genitori di sinistra possano mandare i figli in scuole di sinistra, quelli liberali in scuole liberali, quelli cattolici in scuole di ispirazione cattolica, ecc. Insomma, la posta in gioco non è la tutela degli interessi dei cattolici, bensì la salvaguardia della libertà delle famiglie di educare i figli secondo i propri valori e principi, quali che siano, purché non siano principi criminali.
Si dice che la scuola non statale è parziale, mentre la scuola dovrebbe essere indifferente-neutrale, presentando tutti i modelli di vita, in modo che lo studente scelga quello che più lo convince.
Ma, per poter scegliere, bisogna avere senso critico, ed è raro che un adolescente sia capace di discernere autonomamente, senza farsi condizionare. Non è dunque meglio che venga indirizzato dai genitori?
All’università, poi, sceglierà da solo. Inoltre, una scuola indifferente-neutrale non è realizzabile, perché già solo per passare da un argomento al suo racconto è necessaria una presa di posizione circa i suoi aspetti più rilevanti: è necessaria una sintesi, e questa comporta una selezione, che è sempre frutto di scelte derivanti da criteri di pertinenza e di rilevanza.
Comunque, un sistema scolastico che riesce ad avvicinarsi ad essere indifferente-neutrale e non propone e non valorizza nessuna cultura e nessun modello di vita, in realtà fa una precisa scelta culturale: quella del relativismo, in cui tutte le opzioni sono sullo stesso piano, e facilmente ingenera nello studente una visione relativista.
Ciò non vuol dire che una scuola debba essere faziosa né autorizzare un docente a inculcare le proprie convinzioni agli studenti occultandone le debolezze, o censurando o indebolendo le tesi avverse. La scuola deve sviluppare il senso critico e l’autonomia di giudizio degli studenti, abilitandoli a valutare criticamente ciò che insegna loro.
Tuttavia, poiché la trasmissione culturale dovrebbe essere trasmissione della verità, la scuola dovrebbe trasmettere principalmente (non esclusivamente) la verità, cioè quelle tesi e quei valori che essa ed i genitori che l’hanno scelta considerano vere; il che non significa, bisogna ribadirlo, omettere le opposizioni e le obiezione significative a queste tesi.
Sarebbe veramente ora, come ha auspicato il cardinale Scola, che lo Stato realizzasse una vera parità di condizioni giuridiche ed economiche.
«Avvenire» del 23 febbraio 2008

Quel gioco a contrapporre chi sta con la vita

La lista di Ferrara, Avvenire e certe cronache
di Marco Tarquinio
Noi siamo convinti che sia possibile. Siamo convinti che sia possibile parlare e scrivere di aborto, di manipolazioni dell’embrione, di tutela della vita lungo l’intero arco dell’esistenza: dal primissimo istante a quello estremo. Siamo convinti che sia possibile parlare di tutto questo e discutere sul modo migliore per non limitarsi a parlarne. Di più, che sia umanamente, culturalmente e politicamente essenziale. Ne siamo convinti da persone che pensano, da cattolici e da giornalisti. E siamo convinti di essere liberi non solo di farlo, ma anche nel farlo.
Liberi, cioè, di portare argomenti, di commentare fatti, di articolare opinioni e proporre diversi registri. E contiamo – udite, udite – di essere letti, forse capiti e comunque non strumentalizzati. Capiti e non strumentalizzati anche quando il dibattito e le notazioni sfociano in valutazioni su scelte politiche e programmatiche, come accade – inevitabilmente – in questo tempo elettorale nel quale siamo già immersi. Capiti e non strumentalizzati anche quando finiamo, come ieri, su 'Repubblica' sotto un titolo strillato a tutta pagina: «La Cei boccia la lista anti-aborto».
Tutti, e non solo i nostri lettori, sanno che 'Avvenire' ha condiviso da prima di subito la battaglia culturale ingaggiata da Giuliano Ferrara, e dal suo 'Foglio', per una moratoria dell’aborto.
Tutti, e non solo i nostri lettori, sanno che un incessante e sereno impegno pro-life cadenza e qualifica da decenni la vicenda del giornale dei cattolici italiani che – come scrivevamo il 13 gennaio scorso – si è fatto «puntualmente specchio di quel grande laboratorio spirituale e culturale che sono le Giornate per la Vita promosse dalla Cei e delle splendide e concretissime esperienze del Movimento per la Vita».
Tutti, e non solo i nostri lettori, hanno avuto anche la possibilità di sapere che a noi di 'Avvenire' – e a qualche nostra bella firma più di altre – sembra che la presentazione di una specifica lista anti-aborto alle prossime elezioni politiche sia strada non indovinata per contribuire ad affermare maggiormente la cultura della vita. La scelta di Ferrara è una scelta che merita rispetto – averne di opinion leader come lui... –, ma continuiamo a ritenere che più partiti politici, e non uno solo, debbano mettere a tema, con chiarezza d’intendimenti, la capitale questione dell’accoglienza e della tutela della vita nascente. E farne bandiera. Li invitiamo a impegnarsi.
Così come – con accenti diversi, da angolazioni differenti e con identica passione – in questi giorni chiedono, con tre distinti appelli ai vari candidati premier, il Movimento per la Vita, il Forum delle famiglie e l’associazione Scienza&Vita.
Qualcuno, a quanto pare, fa finta di non sapere che le cose stanno così. O come prevedeva qualche giorno fa, su queste colonne, Domenico Delle Foglie certi 'seminatori' di cattivi sentimenti si sono messi all’opera. E pensano di poter impudentemente saccheggiare la schietta opinione di un intellettuale – il poeta Davide Rondoni – a proposito del dibattito a distanza sull’aborto tra altri due intellettuali, Claudio Magris e lo stesso Ferrara, per distillare la presunta valutazione della Cei a proposito di un’iniziativa politica.
Nessuno boccia nessuno, insomma. Tanto meno per procura. Anche se chi legge solo 'Repubblica', probabilmente, non saprà mai la verità. E cioè che semplicemente, seriamente e liberamente sulla questione dell’opportunità di una nobile 'lista di scopo' noi di 'Avvenire' – e, lo ripetiamo, qualche nostra bella firma più di altre – abbiamo un diverso parere da quello del direttore del 'Foglio'. Che lo sa, non si scandalizza e – secondo la sua indole – tira diritto. Lui ama la vita. Noi pure. Questo conta.
«Avvenire» del 23 febbraio 2008

La giornata di Cupido, scugnizzo alato

Nella ricorrenza dell’amore i greci donavano fiori o piatti. I romani celebravano i «Lupercalia»: alle ragazze niente regali ma abbondanti frustate con pelli di caprone
di Ezio Savino
«Ha una brutta voce? Falla cantare!». «Ha i denti storti? Falla ridere!». «È goffa, non sa muovere neanche una mano? Falla danzare!». «Sorprendila al mattino, quando ancora non si è truccata!». «Dopo l’amore, a desiderio spento, spalanca la finestra, e in piena luce fa’ l’inventario di tutti i suoi difetti, mandali a memoria!». Una voce che stecca fuori dal coro mieloso di San Valentino (vescovo martirizzato sotto Aureliano, nel 273), tutto fruscii di ali di Cupidi, di cioccolatini spacchettati, di frasi zuccherose a contorno del regalino di rito.
È la lezione del professor Ovidio, poeta latino, specialista del ramo, che nel suo I rimedi dell’amore, fornisce spicce e ciniche istruzioni per santificare al contrario la festa degli innamorati. Il patrono del dolce sentimento resta lui, il mite Valentino (Valens tyro, «forte soldato», di Cristo, s’intende), che rappacificava fidanzatini litigiosi con il dono di una rosa o, secondo varianti leggendarie, di una coppia di colombi; che all’imbrunire porgeva un fiore ai bambini perché lo offrissero alle mamme senza attardarsi per strada; che firmò la lettera d’addio alla figlia del suo carceriere Asterius, guarita dalla cecità, con il prototipo di ogni messaggino tenero: «dal tuo Valentino...». Come spesso accade, sulla ricorrenza cristiana si addensarono rituali pagani. I Romani avevano già una loro cerimonia dell’amore carnale: erano i Lupercalia, in onore di Luperco, arcaico nume della fecondità. Travestiti da lupi, il 15 febbraio i ragazzi di Roma scorrazzavano intorno al Palatino, fustigando con pelli di caprone sacrificale le donne, che aspiravano a sicura maternità. Un culto greve, di memoria agraria, che papa Gelasio, nel 497, rimpiazzò con la festività del santo di Terni. Ma i simboli connessi conservarono (e tuttora esibiscono) la fragranza d’antico. Cominciamo dagli Amorini, i Cupidines dei romani. Sono d'incantevole invenzione greca, e si chiamavano èrotes. Gli Elleni ebbero fede, da sempre, nel potente Eros, un dio senza volto, una forza positiva che ai primordi del cosmo legò gli elementi dispersi nel caos. Un emblema buono per i filosofi, ma poco appetibile per le coppiette spensierate. I poeti ci lavorarono sopra. E nacque Amore, figlio di Afrodite (la Venere latina), impertinente scugnizzo alato che si diverte a ferire con frecce d’oro, scagliate dal suo arco incordato di porpora. Neppure sua madre riesce a gestire il monello, assicura il poeta Mosco, che si nasconde e fugge, mitragliando dardi perfino nel mondo dei morti. Platone, in una poesia, ce ne lascia un ritrattino indimenticabile: eccolo, nell’innocenza del sonno, abbandonato su un cuscino di rose, le piume raccolte dietro le spalle, mentre le api depongono miele sulle sue giovani labbra. Dal ramo dell’albero pende la sua arma, la faretra colma di dardi, a ricordarci che quel riposo infantile è una pausa, tra una strage e l’altra. Gioca con dadi d’oro insieme a Ganimede, nel giardino di Zeus: perché l’amore è un volo d’azzardo, e gli astràgali (i dadi greci) sono i destini dei mortali, oggi un sei, il tiro di Venere, domani un uno, il colpo peggiore, detto «del cane». Ben presto Eros si moltiplica, nei puttini dispettosi cari alla matita di Peynet. Ora vendemmiano (e i grappoli rappresentano i cuori umani); ora da arcieri si trasformano in incendiari, lanciando nei petti devastanti scintille. Il poeta Asclepiade geme per l’indifferenza con cui gli amorini gli fanno il cuore di cenere. Che festa sarebbe, senza regalini? La grancassa commerciale di San Valentino ne squaderna per tutti i gusti, ma il campionario antico è già vario e vasto.
In Grecia, i pittori di vasi davano le prime dritte. Il presentino d’amore era, in sé, il piatto o il recipiente, impreziosito dalla raffigurazione del gesto affettuoso: lo spasimante che porge un galletto, una quaglia, un tordo, una lepre, accreditati, presso gli antichi, di vigore erotico. Catullo regalò alla sua Lesbia un passero, e ci ricamò sopra versi futili e toccanti. Poi fiori, in ghirlande dove spiccano le rose, da sempre messaggere di Venere, incarico diviso con le mele, da regalare in cesto. Seguono i libri di poesia, in formato tascabile: i Virgilio e gli Omero «palmari», che stavano in una mano. Non mancano i capi di vestiario, gli accessori.
Il più indicato era la cintura, che per i classici includeva significati maliziosi: «sciogliere la cintura» era, infatti, il codice per indicare i preliminari amorosi. Per questo le belle, talvolta, mettevano le mani avanti e tra i ricami di fiori inserivano sulla fascia (ricordava il cinto di Venere alla cui seduzione neppure Giove resisteva) scritte fin troppo sincere. L’affascinante Ermione, lamenta un epigrammista dell’Antologia Palatina, vi aveva trapunto l’avviso: «Amami pure come vuoi, ma non soffrire troppo se qualcun altro mi fa sua!». Il pratico Ovidio consiglia di comprare frutta e noci al mercato rionale, ma di far sapere alla fidanzata che il dono arriva fresco dai propri poderi suburbani. Anche una poesiola può fare la sua figura, aggiunge l’autore dell’Ars Amatoria, ma il regalo più promettente resta sempre un bel gruzzolo di sesterzi d’oro. Marziale raccomanda la carta da lettera, economica: le tabulae vitellianae, che non avevano il pregio della pergamena o delle pagine d’avorio, ma andavano dritte al cuore. Erano le antenate romane dei nostri SMS. Ricevendole, si sapeva che non parlavano d’affari o d’incarichi di stato. Però contenevano la notizia più gradita della giornata: l’ora dell’appuntamento.
«Il Giornale» del 12 febbraio 2008

Le cautele del Sant’Uffizio

A Roma una mostra e un convegno fanno il punto sull’archivio dell’Inquisizione, a dieci anni dall’apertura voluta da Ratzinger. E si vede come la «leggenda nera» sia in gran parte un’esagerazione
di Franco Cardini
Siamo alle solite. Stupisce doversi di continuo stupire, ma purtroppo è così: e bisogna aver pazienza. Alcuni anni or sono, dinanzi al dilatarsi e al potenziarsi dei mass media, eravamo in molti a credere e soprattutto a sperare che la televisione e l’informatica avrebbero aiutato la società civile a raggiungere un più alto livello di cultura diffusa. È accaduto invece, a livello culturale, quel che accade in economia, dove vige la legge secondo al quale la moneta cattiva caccia quella buona. La cultura mediatica è finita in una malinconica palude nella quale galleggiano piramidi egizie, santi graal, cavalieri templari e nazisti esoterici: poco d’altro, e quasi niente di più. E capita pertanto che di quando in quando, per una sorta di corto circuito, Tv o giornali entrino in contatto con temi sul serio di alto livello dal punto di vista scientifico o intellettuale: e allora siamo alla scoperta sistematica dell’acqua calda travestita da sensazionale novità e magari perfino presentata come rischioso e sconvolgente 'revisionismo'. Non dovremo quindi stupirci se capiterà che – in questo Paese dove tutto diventa occasione per polemiche inopportune e opinioni impresentabili ma ostentate a gola spiegata – qualche frequentatore di blog taccerà di 'revisionismo' il professor Adriano Prosperi per le opinioni espresse ieri su Il Messaggero, dove 'difende', orrore, Inquisizione e Sant’Uffizio, torture e roghi.
Ma l’occasione è seria. Un convegno che si terrà tra 21 e 22 febbraio prossimi a Roma, presso l’Accademia dei Lincei, sul tema «A dieci anni dall’apertura dell’archivio della congregazione per la Dottrina della fede. Storia e archivi dell’Inquisizione». Chi seguirà i lavori di quel convegno ne trarrà grande giovamento sotto il profilo scientifico; ma, se vi si recasse colto da pruriti voyeristici e sensazionalistici, ne resterebbe senz’altro annoiato e deluso. Dieci anni fa il cardinal Joseph Ratzinger, allora prefetto per la congregazione della Fede che ha ereditato e aggiornato le funzioni del Sant’Uffizio, stabilì di aprire gli archivi dell’Inquisizione romana agli studiosi. Fu una scelta di grande coraggio, di grande liberalità, di grande intelligenza. E, nella grande massa di documenti custoditi in quegli archivi preziosi, sono emersi e senza dubbio continueranno ad emergere quelli che parlano anche delle streghe, degli ebrei, dei convertiti dall’ebraismo e dall’islam al cristianesimo (o, al contrario, dei rinnegati) e così via. Naturalmente, il legame che collega tutti questi 'casi' era l’eresia: il Sant’Uffizio si occupava e si preoccupava di eretici, trattava dunque per esempio i casi di stregoneria solo se, quando e nella misura in cui essi potevano esser sospetti di aver a che fare con la propaganda ereticale. Ma i documenti dimostrano come il Sant’Uffizio procedesse sempre con grande cautela, con quel rispetto per l’imputato che i tempi consentivano, con costante moderazione. I casi di streghe condannate dai tribunali locali e assolte dal supremo tribunale romano , se non frequenti, non sono comunque eccezionali.
Rientravano in una prassi ispirata alla severa discrezione. Perfino il grande cardinal Borromeo, san Carlo, che in materia di streghe e di eretici non ci andava morbido, venne bloccato dalla congregazione romana. Né la Chiesa era insensibile di fronte al progresso della scienza.
Tutt’altro. Le nuove disposizioni da essa emanate nel 1620, che possono piacere o no (ad esempio divennero più restrittive in materia di aborti), furono comunque influenzate dalle teorie scientifiche del tempo.
Prosperi cita alcuni casi, tra i quali interessante quello della «strega» pisana del Seicento accusata e torturata dagli inquisitori della sua città e fatta poi liberare per esplicito intervento romano. Vi sarebbero altri casi ancora per ricordare al riguardo: famoso quello della «strega» Costanza da Libiano, luogo sito tra Firenze e Pisa, che venne inchiodata alle sue presunte responsabilità da un solerte giovane inquisitore francescano e liberata poi da un suo più anziano confratello, che dimostrò alla malcapitata la quale fra l’altro si era autodichiarata colpevole, che i rapporti sessuali con il demonio, puro spirito, sono semplicemente e pulitamente impossibili. Non diciamo che non vi furono pagine tristi e addirittura orribili; non è il caso di sostenere che furono sempre rose e fiori. Ma quel che è importante è rilevare la sostanziale, continua e attenta correttezza e un tribunale estremamente duro, che giudicava su materie difficili e delicate, ma che sapeva mantenere tuttavia in generale un equilibrio che altri tribunali, anche nella nostra felice modernità, non hanno mantenuto. D’altra parte, è noto che i tribunali inquisitoriali hanno fatto scuola delle varie «cacce alle streghe» del ventesimo secolo: ma purtroppo i giudici moderni hanno ben imparato la lezione della durezza, ma non altrettanto quella dell’equità. Resta comunque da tener presente che l’oggetto del Santo Ufizio era la ricerca dell’eresia: se si dimentica questo, incappare in caso di stregoneria può portare a giudizi facili e pittoreschi.
Naturalmente, la ricchezza di questi documenti è straordinaria. Essi costituiranno un campo di ricerca inesauribile non solo per gli storici, i giuristi e i teologi, ma anche per gli antropologi, per i sociologi, per gli studiosi del folclore e della vita quotidiana. Di questi tempi, quando anche il parere degli studiosi migliori rischia di continuo di venir stravolto e coinvolto nelle polemiche più ignobili e più becere, anche per parlare di ricerche scientifiche ci vuole coraggio civile. Chi volesse saperne di più, legga il Tribunali della coscienza di Prosperi (Einaudi 1996).
«Avvenire» del 19 febbraio 2008

Sparta, niente eugenetica

di Massimo Centini
In un mondo in cui c’è ancora qualcuno che getta i neonati nei cassonetti dei rifiuti, apprendere che certi luoghi comuni sulla malvagità nei confronti dei bambini sono soprattutto alimentati dal mito ci consente di ripensare il passato remoto, offrendoci l’opportunità per guardarlo con occhi diversi.
Questa apertura di ottimismo giunge da una recente scoperta destinata a scardinare una diffusa credenza che ha attraversato la storiografia antica. Ci riferiamo ai risultati delle indagini archeologiche condotte alle pendici del monte Taigeto dal quale, secondo la tradizione, gli Spartani avrebbero buttato i neonati deformi e deboli. Il Taigeto è parte di una catena montagnosa che si erge nel Peloponneso e separa la Laconia dalla Messenia: Omero definisce «grandissima» questa catena, che gli autori più tardi indicavano, per la sua morfologia, «montagna dalle cinque dita». L’aura di mito che ha accompagnato per tanto tempo il rilievo è stata soprattutto sorretta dal suo ruolo «eugenetico», determinato da princìpi che sembrano barbari agli occhi dell’uomo occidentale contemporaneo. Oggi però, dopo cinque anni di studi, l’antropologo Theodoros Pitsios, dell’università di Atene, assicura che il vasto corpus di resti umani presenti al fondo del precipizio Apothetes, sui contrafforti del Taigeto, e corrispondente all’area che avrebbe dovuto accogliere le vittime, in realtà ha restituito ossa appartenenti ad individui con età compresa tra i 18 e i 35 anni, tutti di sesso maschile. Nel territorio circostante, per un largo raggio, non sono stati rinvenuti resti di neonato. Secondo il professor Pitsios, la leggenda sarebbe quindi totalmente infondata; a sorreggere questa tesi, costruita attraverso l’indagine sul campo, contribuisce anche la carenza di fonti storiche accreditabili. Infatti, le informazioni su questa pratica inumana giunte fino a noi sono rare, scarsamente dettagliate e soprattutto molto tarde. La notizia ha la sua importanza poiché smantella un aspetto della cultura egea che ne ha sempre profondamente marcato negativamente la memoria.
Inoltre, dimostra ulteriormente come le peculiarità di alcune popolazioni del passato siano di fatto frutto di un’enfatizzazione, in questo caso in negativo, dei cronisti. Il rapporto tra Sparta e l’eugenetica ha alimentato un dibattito storico che, ancora oggi, è al centro di discussioni dove spesso a prevalere sono soprattutto i presupposti ideologici. Resta un fatto fondante: il modello eugenetico, coniato da Francis Galton, cugino di Charles Darwin e indicante «la scienza del miglioramento del materiale umano», è rinvenibile in molte culture non solo del passato. In fondo anche alcune attuali ipotesi di «miglioramento», che si basano sulla manipolazione genetica, di fatto non sono altro che modernissime forme di principi eugenetici. Mentre, per quanto riguarda il Novecento, alcuni di questi principi sono documentati e innegabili, per il passato spesso le fonti non sono precise, in qualche caso condizionate da cronisti non sempre obiettivi. A farne le spese, ad esempio, oltre agli Spartani sono anche i Fenici, che per tanto tempo sono stati indicati come popolazione dedita a rituali violenti, basati sul sacrificio dei bambini. Infatti da secoli si sosteneva che i piccoli fossero sacrificati in onore di Molok, considerato una divinità malvagia, che aveva il suo luogo di celebrazione in aree chiamate tofet, dove effettivamente sono stati rinvenuti numerosi resti umani (infantili).
Però, la più recente indagine archeologica ha dimostrato che i tofet erano semplicemente dei luoghi di sepoltura riservati ai bambini. Insomma la scienza ci consente spesso di fare un po’ di chiarezza sui tanti luoghi comuni che contrassegnano molte popolazioni del passato. Genti le cui tradizioni sono state spesso oggetto di totale diffamazione da parte di storici intenzionati a macchiarne la memoria, per motivazioni quasi sempre ideologiche. Motivazioni che certamente non sono finite al tempo degli Spartani e dei Fenici …
«Avvenire» del 20 febbraio 2008

I khmer rossi che Terzani non vide

di Piero Gheddo
Sul 'Corriere della Sera' (8 febbraio), Ettore Mo ha presentato il volume postumo di Tiziano Terzani (Fantasmi, edito da Longanesi), sui ricordi dalla Cambogia negli anni terribili dei Khmer rossi, quando l’occupazione di Phnom Penh da parte dei guerriglieri maoisti (aprile 1975) in Italia veniva esaltata. Tiziano Terzani in realtà contribuì a quell’assurda esaltazione di uno dei peggiori genocidi del secolo XX: in poco meno di quattro anni, su 8 milioni di cambogiani i Khmer rossi ne eliminarono da uno a due milioni «perchè inutili alla rivoluzione comunista» e un altro milione e mezzo fuggi verso la Thailandia e la Malesia. Terzani è stato certamente scrittore e giornalista di valore, ma come tanti altri anche uno degli illusi che esaltò i Vietcong e i Khmer rossi come 'liberatori' dei loro popoli: solo anni dopo il fallimento inglorioso della loro 'liberazione' incominciò a dire timidamente che si era sbagliato. Come 'profeta' e 'santone' laico (molti suoi lettori lo ricordano così) bisogna dire che in quel caso non si dimostrò a servizio della verità, come lui stesso poi riconobbe, quando confessò a 'Repubblica' che è vero, si era sbagliato, perchè i Khmer rossi erano stati «assassini sanguinari accecati dall’ideologia marxista-leninista». Eppure, le informazioni sul genocidio dei Khmer rossi erano già tante, subito dopo la loro vittoria militare. 'Avvenire' era uno dei pochi giornali italiani a informare su quell’apocalisse e personalmente ero in prima linea a scrivere e parlare, citando sempre le fonti autorevoli dei missionari di Parigi che erano in Cambogia dal 1850! La Chiesa locale cambogiana aveva un solo vescovo (monsignor Salas) e poche decine di migliaia di cattolici e venne subito totalmente sterminata. Ma i Mep (Missions Etrangères de Paris), espulsi dal paese, erano in Thailandia, traducevano la radio e i bollettini dei Khmer rossi, intervistavano i profughi che a decine di migliaia fuggivano. Ne davano resoconti spaventosi, che personalmente portavo in Italia anche sulla rivista che dirigevo, 'Mondo e Missione'.
Nel 1976 ho pubblicato 'Cambogia rivoluzione senza amore' dalla Sei, dopo che altre editrici cattoliche avevano rifiutato il volume «troppo anticomunista». Su 'L’Unità', Sarzi Amadè scrisse che ero «un missionario finanziato dalla Cia». Un mio dibattito sui profughi registrato alla Rai con Francesco Alberoni e Vittorio Citterich non venne poi trasmesso. È difficile oggi capire l’atmosfera di quel tempo! Ai crimini dei comunisti non solo non ci credevano, ma non si potevano nemmeno raccontare! Ma non si capisce nemmeno perchè un giornalista come Terzani, in Vietnam come in Cambogia, non ha mai dato la minima attenzione a quei missionari che si trovavano sul posto da una vita. Se si fosse degnato di prendere contatto con i missionari francesi del Mep, avrebbe incominciato a capire qualcosa di quel genocidio.
Dunque sfiora il ridicolo l’affermazione che Terzani «fu tra i primi a fornire qualche informazione sulla loro esistenza (dei Khmer rossi) ai giornali europei»!
«Avvenire» del 15 febbraio 2008

Pagani e cristiani amici-nemici

Dalle repliche ai «gentili» di Origene, Cirillo e Agostino prese il via un dialogo che fonda l’Occidente
Di Antonio Giuliano
«Prendevano essi il nome da Cristo che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio: e quella funesta superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche in Roma…». Così scriveva Tacito nel II secolo. Lo storico latino raccontava dell’esecuzione dei primi cristiani, giustiziati non perché 'incendiari', ma a cau­sa delle loro 'tendenze antisociali' e della brutalità di Nerone. A tal punto che lo stesso Tacito ammette: «Nasceva un senso di pietà, in quanto essi morivano per saziare la crudeltà di uno, non per il bene di tutti».
Oltre a ribadire una volta di più la storicità di Gesù, simili testimo­nianze fanno luce sul rapporto tra Roma antica e il cristianesimo delle origini. Perché non si può capire fino in fondo la novità della rivoluzio­ne di Cristo fuori dal contesto storico dell’epoca. Anzi, son proprio gli autori pagani del tempo a far emergere la differenza cristiana. È questa la convinzione che ha ispirato l’esemplare saggio di Robert Louis Wilken, professore di storia del cri­stianesimo all’Università della Virginia.
Lo studio delle fonti antiche non cristiane può rivelarsi sorprendente. Wilken focalizza l’esperienza dei primi cristiani con gli occhi dei loro oppositori: Plinio il Giovane, Galeno, Celso, Porfirio e Giuliano l’Apostata, vissuti a cavallo tra il II e il IV secolo. Sono cinque figure di rilievo del mondo romano che non ri­sparmiarono accuse anche assai dure nei confronti del cristianesimo.
Eppure molti pagani non ignorarono affatto le Scritture ed ebbero subito la percezione di ciò che distin­gueva il 'movimento' di Cristo dalla religione tradizionale. In taluni casi i critici pagani contribuirono perfino alla formazione della teologia cristiana. Wilken cita a tal proposito Galeno, medico e filosofo, il quale sollevò per primo la discussione intorno a quella che sarebbe diventata una pietra miliare del pensiero cristiano: la creazione di Dio dal nulla.
Il primo autore romano a menzionare il movimento cristiano fu Pli­nio il Giovane, governatore della Bi­tinia (l’odierna Turchia), nel II secolo. Iniziò lui a bollare il cristianesi­mo come 'superstizione'. E più tardi il filosofo Celso scriverà che Gesù era un mago e uno stregone. Ma tutti i culti stranieri venivano etichettati come superstiziosi. Che poi la società romana fosse poco reli­giosa o immorale sembra solo uno stereotipo. In realtà la pietà dei ro­mani si esprimeva in una religiosità civile, pubblica. Gli dei rientravano in molte manifestazioni sociali. Era pertanto ritenuto un affronto l’astensione dei cristiani dalle attività civiche, dal servizio militare o dai giochi, come gli spettacoli dei gladiatori o le gare atletiche, veri e propri avvenimen­ti religiosi. Ai critici paga­ni il cristianesimo appariva come una scuola fi­losofica, colpevole di al­lentare i legami tra la re­ligione e il mondo politico. Se non proprio una setta pericolosa che reclutava i suoi seguaci ne­gli strati più bassi della società. I discepoli di Gesù sembravano più inte­ressati alla conversione degli individui, al loro cambiamento spirituale e morale. Ma tra intellettuali pagani e cristiani non ci furono solo ingiu­rie o invettive. Verso la fine del II secolo gli apologeti di Cristo comin­ciarono a controbattere. Origene ri­spose a Celso, Cirillo vescovo d’Alessandria replicò a Giuliano, Agostino a Porfirio. Nacque un dialogo auten­tico in cui si affermava l’originalità del cristianesimo: la fede in un Dio fatto uomo e la sua Chiesa, una co­munità che andava oltre quella statale. Ma fu uno scambio di idee che non escludeva la ragione: «Gli inse­gnamenti della nostra fede – affermò Origene – sono in completo accordo con le nozioni universali».
Wilken sradica un luogo comune che dall’illuminismo in poi vede il cristianesimo in opposizione all’an­tichità classica e la fede sostituirsi alla ragione: «Uno degli aspetti per i quali i pagani provavano più fasti­dio – scrive invece lo storico americano – era il fatto che, per esporre il loro insegnamento, i pensatori cri­stiani avessero adottato le idee e i metodi del pensare greci». Porfirio disse che Origene «giocava a fare il greco» e Celso rimproverava i cri­stiani di far uso dell’allegoria, un prodotto della ragione greca. Ma anche Ambrogio, vescovo di Milano nel IV secolo, per comporre la sua o­pera sulla vita morale prenderà a modello il trattato di Cicerone sull’etica, dandogli lo stesso titolo: «Dei doveri». Così come Agostino si avvi­cinerà alla comprensione di Dio at­traverso le letture neoplatoniche. «E se i pagani continuarono per tre se­coli a comporre libri contro i cristiani – sostiene Wilken – è la prova che prendevano sul serio le idee dei pensatori cristiani». Perché in fondo avvertivano qualcosa di misterioso nei seguaci di Cristo che un testo a­nonimo del II secolo, la Lettera a Diogneto, descriveva così: «Vivono nella loro patria, ma come forestieri… Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo... Sono uccisi, e riprendono a vivere ... Sono poveri, e fanno ricchi molti... Sono ingiuriati e benedicono… E condannati gioiscono come se ricevessero la vita».

Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia. Pagine 270. Euro 27,90
«Avvenire» del 16 febbraio 2008

Quando Praz ampliò la nozione di Romanticismo

di Bianca Garavelli
Che cosa rende simili la gorgone Medusa e le pallide, fragili donne protagoniste delle storie dell’età romantica? E perché tanti poeti e scrittori ne sono stati affascinati, come costretti da un destino comune? Sono domande che si è posto quasi ottant’anni fa Mario Praz in questo celebre saggio dal titolo sontuoso, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, che ancora è attuale. E ha trovato delle risposte convincenti, ampliando la nozione stessa di Romanticismo. Così il mito della bellezza medusea, non una vera e propria bellezza in senso classico, ma una mistura di inquietudine, torbido fascino e sottile perversione diventa il ponte tra il Romanticismo e il suo prolungamento nel Novecento, l’ampio fenomeno del Decadentismo, che acquista solide radici e significative sfumature. Ma non è il solo argomento a suo favore: l’analisi di Praz, anglista, ma anche critico letterario e d’arte, spazia dalla figura femminile nelle poesie, nei romanzi e nelle opere teatrali d’Europa dalla fine del Settecento in poi, alla personificazione stessa del male, Satana, che si incarna in svariati per­sonaggi maschili anche insospettabili, alle va­rianti del sadismo, e an­cora alle sfumature del­la sensualità perversa che percorre molta let­teratura e arte figurati­va. Basta scorrere l’in­dice per intuire l’am­piezza di raggio di questa indagine e la ricchezza dei suoi risultati. Forse è uno dei motivi per cui questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1930, ha avu­to un successo tanto straordinario e ancora oggi si può considerare un caso. È quanto cerca di capire Fran­cesco Orlando, l’autore del saggio introduttivo, che è stato docente di Letteratura Francese e di Teoria della Letteratura e si è a lungo occupato dei rappor­ti fra letteratura e psicanalisi, ponendo alcune que­stioni importanti: dato che questo è un saggio di let­teratura tematica, o po­tremmo dire con ter­mine odierno compa­rata, quali sono gli ec­cessi e i limiti di tale di­sciplina? Il primo a­spetto che emerge è la difficoltà di trovare un equilibrio fra analogie e differenze. Praz in que­sto si è dimostrato in grado di agire con gran­de libertà, superando pregiudizi e aspettative, come quelli generati per e­sempio dalle riflessioni di Benedetto Croce. Ma è sta­to soprattutto sul versante di somiglianze e analogie che si è mosso, e facendo di questo strumento di in­dagine, che gli riusciva congeniale, la sua arma vin­cente. Allo stesso modo ha agito per le riflettere sui periodi letterari. Come osserva Orlando, «decidere il limite superiore dei fenomeni equivale quasi a chie­dersi come nascono, perfino un po’ cosa sono». Ec­co dunque perché possiamo tanto godere, ancora oggi, dell’audacia di Praz nell’affondare nel passato di miti vicini a noi, scoprendo come l’eroe tipico di By­ron, solitario, ribelle e trasgressivo, sia imparentato con il Satana biblico, mentre il celebre protagonista del Ritratto di Dorian Gray diviene un discendente sia di qualche eroe di Poe, sia soprattutto del divin Marchese De Sade. Da cui forse non è lontano, attra­verso il genere del romanzo nero, persino il nostro Manzoni. Anche la nozione di plagio appare sotto u­na luce nuova, specie nel caso del grande sperimen­tatore D’Annunzio. E così procedendo, continuando a studiare la natura di questi fenomeni letterari, ri­schiamo di scoprire quella del nostro tempo, che pro­lunga le inquietudini del secolo appena concluso.

Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Bur Rizzoli. Pagine 450. Euro 13,00
«Avvenire» del 16 febbraio 2008

Con la 194 aborti ridotti? Magari fosse così

Impossibile risultato senza prevenzione
di Gian carlo Blangiardo
La legge 194 ha realmente dimezzato il numero di aborti? Alcuni lo affermano, molti lo pensano. D’altra parte, perché stupirci se una norma – che la recente relazione ministeriale segnala essere «non solo efficace, ma saggia e lungimirante. profondamente rispettosa dei principi etici della tutela della salute della donna e della responsabilità femminile rispetto alla procreazione» così come «dei valori sociali della maternità e del valore della vita umana dal suo inizio» – viene poi largamente interpretata come artefice del ridimensionamento che ha portato le interruzioni volontarie di gravidanza da quasi 250mila nei primi anni Ottanta a circa 140mila secondo l’ultimo dato disponibile?
Eppure non è difficile rendersi conto che alla causa ipotizzata (la legge 194) non può essere ricondotto alcun effetto di riduzione delle Ivg, semplicemente perché rispetto agli anni in cui il ricorso all’aborto volontario era ai massimi livelli nulla è cambiato sul piano normativo. Sarebbe plausibile attribuire alla 194 il merito di aver ridotto gli aborti, solo se con il passare degli anni dalla sua entrata in vigore le si potesse accreditare una qualche azione di prevenzione. Ma chi si sentirebbe oggi di affermare onestamente che è proprio grazie alla legge 194 che si sono potute prevenire più di 100mila Ivg annue? Negli ultimi 30 anni, le donne hanno forse trovato attraverso la legge 194 la soluzione ai problemi di varia natura che suggerivano loro di interrompere una gravidanza? No di certo.
Così come non hanno trovato nell’applicazione della legge alcuna azione di disincentivo o di contrasto. È innegabile che l’offerta e il quadro entro cui avvalersi della 194 non si è affatto modificato nel tempo in senso restrittivo. Anzi, si potrebbe legittimamente affermare che una decisione che i primi anni scontava ancora qualche resistenza di ordine morale e culturale, a lungo andare viene ormai percepita, per quanto difficile e dolorosa, come 'normale'.
Soprattutto da parte di chi – si pensi alle meno che trentenni – ha sempre convissuto con l’attuale normativa. Non è dunque la «saggia e lungimirante» legge 194 che ha modificato la realtà delle statistiche sull’aborto volontario. Se una riduzione c’è stata e se è stata di quelle dimensioni – il dubbio è legittimo, posto che oggi è certamente più agevole «risolvere i problemi» con tecniche che sfuggono alla rilevazione statistica e quindi al relativo conteggio – il merito non va certo attribuito alla 194, che proprio sul piano della prevenzione ha dimostrato la sua assoluta inefficacia: è semplicemente la domanda di Ivg che, nonostante il crescente contributo delle donne straniere (comunque ancora relativamente modesto), si è ridotta.
Verosimilmente, a seguito di una contraccezione più diffusa, così come della comparsa di metodiche di intervento – si pensi alla pillola del giorno dopo – che non esistevano negli anni Ottanta e, in positivo, anche delle crescenti iniziative del volontariato pro-life che si è prodigato nell’aiutare a risolvere i problemi che inducono ad abortire. Smettiamola di credere, e di proclamare, che la legge 194 abbia meriti per gli oltre 100mila casi che mancano alla conta rispetto a trent’anni fa. Semmai, ricordiamoci delle sue responsabilità per i 140mila che ancora oggi avvengono.
«Avvenire» del 16 febbraio 2008

La vita quotidiana ai tempi della rivolta ' 68

La pillola, il sesso, l’amore. In famiglia
Di Gian Franco Venè
Mendicare l’assoluzione o «vivere nel peccato»? Usare o no la pillola anticoncezionale? L’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae gettava sulle donne responsabilità e colpa. Ma che ne pensavano i sacerdoti? L’ultimo figlio era nato regolarmente; la donna portava sul viso e nel corpo i segni del recente dolore, ma di un dolore affatto naturale. Tuttavia la donna insisteva nel proposito. «Mio marito», disse al prete, «mi ha fatto un discorso chiaro: d’ora in avanti basta figli. Perché, perché...». Ora il discorso della donna si ingarbugliò e svanì nella confusione. «In altre parole», mi racconta il prete, «il marito vietava alla moglie di avere altri figli in avvenire per non guastarsi la bellezza e per non lasciar prevalere nell’economia familiare il peso affettivo dei figli. C’è un limite nello sviluppo della famiglia, al di là del quale il padre si sente soltanto padre e la madre soltanto madre. Mi capisce?». «Le parole della donna miravano a difendere il proprio fascino e la propria femminilità. E questo su esplicita richiesta del marito». Il marito non ricattò la donna. Non le disse: o prendi la pillola o finisce che ti tradisco. Le disse semplicemente: o prendi la pillola, oppure i nostri rapporti dovranno rarefarsi. Rarefare i rapporti, nella vita familiare, può significare molte cose: può essere l’inizio della freddezza, può essere l’obbedienza al metodo anticoncezionale consigliato da Paolo VI: l’Ogino-Knaus. In teoria, può essere persino santità. Così la donna avvertì su di sé, l’incubo del peccato. Per dieci anni il marito non le aveva mai parlato di controllare le nascite: lei sola s’era amministrata, fidando in Dio. Adesso era calato sopra la sua coscienza qualcosa di assai simile a un ordine. O pecchi coscientemente, o rinunci al tuo essere donna. Il prete che la confessava domandò: «Ma suo marito non si rende conto del male che le fa?». E lei: «Non mi fa del male. Soltanto dice che, senza pillola, non avrà rapporti con me se non nei giorni sicuri». Allora il prete parlò con il marito della donna. Si conoscevano dall’immediato dopoguerra, quando il prete militava tra i ragazzi di un partito di estrema sinistra e l’uomo era iscritto ai baschi verdi dell’Azione cattolica. All’epoca il futuro prete e il futuro marito si tiravano pietre per la strada. Poi, il ragazzo iscritto al partito di sinistra subì una conversione d’ordine più intellettuale che spirituale e a 18 anni entrò in convento. I vecchi nemici si ritrovarono in chiesa. Disse il prete: «In fondo, tu sottoponi tua moglie a un ricatto». E l’uomo: «Niente affatto: le dico che non voglio più figli». E il prete: «Ma tua moglie ha il diritto sia di seguire la legge cattolica, ossia non prendere la pillola, sia di assolvere gli obblighi coniugali». E l’uomo: «Ma la legge cattolica non raccomanda anche l’astinenza? Bene: io ho promesso a mia moglie soltanto l’astinenza». E il prete: «Se tua moglie non fosse in grado di osservare questa astinenza, che le imponi?». E l’uomo: «Se mia moglie vorrà essere una peccatrice, prenda la pillola». «Capisce?», mi domanda adesso il prete, «capisce l’ipocrisia? Quell’uomo, secondo la legge cattolica, non solo non è un peccatore nel suo ricatto, ma appare addirittura come un virtuoso. Eppure io so che un uomo simile impone alla moglie il proprio egoismo». Non può essere vero il contrario? Non può essere che quell’uomo ami sul serio la moglie e tema per lo sfiorire della sua bellezza, oppure per il peso eccessivo delle preoccupazioni familiari? Porto ormai con me una domanda che è al primo posto rispetto alle altre: «Secondo voi, reverendi padri, qual è il motivo umano, razionale, universalmente comprensibile, che possa spiegare il divieto degli anticoncezionali nelle famiglie italiane?». La domanda è ancora qui, sul mio taccuino, senz’ombra di risposta.
«Corriere della Sera» del 31 gennaio 2008

E Fanfani creò il «potere bianco»

Cent’anni fa nasceva un protagonista della Prima Repubblica e della svolta a sinistra
Di Alberto Melloni
Le ambizioni: formare una classe dirigente e sconfiggere i clericali
In una Repubblica ignara della sua storia recente, i documenti resi noti in occasione del centenario della nascita di Amintore Fanfani arrivano come uno schiaffo sulle pigrizie conoscitive della ricerca. Fanfani, infatti, è scomparso perfino dall’album delle famiglie politiche: perché è stato troppe cose per poterlo impacchettare facilmente. Puledro di spicco della scuderia di padre Gemelli, il giovane professore assorbe in Cattolica gergalità antisemite, di cui si libererà, e ingenuità: salvo conservare ancora nel 1960 un filo di rancore, ricordando quando «nel ‘26-’29 noi dell’Azione cattolica eravamo esortati a resistere al fascismo e a farci bastonare e a non iscriverci, mentre l’avv. Pacelli e il card. Gasparri trattavano la Conciliazione». Ma nel decennio 1943-53 Fanfani ricrea la propria visione politica nei cenacoli dossettiani di Casa Padovani prima e di via della Chiesa Nuova poi. Il suo contributo alla Costituzione nasce in quel gruppo: ma egli sarà il primo a separarsi da Dossetti, con una coda di ripicche giunta fino ai Meeting ciellini. Gestore della transizione post-degasperiana, stabilisce con Moro l’asse che porterà al centrosinistra e ne interpreterà l’ambizione internazionale sia all’Onu, sia nelle spericolate manovre negoziali per ottenere quella tregua in Vietnam che non verrà mai. Capace di forzare la prudenza di Paolo VI nella «chiamata a un inutile eroismo» (la definizione è di Montini) del referendum sul divorzio, sarà protagonista nel 1978 del tentativo, tardo e fallito, di superare la «fermezza» e di sparigliare gli ideologismi degli assassini di Moro. Segretario della Dc, presidente del Consiglio dai tempi di Siri a quelli di Ruini, mancato presidente della Repubblica, Fanfani è essenziale per capire l’ultimo cinquantennio italiano. Non tanto per la sua longevità politica: piuttosto per la sua capacità di produrre classe dirigente e per l’idea che una linea politica debba e possa persuadere i suoi nemici. Il primo punto è decisivo. Tutti i capicorrente - democristiani e non - hanno usato della rappresentanza per promuovere i fedelissimi, spesso con assoluta noncuranza per l’incompetenza tecnica o morale dei beneficiati. Fanfani si distingue da loro non per scrupoli, che non ha: ma per lo scopo che si dà. Egli intende creare una classe dirigente gemellianamente capace di egemonia, sa costituire poteri responsabili nello Stato: e basterebbe rileggere la lettera con la quale nomina Ettore Bernabei alla direzione della Rai («sappia ora Ella su quale alta Cattedra siede») per rendersi conto che Fanfani crea poteri a cui consegna autonomia, non debiti d’obbedienza. Il secondo punto è documentato dallo straordinario Diario di Fanfani ora all’Archivio del Senato. Fanfani vuol persuadere chi lo ostacola, anche quando - è il caso del centrosinistra - si trova contro «la Chiesa». Distinguere nell’infuocato 1960 il criptofranchismo del cardinale Ottaviani, dal possibilismo di monsignor Dell’Acqua e dall’atteggiamento del Papa era difficilissimo. Fanfani lo fa e reagisce, perché sa che uno Stato sano e una dialettica democratica limpida fanno bene alla Chiesa più di un passivo clericalismo camuffato da obbedienza. Scrive il 18 maggio, quando il giornale vaticano (disobbedendo al Papa, ma Fanfani non lo sa) «invita i cattolici a non far nulla in politica senza il consenso della gerarchia», che questo condanna i cattolici «all’isolamento, in quanto nessun partito potrà trattare con noi, se prima non si è assicurato che abbiamo il placet. Così alla Dc non resta che farsi nominare un assistente ecclesiastico. Ma v’è di più: l’elettore si rifiuterà di dare il voto ad un partito le cui decisioni non gli sono note e comunque possono cambiare per interventi esterni. E a prescindere poi dal problema della commistione di Stato e Chiesa, e di deterioramento dell’autonomia di un partito e dei cittadini, e quindi del deterioramento della sovranità dello Stato, che quelli concorrono a determinare. Dove si andrà a finire, con questa curiosa rinascita di "temporalismo" estensivo?». Passano 11 mesi di voci e disgrazie, per l’Italia e per Fanfani: ma gli dirà il suo grazie il Papa bergamasco, che già aveva scherzato con l’aretino una volta dicendogli che la medaglia del pontificato lo chiamava pastor et nauta, pastore e nuotatore: «Io sono il pastor, lei è il nauta».
Cento anni dalla nascita Il 6 febbraio prossimo, centenario della nascita di Amintore Fanfani, si terrà a Roma presso l’Auditorium Fintecna (via Veneto 89), alle ore 17, un dibattito sullo statista aretino. Intervengono Cesare Mirabelli, Francesco Paolo Casavola, il cardinale Achille Silvestrini e il senatore Oscar Luigi Scalfaro
«Corriere della Sera» del 31 gennaio 2008

Meglio alla lingua o all’ombelico? Quanto si rischia con il piercing

Indagine francese valuta i pericoli e le zone del corpo più «delicate»
di Daniela Natali
Allarme piercing in Francia dove non esistono norme precise in materia e l’Académie Nationale de Médicine, preoccupata, stila una serie di raccomandazioni. In Italia, fin dal 1998 il Ministero ha emanato direttive su piercing e tatuaggi, prevedendo, per esempio, corsi di formazione del personale e caratteristiche igieniche dei laboratori; parecchie Regioni, peraltro, si sono date norme anche più severe. Ma l’indagine francese è utile anche per noi. Dopo una revisione degli studi internazionali sull’argomento, giunge infatti a una valutazione completa dei rischi legati al piercing. Infezioni locali e sanguinamenti vengono riportati nel 10-30% dei piercing. Arrossamenti, gonfiore, sensazione di calore, dolore e pus dipendono dai materiali usati, dalle capacità dell’operatore, dall’igiene durante e dopo il trattattamento, ma anche dalla zona del corpo in cui viene praticato il piercing. E, infatti, su 100 infezioni locali 40 sono riferite - secondo dati dei medici di base inglesi - all’ombelico, zona ad alto rischio di macerazione; 35 all’orecchio (ma qui la spiegazione va cercata più nella frequenza di questo tipo di piercing che nella sua reale pericolosità); 22 al naso (che già di per se è una «porta aperta» alle infezioni), 5 al seno e 8 complessivamente a lingua, palpebre e genitali: in questi ultimi casi però non bisogna farsi rassicurare dalla bassa percentuale che dipende soprattutto dal basso numero di persone che osano richiedere piercing così particolari. Nell’analisi francese si parla anche di infezioni estremamente gravi: dalla setticemia, all’endocardite, all’epatite. Davvero il piercing è così rischioso? «Riportiamo la questione nei giusti termini - risponde Antonella D’Arminio Monforte, docente di malattie infettive all’Università degli studi di Milano -. Un’infezione locale grave può condurre a setticemia, endocardite, osteomielite, ma si tratta di evenienze rarissime. E per arrivare a tanto bisogna trascurare i sintomi di un’infezione locale che ci curano semplicemente con antibiotici orali. Quanto al rischio Aids ed epatite, è ben noto, tanto che, dal 1998, il Consiglio d’Europa ha escluso dalla donazione di sangue chiunque si sia fatto un piercing, o un tatuaggio, nell’anno precedente. Da non trascurare poi il rischio di allergie locali: evitare di inserire anelli e simili in nickel. Meglio poi lasciar perdere del tutto il piercing se si è diabetici, dializzati, immunodepressi».

40% Su 100 infezioni da piercing, questa la percentuale di quelle all’ombelico, zona ad alto rischio in quanto facilmente esposta al pericolo di macerazione
Su 100 casi di infezione, questa la quota che riguarda l’orecchio, ma la cifra alta si spiega soprattutto con il gran numero di persone che scelgono questo piercing. Le infezioni serie sono l’1%
Su 100 infezioni, 12 sono al naso; 5 al capezzolo; 8 riguardano insieme lingua, palpebre e genitali: qui i pochi casi di infezione si spiegano però con la rarità dei piercing in queste aree
Precauzioni: l’igiene da rispettare e verificare Per cautelarsi, chi intende sottoporsi a piercing dovrebbe innanzitutto badare all’igiene dei locali dove lavora l’operatore, tenendo presente che sala d’attesa, sede dell’intervento, zona di smaltimento rifiuti dovrebbero essere in tre aree separate. Alla larga da piercing nei seminterrrati e niente piercing con operatori «ambulanti». Chi esegue il piercing dovrebbe indossare guanti, ma anche mascherina e occhiali. Meglio ancora se utilizza un camice. Obbligatorio l’uso di materiale monuso per effettuare i trattamenti. Buon segno se, dopo aver chiarito caratteristiche e rischi del piercing, l’operatore vi sottopone un consenso informato da firmare. Una volta a casa, non trascurate l’igiene della zona trattata e evitate di grattarvi.
«Corriere della Sera» del 27 gennaio 2008

Paperone, un capitalista avido ma con sentimento

Elogio del magnate incontentabile
di Giulio Giorello
Più amaro e caustico dei grandi avari della letteratura
«Un capitalista di carattere, finalmente!». Era il fatidico Sessantotto: con queste parole, nella prefazione di un Oscar Mondadori dedicato a Vita e dollari di Paperon de’Paperoni, Dino Buzzati salutava il papero più ricco del mondo (nell’originale Uncle Scrooge McDuck), creato dalla fantasia di Carl Barks. Il magnate di Paperopoli aveva fatto la sua prima comparsa nel 1947, in una storia che nella versione americana doveva svolgersi a Natale, «questa stupida giornata in cui ognuno ama il suo prossimo!». Più amaro e caustico dei grandi avari della letteratura, Paperon de’Paperoni dichiarava, testardo e orgoglioso: «Io sono diverso: tutti mi odiano e io odio tutti!». Curvo sotto il peso degli anni, in ghette e palandrana, confessava subito dopo: «Io non sono mai allegro!». Avrebbe voluto, forse, voler bene al nipote Paperino, ma solo «se fosse un bravo ragazzo e per bravo intendo coraggioso... e lui ha paura perfino della propria ombra». Lo metterà alla prova in quel Natale sul Monte Orso in cui cercherà di spaventarlo travestendosi da feroce plantigrado. Ma il destino befferà chi ha macchinato lo scherzo crudele. È proprio il caso di dire, come vuole il proverbio, di fare attenzione alla pelle dell’orso! Alla comparsa di belve in carne e ossa, il nipote fifone sarà quello che ci farà la miglior figura. Ma la commedia degli equivoci su quella scena montana segnerà l’inizio di un lungo sodalizio tra il vecchio zio e gli altri componenti della famiglia dei Paperi. Apprenderemo via via che Paperon de’Paperoni è l’ultimo discendente dell’«intrepido» clan dei McDuck, che è passato per tutte le traversie della Scozia, dalle insurrezioni giacobite fino al coinvolgimento nella guerra anglo-boera. «Più duro dei duri», l’emigrato Paperone ha realizzato il sogno della frontiera americana: dalla prima, piccola moneta guadagnata con il sudore della fronte ai «tre ettari cubici di dollari» stipati nel deposito sulla collina che domina la città: è stato cercatore d’oro in Alaska, cowboy nel selvaggio West, commerciante di spezie nelle Indie, incettatore di diamanti in Africa - e abbiamo il sospetto che sia stato anche pirata e fuorilegge. Qualche volta i fantasmi che emergono dal suo passato vengono a bussare alla sua porta, implacabili; in altri casi Paperone non esita a sfidare in «gare di ricchezza» non solo i suoi concorrenti di questo mondo, ma addirittura i più strani tipi di ricconi disseminati nell’intera Galassia. Qualche altra volta, invece, i suoi crucci vengono dagli snob, che lo ritengono ancora troppo plebeo per ammetterlo nei salotti buoni di Paperopoli, o da dame caritatevoli che attentano al suo patrimonio. E non è ancora finita, basti pensare ai terribili Beagle Boys (da noi la Banda dei Segugi, diventata poi la Banda Bassotti): straordinaria compagine di detenuti modello e delinquenti ostinati, che rappresentano in Barks il corrispettivo anarchico della «Legge e Ordine» incarnata dai Paperi. (E tali resteranno anche nelle storie italiane, come dimostra questo scambio di battute: «Passami il capo!» chiede per telefono ai Bassotti il miliardario Rockerduck, deciso, una volta per tutte, a umiliare il rivale. Risposta del bandito con la mascherina, che si distingue dai confratelli solo per il numero di matricola: «Quale capo? Nessun Bassotto è così stolto da lasciarsi comandare!».) Altro che odioso avaraccio! Nel corso del tempo è cambiato il mondo, e Barks ha fatto cambiare Paperone con lui. Il «vecchio taccagno» ha acquistato l’inseparabile cilindro ed è quasi ringiovanito, temprandosi attraverso le disgrazie, alternando profitti e perdite, rivelando persino i suoi amori. Passionale e razionale a un tempo, non è affatto uno di quei tipi paurosi e avidi che si limitano a celare i propri averi per contemplarli di nascosto. Invece, Paperone è convinto che il denaro debba far funzionare tutte le strutture della società civile, dal commercio al divertimento: «Pozzi di petrolio, ferrovie, miniere, fattorie, fabbriche, navi, cinematografi...», ripete a se stesso ogni mattina, mentre fa la «doccia di monete». Ha capito che il perseguimento del proprio successo può rivelarsi fonte di utilità per tutti i suoi concittadini. Così diventa un filosofo - almeno, se aveva ragione il poeta Novalis quando diceva che «la filosofia muove ogni cosa». Di certo, noi non siamo tra quelli che odiano «il Vecchio Cilindro», anzi! E sospettiamo che inizialmente Paperone non sia felice solo perché ciò che ha compiuto non gli basta. «La vita comincia a diventare noiosa! Vado in giro a vedere se esiste qualcosa di nuovo che mi possa interessare». Per fortuna ci sono dei paperi - e dei capitalisti - fatti così, che non cedono al sentimentalismo, ma hanno dei sentimenti, e sono comunque di quel tipo d’uomo (o di papero) che non si arrende mai.
«Corriere della Sera» del 27 gennaio 2008

Se la maglia nera diventa laboratorio d'avanguardia

di Pietro Ichino
Il debito della sola Regione Lazio, 10 miliardi di euro, è un sesto del debito complessivo delle Regioni italiane. Il suo disavanzo annuale, quasi 1 miliardo, è di gran lunga il più alto. Quando, nel 2006, è improvvisamente emerso l’enorme deficit del suo sistema sanitario, negli anni precedenti mal contabilizzato, Standard&Poor’s ha impietosamente abbassato il rating del Lazio a BBB: il più basso tra quelli assegnati alle Regioni italiane, un livello da terzo mondo. Decenni di amministrazione allegra hanno portato questa Regione ad avere lo stesso numero di dipendenti della Lombardia (che ha una popolazione quasi doppia) con il costo pro capite più alto rispetto a tutte le altre. Ma sono dipendenti molto cagionevoli: in media 32 giorni all’anno di assenze dal lavoro, escluse le ferie: 7 in più rispetto alla media, già di per sé abnorme, dei dipendenti del settore. Record anche per il numero dei dirigenti laziali, uno ogni 10 dipendenti: quasi il doppio della media (già altissima) dello stesso settore; e anche questi con gli stipendi più alti. Che cosa può fare il governatore di una Regione ridotta in questo stato, a parte la cura da cavallo somministrata nell’ultimo anno per ridurre drasticamente il deficit sanitario? Dove può trovare le energie necessarie per voltare credibilmente pagina, la molla necessaria per costringere i propri dirigenti - parlo di quelli degni di questo nome - a riappropriarsi delle loro prerogative e incominciare a esercitarle incisivamente? Una notizia di oggi induce a pensare che, paradossalmente, proprio il fatto di versare nelle condizioni peggiori possa fornire a questa amministrazione i motivi e il coraggio altrimenti difficili da trovare, per dare il colpo di reni che le occorre. Proprio il confronto con le altre, il doversi togliere di dosso la «maglia nera», può darle la spinta necessaria per trasformarsi in un laboratorio d’avanguardia, per sperimentare quanto di meglio si offre su questo terreno nel panorama internazionale. Prima di dare la notizia, prepariamola con un esercizio di immaginazione. Ipotizziamo che il presidente Piero Marrazzo si presenti domattina ai propri cittadini senza promettere alcuna nuova legge, ma la decisione di incominciare ad applicare rigorosamente la legge vigente per garantire il buon andamento dell’amministrazione: una scelta rivoluzionaria! Immaginiamo, dunque, che il presidente annunci il doveroso impegno a riallineare entro due anni il proprio organico dirigenziale alla media delle altre Regioni (ciò che ne comporterà il dimezzamento netto rispetto alle posizioni dirigenziali esistenti a fine 2007), utilizzando gli «ammortizzatori sociali» che la legge gli mette a disposizione; inoltre l’impegno a riallineare alla media, entro lo stesso biennio, anche il tasso annuale delle assenze dei suoi dipendenti, riducendolo di 12 giorni. Questi obbiettivi - prosegue il presidente in questo sperato «domattina» - , facilmente misurabili e controllabili, con le loro scadenze precise, verranno assegnati al segretario generale, con indicazione del livello minimo al di sotto del quale egli sarà considerato inadempiente, e pertanto rimosso, nonché dei risultati ulteriori per i quali invece otterrà un premio; gli stessi obbiettivi e gli stessi incentivi saranno poi distribuiti con lo stesso sistema ai dirigenti apicali dei diversi comparti e via via ai responsabili di ciascuna area o ufficio; una parte dei risparmi conseguiti sarà destinata a premiare la parte più efficiente e produttiva delle strutture e dei dipendenti. Poi, un altro esperimento, che riprende una delle previsioni più innovative contenute nel Memorandum sul pubblico impiego stipulato proprio un anno fa tra governo, Cgil, Cisl e Uil: dove la Regione eroga direttamente servizi ai cittadini, saranno gli utenti stessi a valutarne la qualità di volta in volta; e dalla loro valutazione dipenderà il premio di risultato agli addetti. Ipotizziamo, infine, che il presidente annunci un’altra misura «pericolosissima» per le inerzie burocratiche: la trasparenza totale, garantita da un analista del tutto indipendente, posto a capo del Nucleo di Valutazione regionale, magari - perché no? - reclutato tra i migliori esperti di audit pubblico operanti in un Paese nordico all’avanguardia in questo settore. L’intera cittadinanza avrà accesso diretto, via Internet, all’archivio digitale dell’amministrazione e potrà misurare e valutare «in tempo reale» tutto quanto in essa accade; verranno messi in rete giorno per giorno e resi facilmente leggibili tutti i dati sui passi avanti compiuti nel ridimensionamento degli organici dirigenziali, nel superamento della duplicazione di aree funzionali, nella riduzione dei tassi di assenteismo anomali, nel miglioramento della qualità dei servizi, comparto per comparto, ufficio per ufficio. Proviamo a pensare a un presidente della Regione che mette in gioco su questi impegni precisi, misurabili, verificabili giorno per giorno, ufficio per ufficio, l’intera sua posizione e credibilità politica, bruciandosi i ponti alle spalle: i cittadini potranno vedere con i propri occhi, in corso d’opera, quali obiettivi verranno raggiunti e quali no, chi sono i dirigenti che non li hanno raggiunti e se sono stati rimossi davvero; dati alla mano potranno chiederne conto al presidente e alla sua giunta e mandarli a casa se non saranno soddisfatti della risposta. Finito di sognare? Ecco allora la notizia: questo, a grandi linee, è il progetto che il Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università di Milano ha elaborato, in esecuzione di un incarico conferitogli l’anno scorso dal presidente della Regione Lazio, e che verrà presentato lunedì prossimo a Roma, in una conferenza stampa promossa dalla Regione stessa. Lunedì si saprà se il presidente intende davvero farlo suo fino in fondo. I cittadini del Lazio sono avvertiti. Certo, quei quattro esperimenti-pilota di cui il progetto si compone, anche se avranno successo, non risolveranno se non una parte relativamente piccola dei mali che affliggono la Regione Lazio; ma costituiranno un primo passo importantissimo nella direzione giusta. E se i media faranno bene il loro mestiere, valorizzando al massimo l’accessibilità totale dei dati e facendo sentire il fiato dell’opinione pubblica sul collo ai politici e al management regionale, questi saranno incoraggiati, se non addirittura costretti, a proseguire su quella strada. Se poi l’applicazione incisiva di questo metodo del riallineamento delle amministrazioni peggiori alle migliori omologhe (cioè di quel benchmarking comparativo di cui Luca Ricolfi ha magistralmente descritto i potenziali effetti dirompenti sulla Stampa del 19 gennaio) farà della Regione «maglia nera» un modello per tutte le altre, ciò potrebbe, in un momento buio come questo che le nostre istituzioni pubbliche stanno attraversando, aprire prospettive davvero straordinarie.
«Corriere della Sera» del 31 gennaio 2008

19 marzo 2008

Alle origini del fallimento

La caduta del centrosinistra
di Ernesto Galli Della Loggia
La fine del governo Prodi evoca innanzi tutto un’importante questione storica destinata, temo, ad accompagnarci a lungo: la costante minorità numerica della sinistra italiana, e dunque la sua costante debolezza elettorale di partenza. L’Italia profonda non è un Paese progressista. Ciò costringe la sinistra, per avere qualche probabilità di andare al governo, ad allearsi con forze diverse da lei, più o meno dichiaratamente conservatrici. Il che, tuttavia, come si capisce, può avvenire in momenti e su spinte eccezionali (per esempio l’antiberlusconismo) ma è difficile che duri a lungo. Si aggiunga - come concausa di questa minorità, e sua aggravante - la paralizzante eredità comunista. La vicenda italiana indica quanto sia difficile che da quell’eredità nasca un’evoluzione di tipo uniformemente socialdemocratico. La stragrande maggioranza degli eredi del vecchio Pci, infatti, come si sa, ha rifiutato tale evoluzione e il suo nome, preferendo invece, al suo posto, quello alquanto vago di «democratici». Accanto a loro è nato dal tronco del vecchio partito un blocco di tenace radicalismo (le tre o quattro formazioni che ancora si dicono «comuniste») il quale include almeno un terzo dell’antico elettorato di Botteghe Oscure: insomma un ulteriore fattore di debolezza. C’è poi da ultimo la sinistra cattolica proveniente dalla vecchia Democrazia cristiana. Per avere qualche speranza di vincere è necessario dunque assommare e combinare queste tre componenti, e in più, come dicevo, è necessario trovare un’alleanza con il centro. Un’impresa non da poco, bisogna ammettere; proprio per riuscire nella quale si è spinti a ricorrere a una personalità a suo modo autonoma e di prestigio, per esempio Romano Prodi, la quale però a sua volta tenderà per forza di cose a concepire anch’essa prima o poi una sua personale strategia, a costituire un suo personale polo politico. Portando così al massimo il potenziale divisivo e la confusione delle lingue. Il governo Prodi, già nato sulla base di queste difficoltà strutturali, le ha aggravate di suo con una serie di errori e di insufficienze. Innanzi tutto con la faccenda del programma. Invece di provare a superare la fortissima disomogeneità dell’alleanza accordandosi preliminarmente su cinque, al più dieci, cose importanti da fare nella legislatura, invece di perdere anche magari qualche settimana prima delle elezioni a discutere priorità e stabilire modalità a quel punto davvero vincolanti, si è preferito soddisfare le esigenze identitarie dei circa dieci-dodici componenti della coalizione e compilare un ridicolo programma «monstre» di 280 e passa pagine, impossibile da attuare ma solo fonte di discussioni e rivendicazioni continue, da parte di tutti contro tutti, appena si è cominciato a governare: e da cui nessuno, ovviamente, si è mai sentito impegnato. Anche su queste secche si è incagliata la capacità realizzativa del governo. La cui portata assai limitata, del resto, si è però vista già all’inizio, nell’estate del 2006, quando il ministro Bersani presentò un pacchetto di riforme liberalizzatrici che, pur se nella sostanza cautissime, furono ancor di più sterilizzate finendo per partorire il più classico dei topolini. SEGUE DALLA PRIMA Egualmente, di qualunque vera riforma dell’ordinamento giudiziario - un’altra questione cruciale che mina la vita del Paese - non si è sentito mai parlare. Lo stesso dicasi poi per quella che pure il centrosinistra aveva presentato come la più urgente ed essenziale delle riforme: la legge sul conflitto d’interessi. Sono pure cadute nel dimenticatoio grandi questioni nazionali, come l’infame legislazione sulla sanità pubblica, le condizioni delle reti infrastrutturali, lo stato disastrato dell’istruzione. Per quanto riguarda i conti pubblici, infine, anche qui all’urgenza da tutti invocata di ridurre la spesa pubblica non è stato dato alcun seguito, nel mentre si è ricorso come sempre all’aumento del carico fiscale. Insomma, la coalizione di centrosinistra, presentatasi come portatrice di volontà e di visioni realizzative assai superiori a quelle dei suoi avversari, è mancata clamorosamente alla promessa creando un sentimento di disillusione profonda nell’opinione pubblica. Sentimento accresciuto dalla presenza, anche ai vertici, di un personale politico troppo di frequente demagogico, vuotamente assertivo quanto inconcludente, di cui il ministro Pecoraro Scanio è stato l’esempio ormai emblematico. Un personale politico che su un altro versante ancora ha mostrato peraltro la sua scarsa qualità: su quello dell’occupazione del potere. A cominciare dal presidente del Consiglio il centrosinistra ha condotto dappertutto una sistematica politica lottizzatrice. I suoi uomini di governo, favoriti dalla vasta influenza sociale e culturale a loro omogenea, frutto della storia della Repubblica, non hanno mai fatto spazio a nulla e nessuno che non portasse la loro etichetta politica. Posti, incarichi e finanziamenti sono andati solo a persone e cose della loro parte. Per quella che non era ritenuta tale, invece, non si è mancato di fare ricorso a pressioni dirette e indirette, intrecciate a più o meno sottili intimidazioni. In questo modo, e abbastanza paradossalmente, la coalizione di centrosinistra è venuta costruendo un’immagine di sé sempre più identificata con le oligarchie e i poteri tradizionali, con le nomenclature più tenaci della Repubblica. E ben prima che il verdetto del Senato sono stati lo scoramento e la delusione che tutto ciò, insieme al resto, ha provocato nei suoi stessi elettori, che hanno scavato la fossa in cui alla fine il governo è precipitato . Egualmente, di qualunque vera riforma dell’ordinamento giudiziario - un’altra questione cruciale che mina la vita del Paese - non si è sentito mai parlare. Lo stesso dicasi poi per quella che pure il centrosinistra aveva presentato come la più urgente ed essenziale delle riforme: la legge sul conflitto d’interessi. Sono pure cadute nel dimenticatoio grandi questioni nazionali, come l’infame legislazione sulla sanità pubblica, le condizioni delle reti infrastrutturali, lo stato disastrato dell’istruzione. Per quanto riguarda i conti pubblici, infine, anche qui all’urgenza da tutti invocata di ridurre la spesa pubblica non è stato dato alcun seguito, nel mentre si è ricorso come sempre all’aumento del carico fiscale. Insomma, la coalizione di centrosinistra, presentatasi come portatrice di volontà e di visioni realizzative assai superiori a quelle dei suoi avversari, è mancata clamorosamente alla promessa creando un sentimento di disillusione profonda nell’opinione pubblica. Sentimento accresciuto dalla presenza, anche ai vertici, di un personale politico troppo di frequente demagogico, vuotamente assertivo quanto inconcludente, di cui il ministro Pecoraro Scanio è stato l’esempio ormai emblematico. Un personale politico che su un altro versante ancora ha mostrato peraltro la sua scarsa qualità: su quello dell’occupazione del potere. A cominciare dal presidente del Consiglio il centrosinistra ha condotto dappertutto una sistematica politica lottizzatrice. I suoi uomini di governo, favoriti dalla vasta influenza sociale e culturale a loro omogenea, frutto della storia della Repubblica, non hanno mai fatto spazio a nulla e nessuno che non portasse la loro etichetta politica. Posti, incarichi e finanziamenti sono andati solo a persone e cose della loro parte. Per quella che non era ritenuta tale, invece, non si è mancato di fare ricorso a pressioni dirette e indirette, intrecciate a più o meno sottili intimidazioni. In questo modo, e abbastanza paradossalmente, la coalizione di centrosinistra è venuta costruendo un’immagine di sé sempre più identificata con le oligarchie e i poteri tradizionali, con le nomenclature più tenaci della Repubblica. E ben prima che il verdetto del Senato sono stati lo scoramento e la delusione che tutto ciò, insieme al resto, ha provocato nei suoi stessi elettori, che hanno scavato la fossa in cui alla fine il governo è precipitato.
«Corriere della Sera» del 27 gennaio 2008

Tanti esempi di altruismo, nati sulla scia del dolore

Anche nel nostro Paese molte organizzazioni per la ricerca o l'assistenza sono state fondate in seguito a tragedie familiari
di Ruggiero Corcella
È vero: in Italia il settore socio-sanitario rimane un punto di riferimento nel campo della raccolta di finanziamenti privati: la ricerca medico-scientifica raccoglie il 26 per cento delle liberalità. La spina dorsale del sistema delle donazioni in Italia è ancora costituita dai tanti casi, nati sulla scorta di una tragedia personale. Così dall' esperienza di grande dolore di un fratello consumato dal cancro, nel 1976, l' ingegner Virginio Floriani uscì con la forza di far nascere in Italia un modello di assistenza ai malati terminali. Dalla vendita della Telettra, società fondata con una decina di amici nel 1946, ricavò un miliardo di lire e nel ' 77 costituì la Fondazione che oggi fornisce assistenza domiciliare gratuita a tremila pazienti «inguaribili, ma non incurabili» come teneva a sottolineare l' imprenditore. Enzo Ferrari volle dedicare e intitolare alla memoria del figlio Dino, che soffriva di distrofia muscolare, il centro del Policlinico di Milano per lo studio e la terapia delle malattie neuromuscolari. Benedetta D' Intino, la prima nipotina di Cristina Mondadori aveva quindici mesi quando la sua vita si spense per una cardiopatia congenita. In ricordo della piccola, nel '92 le famiglie Mondadori, D' Intino e Formenton crearono la fondazione «Benedetta D' Intino a difesa del bambino e della famiglia». La Fondazione aiuta le famiglie che hanno bambini con problemi psicologici o di comunicazione. Il nome di Beatrice Vitiello è legato ad una vera e propria battaglia che da Milano si allargò a livello nazionale. Beatrice morì di epatite B e i genitori, intrapresero una lunga battaglia che portò a rendere obbligatoria la vaccinazione contro l' epatite virale per i neonati e i ragazzi fino a dodici anni. Come non ricordare, poi, la vicenda straordinaria di Augusto e Michaela Odone e di Lorenzo, il figlio colpito da adrenoleucodistrofia? Nel ' 92, il film L' olio di Lorenzo ha fatto conoscere al grande pubblico la storia degli Odone (lui italiano trapiantato negli Stati Uniti) che a dispetto della scienza ufficiale scoprì appunto la miscela di acidi grassi che permise al figlio (e ora a molti altri come lui) di ritardare l' evoluzione della malattia. A differenza degli Stati Uniti e dell' Inghilterra, da noi il mecenatismo che dona per le buone cause preferisce mantenere il basso profilo o addirittura passare sotto silenzio. Lo ribadiscono due esperti del settore, Alberto Masacci amministratore unico di Goodwill, centro di ricerca per il fund raising, e Pier Luigi Sacco direttore scientifico della The fund raising school, la prima scuola italiana per diventare professionisti della raccolta fondi, nata otto anni fa all' università di Bologna. Secondo i dati elaborati dall' Osservatorio sul fundraising e la filantropia, Goodwill e The Fund raising school, questo mercato privato si aggira sui 9 miliardi di euro ed è in crescita esponenziale. «In Italia abbiamo 4.720 fondazioni - dice Masacci -. Rispetto al ' 99, c' è stato un aumento del 57 per cento. Siamo assolutamente convinti che nei prossimi anni nasceranno fondazioni di derivazione da imprese, che diventeranno attori sociali fondamentali per la qualità della vita di questo Paese».In Italia Anche nel nostro Paese molte organizzazioni per la ricerca o l' assistenza sono state fondate in seguito a tragedie familiari.
«Corriere della Sera» del 27 gennaio 2008

Premi letterari, ecco le solite polemiche

di Maurizio Cucchi

Periodicamente si torna a parlare di premi letterari, con le inevitabili polemiche e le dichiarazioni di personale orrore, più o meno sincero, di molti scrittori e affini. Il clima, in genere, è quello della enfatizzazione di un fenomeno che in fin dei conti è più semplice e qualunquistico limitarsi a deprecare che cercare di sostenere o migliorare. Personalmente, mi è capitato e capita più volte di essere coinvolto, come concorrente o giurato, in premi di poesia o persino di narrativa, e devo dire che raramente mi sono davvero stupito di qualcosa. Semmai mi stupiscono quegli autori (tipo Sebastiano Vassalli) che dopo aver vinto un po’ dappertutto si dichiarano fieramente contrari alle gare letterarie e arrivano persino a far scrivere sui libri che non concorrono a premi.
La prima osservazione da fare, secondo me, è questa: i premi corrispondono, nei traffici che comportano e nell’incoerenza che sanno suscitare, a quella che è oggi la nostra società letteraria. Alcuni dei maggiori (in genere di narrativa) sono un fatto più mondano che culturale, poco o nulla utile alla vera letteratura, più vicini al festival di Sanremo, semmai, che a una normale e serena manifestazione legata al libro e alla letteratura (che sempre meno, del resto, vengono a coincidere). E siccome la confusione tra opere e semplici prodotti di mercato regna sempre più, la qualità degli esiti e dei premiati finisce con l’essere sempre più bassa.
In ogni caso i grossi premi (ma forse soltanto un paio, dopo tutto: Strega e Campiello) muovono grosse e comunque rilevanti vendite. Dunque perché stupirsi se gli editori cercano di accaparrarseli? Forse gli scrittori preferiscono il piccolo editore nascosto, rispetto a quello che più normalmente può dar loro visibilità e contratti interessanti?
I premi che hanno un’eco sono pressoché esclusivamente premi di narrativa, perché sempre di più, causa il mercato che impone ovunque le sue regole, si è creata una sorta di incongrua identificazione tra letteratura e narrativa. Il che respinge ai margini la saggistica, la critica letteraria e la poesia, pubblicate sempre di meno e conseguentemente lette sempre di meno. I premi di poesia, si obietterà, sono numerosissimi. È vero, e in genere costituiscono il solo o quasi il solo riconoscimento pubblico destinato al poeta, oltre che, come sappiamo, il solo riconoscimento economico, che potremmo più semplicemente considerare una modesta forma di indennizzo per un’attività artistica e letteraria che la nostra società riconosce, ma che non ritiene degna di reddito o sostegno di alcun genere. Va anche ricordato che esiste una rete fittissima di premi letterari sommersi, premi, cioè, del cosiddetto sottobosco, con giudici e concorrenti ignoti e domenicali, che distribuiscono denaro, spesso pubblico, e non semplici patacche come sarebbe meglio, a grotteschi personaggi, a sedicenti scrittori e poeti generalmente sprovveduti.
Mi rendo conto di aver riaperto la questione senza chiuderla in alcun modo. Una cosa, però, si può ragionevolmente affermare. Un premio si giudica dalla qualità dei suoi vincitori. Già, e come si giudica la qualità?, può obiettare qualcuno. Be’, amici: imparando a leggere …

«Avvenire» del 7 febbraio 2008

Care, lunghe e all’estero: le nuove gite scolastiche

Il giro d’affari è di oltre 400 milioni di euro all’anno. Un mercato che è in continua crescita
Le proteste I genitori si lamentano per le cifre che sono costretti a pagare. E c’è chi deve rinunciare
Di Annachiara Sacchi
Partono in 2 milioni, costi alti per le famiglie
Il «volontario», l’unico prof che abbia accettato di accompagnare la II D, entra in classe con aria sconsolata. Sospiro. «Ragazzi, vi comunico le date della gita in Spagna: dal 7 al 12 aprile». Si alza l’urlo dei 25 liceali: «Partiamo!». La stagione dei viaggi «di istruzione», il rito di iniziazione che ogni anno «travolge» un milione e trecentomila studenti delle superiori e almeno 600 mila delle medie, sta per cominciare. Con mille controindicazioni, spese eccessive per le famiglie (fino a 700 euro), e la disperazione dei docenti: «Troppe responsabilità». Il business In gita. Dalle città d’arte alle capitali europee, dagli agriturismo alla Grecia classica. Meglio in pullman che in aereo, più in hotel che in ostello, possibilmente all’estero e per minimo quattro giorni. Secondo la Fiavet, l’associazione delle agenzie di viaggio, si tratta di un business da 400 milioni di euro. E il mercato è in continua crescita. Ogni anno a Genova si tiene la Borsa del turismo scolastico, mentre il Touring Club Italiano ha creato un osservatorio ad hoc. I risultati: lo scorso anno sono partiti un milione e trecentomila studenti delle superiori, la maggior parte tra marzo e aprile; le mete preferite sono Roma, Firenze e Venezia in Italia, Spagna, Francia, Germania all’estero. La città più amata dai ragazzi: Praga (ci sarebbe anche Amsterdam, ma i professori si rifiutano di prenderla in considerazione). Ecco la prima contraddizione dell’universo gita. «Secondo il ministero dell’Istruzione - sottolinea Roberto Ruozi, presidente del Touring Club - le gite presuppongono uno stretto legame con il programma. Purtroppo non è così». Troppe destinazioni «esotiche» (molto in voga Malta) o che non hanno nulla a che fare con l’indirizzo di studi. «E invece bastano 300 chilometri - ricorda Ruozi - per imparare a conoscere il nostro Paese».
Gli stage
Non solo musei, monumenti, panorami. L’ultima novità del turismo studentesco sono gli stage linguistici. Una o due settimane di studi all’estero (al posto delle regolari lezioni) per imparare inglese e francese. «Il fenomeno - racconta Giuseppe Amabile, direttore del tour operator International Know How - è esploso negli ultimi due anni. Una classe di Gela ha appena prenotato 15 giorni a New York». I prezzi: dai 500 ai 900 euro.
Costi e proteste
Già, i costi. La spesa media per una gita è intorno ai 267 euro per studente (192 per i viaggi in Italia, 332 per quelli all’estero). Ma si può arrivare a 600-700 euro. Anche i ragazzi delle medie (in alcuni casi perfino delle elementari) hanno iniziato a viaggiare. Settimana bianca, scuola natura, cinque giorni a Roma. «Così non ce la facciamo», sospirano mamme e papà. Il dilemma: dire no ai propri figli (rischiando di creare drammi in famiglia e in classe) o non arrivare alla fine del mese? Maria Grazia Colombo, presidente dell’Agesc, l’associazione che riunisce i genitori delle scuole cattoliche, commenta: «La gita deve essere accessibile a tutti. Se diventa motivo di discriminazioni perde la sua missione educativa». È d’accordo Davide Guarneri, presidente dell’Age, Associazione italiana genitori: «I costi sono fonte di continue lamentele da parte dei nostri associati. Hanno ragione: il viaggio di istruzione ha senso solo se necessario. Non è obbligatorio farlo tutti gli anni». Presidi e low cost «Non oltre i 400 euro per studente». Ecco il tetto massimo di spesa stabilito al liceo classico Tito Livio di Padova. «E solo all’ultimo anno», aggiunge la dirigente, Daria Zangirolami. Per tutti le altre classi bastano 200-300 euro. «Ma rimangono spese considerevoli, ce ne rendiamo conto». Qualche scuola ha deciso di usare i voli low cost, sperando di risparmiare. «Niente di più sbagliato», spiega Innocente Pessina, a capo del Berchet di Milano (dove i ragazzi di una terza spenderanno 610 euro l’uno per 5 giorni a Belfast). Il motivo è semplice: «L’agenzia fa un preventivo, noi accettiamo, e al momento del saldo c’è la sorpresa: il prezzo dell’aereo è aumentato». Il consiglio dei presidi: chiedere il preventivo ad almeno tre agenzie e limitarsi a pagare un anticipo. «Si salda al rientro».
Responsabilità e rischi
Gita a Venezia. Sul ponte di Rialto la ragazza si accascia. Riesce solo a dire: «Prof, ho fatto una ca..ata. Mi sono fatta una canna». Poveri docenti. Costretti a rimanere svegli per intere nottate, a inseguire i ragazzi per le strade di mezza Europa, ad assumersi tutte le responsabilità se succede qualcosa. Sono sempre meno gli insegnanti che accettano di accompagnare i minorenni (che siano delle medie o delle superiori). La lettera di un prof: «Il nostro preside ci ha fatto firmare un documento in cui ci avvisa che la nostra responsabilità sugli alunni è estesa 24 ore su 24. Questo ha portato sgomento e preoccupazione». Troppi rischi. «I docenti vanno capiti - osserva Guarneri dell’Age - ma qualcosa si può fare. Consegnare la mappa della città a tutti i ragazzi, preparare cartellini di riconoscimento per i più piccoli, distribuire l’elenco con i numeri di telefono. Pochi accorgimenti da preparare durante l’anno». Il Touring Club ha un’altra idea: creare, in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, un «manuale del viaggio di istruzione». «Se il prof conosce le regole del gioco - conclude Ruozi - diventa tutto più facile. La gita non si improvvisa».
«Corriere della Sera» del 24 gennaio 2008

«Basta con le notti da incubo»
Di Giulio Benedetti
Viaggio d’istruzione con i ragazzi degli ultimi anni delle superiori. Per alcuni prof solo evocarne il ricordo produce un brivido, sensazioni di stanchezza e frustrazione. Eppure Cinzia Cetraro, insegnante di inglese al liceo scientifico Newton di Roma, non si arrende e da mesi sta cercando di organizzare uno scambio con la public school di Nuova Delhi «R.K. Puram». I ragazzi tra i 16 ai 18 anni che se la cavano meglio con l’inglese per 700 euro trascorreranno 10 giorni in India: corsi ed escursioni di mattina, visite guidate nel pomeriggio, la sera attività organizzate dalla scuola indiana e poi casa dei nuovi amici che, a loro volta, saranno ospitati a Roma a maggio. «Stage e scambi si prestano per organizzare viaggi più coerenti con il piano formativo della scuola», dice Rosario Drago, esperto di istruzione. Tuttavia questo tipo di esperienza stenta ad affermarsi. Le famiglie non si fidano. Gli studenti non amano una formula che li condiziona troppo. E trattandosi di viaggi «fai da te» i prof devono lavorare molto per organizzarli, spesso con problemi di risorse. La vecchia formula, quindi, resiste. «Ritengo però che ormai non si debba andare oltre i tre giorni - dice Paolino Petrolino, dell’Associazione nazionali presidi (Anp) - . È il pernottamento a rendere la situazione ingestibile. Molti insegnanti si tirano indietro. Mi chiedo se i colleghi che insistono siano incoscienti o professori veramente vicini ai ragazzi». Franco Rocco, docente di geografia all’istituto Cena di Ivrea, ha detto addio alle gite con i suoi ragazzi un anno fa, a Valencia, dopo una notte in bianco durante la quale dalle finestre dell’albergo è volato di tutto. «Ho detto basta alle notti da incubo - si sfoga - Ora organizzo con i miei alunni uscite di un giorno e non sono deluso». «È vero - dice la collega Margherita Malavenda, docente di diritto nello stesso istituto - si ubriacano, fumano, a volte rompono tutto, ma non mi arrendo e cerco di farne dei cittadini». «Il contratto tra scuola e alunni deve essere forte - afferma la preside del liceo Turrisi Colonna di Catania, Anna Maria Di Falco - altrimenti i ragazzi si scatenano. Il viaggio è la cartina tornasole del peso educativo di un istituto».
«Corriere della Sera» del 24 gennaio 2008

Benigni: "Io, Dante e Gesù Cristo"

Intervista a Roberto Benigni, che sta leggendo l’«Inferno» in tv. "Quand'ero ragazzo leggevo il Poeta come se andassi in farmacia. Curava da tutti i mali. Si può amare la Divina Commedia senza credere in Dio ma non senza conoscere il cristianesimo"
di Maurizio Caverzan
Il nuovo Benigni è intelligenza più innocenza. È letizia più umiltà. Come si fa a rendere sulla carta questa miscela, questo impasto esplosivo? Più facile richiamare alla mente come l’abbiamo visto in queste settimane nel Tuttodante televisivo, quando irrompe saltellante sul palco ligneo di Piazza Santa Maria Novella a Firenze scortato dalle note della sigla che prelude alle sue apparizioni. E più facile soffermarsi sulla passione che trabocca dalla sua lettura della Commedia.
Domani sera lo vedremo ancora su Raiuno con il XXVI dell’Inferno e poi mercoledì, in prima serata con il XXXIII, il canto del Conte Ugolino. Pura follia per la nostra tv. Se un marziano precipitasse in Italia e guardasse i quiz, i reality e i giochini, imbattendosi nel Benigni dantesco intriso di poesia, amore e spiritualità, troverebbe in lui un compagno. Il Benigni che disvela e declama la condanna dei lussuriosi Paolo e Francesca «galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse», dell’eretico Farinata degli Uberti che «el s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto», del Conte Ugolino, traditor della sua Pisa che «la bocca sollevò dal fiero pasto», è un marziano di questa tv, un alieno, un extraterrestre non solo per l’ardire del cimento - la Divina commedia - o per il contesto che ha scelto - la volgarissima televisione - ma anche per il senso dell’avvenimento contenuto in ciò che fa e dice lo stesso Benigni.
Per esempio: questa intervista - niente politica è la condizione posta - avrebbe dovuto svolgersi via e-mail, ma poi lui ha preferito che ci parlassimo «perché spero che la voce, il tono, il suono della parola, trasmettano qualcosa di più di un testo scritto, magari preciso preciso, ma alla fine statico».
È così il nuovo Benigni: quando si muove fa succedere qualcosa e lui stesso desidera che succeda. Perché, prima di tutto, dev’essere successo qualcosa in lui, se è vero che da qualche tempo si mostra più sensibile, più attento ai temi della spiritualità e del cristianesimo. Niente di nuovissimo se ci si pensa. Però, fin dai tempi dell’ultimo del Paradiso - «Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile alta e più che creatura» - recitato al Festival di Sanremo, correva il 2002, qualcosa dev’essere pur accaduto...
«Quella - mi travolge, subito torrenziale - è stata la cosa più vertiginosa, più folle: Dante al Festival di Sanremo. È il luogo che lo trasforma, lo fa esplodere. Dante scoppia in un posto così, che sembra il suo contrario. C’avevo una paura... Ma quando ho paura di una situazione, mi vien voglia di buttarmi, di andarci dentro. Come quando ho fatto La vita è bella, o il film sulla mafia, o sull’organo sessuale femminile. Andare a cercare il rischio, i posti sconosciuti, le zone pericolose è la missione dei comici».
Gli specialisti storcono il naso per l’esegesi linguistica di Benigni. Non è rigorosa, non è ortodossa, dicono. «Ci sono tanti modi di leggere Dante. C’è quello adolescenziale, dell’immedesimazione. C’è quello giovanile, della ricerca dei messaggi, quando ognuno di noi vuol trovare la via per diventare adulto. A me la Commedia è entrata dentro fin da ragazzo. Prima la leggevo come se stessi andando in farmacia, mi curava da tutti i mali. Poi ho imparato ad ascoltarla con innocenza, che per me è il modo giusto, quando la ascoltavo dai contadini, dai vecchi di casa mia. E ho scoperto che Dante ti fa sentire che ci sei solo tu, ti spiega tutti i dettagli, come in una confidenza personale. Quando mi chiedono se è ancora moderno è come se mi chiedessero se è moderno il sole, l’acqua. Io voglio solo trasmettere il fatto che mi piace, che mi dà gioia».
Trasmette anche una densità spirituale inaspettata... «Dante ci fa entrare in quello che solo l’intelligenza è in grado di cercare ma, da sola, non è capace di trovare. La sua forza è essere profondamente laico. Non ha atteggiamenti pappalardeschi, come direbbe lui, da falsi devoti. È religioso senza essere mai pretesco, bigotto. Non si rivolge a Dio, alla Madonna, ai santi. Si rivolge alle Muse, ad Apollo. Il suo universo è la poesia. Si può leggere la Divina commedia senza credere in Dio, ma non senza conoscere il cristianesimo. A parte che tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo... La poesia ci aiuta a compiere un’esperienza irripetibile di libertà, è finzione e ritmo, ma ci aiuta a intraprendere un grande viaggio alla ricerca di uno sguardo. Quello sguardo che solo le donne posseggono e che ci introduce nel punto più segreto del mondo».
Nelle lectio Dantis Benigni passa spesso dalla Commedia al Vangelo, si sofferma a spiegare le parabole, mostra di subire il fascino della persona di Gesù Cristo... «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Si legge il Vangelo e ci si chiede “chi è questo qui?”. Io lo leggo per piacere - leggo anche altri libri della Bibbia come quello della Sapienza - ma resto sconquassato dal Vangelo, basta un rigo delle parabole. Ha una forza spettacolare, viene da alzarsi in piedi sulla sedia... C’è dentro una violenza che ti mette le ali. Una forza che ti scarabocchia tutta la vita. Perché ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro te stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé. Per me è una cosa sconcertante» si entusiasma Benigni. Che poi frena, come pensando ad alta voce: «... anche se non sono sempre della mia opinione... Lo dico per sdrammatizzare, per relativizzare, per prenderla leggera».
Sarà, Benigni, ma lei oggi sembra un altro... A differenza di altri artisti in voga, ha una posizione più costruttiva... «Come diceva Vauvenargues, in realtà sono poche le cose che ci consolano perché sono poche quelle che ci affliggono. Io faccio il comico e anche i comici cambiano. Le cose comiche, le sciocchezze, sono sublimi. La felicità non sta nell’assenza dei contrasti, ma nell’armonia dei contrasti. È questa armonia a essere costruttiva. Se uno vedesse quello che ero vent’anni fa non mi riconoscerebbe. Certi uomini sono come le montagne: più si innalzano e più diventano freddi. Io dico grazie a Dio perché ci sono i comici che ci ricordano sempre che siamo piccoli».
Ha usato la parola delle parole, Benigni. Felicità. Ma quando gli chiedo che cos’è per lui, si ritrae. «Non glielo direi mai. I comici hanno sempre un volto triste. Ma, come diceva Stanislavskij, per trasmettere felicità bisogna essere felicità. Che cos’è per me non glielo dirò mai. Al massimo - rilancia - se un giorno ci incontriamo, posso farglielo vedere».
Già, della felicità non si parla. Semmai, s’incontra.
«Il Giornale» del 10 febbraio 2008