14 marzo 2008

L’aborto come fatto privato. Ma arriva l’incidente. E tutto salta

C’è qualcosa di illuminante nella macabra vicenda genovese
di Marina Corradi
Mogli della Genova bene, imbarazzate a abortire in un ospedale pubblico. L’attrice di un reality show, per cui un figlio è un inciampo alla carriera. Gravidanze venute da una relazione extraconiugale, di cui nessuno deve sapere. Nelle anonime testimonianze delle donne indagate nell’inchiesta di Genova, sui giornali, lo spaccato di un aborto clandestino diverso da quello che a volte, carsicamente, emerge dalle cronache. Non extracomunitarie illegali, ma benestanti ansiose di fare in fretta; e che, a casa, non ci si accorga di niente. La tragica storia di Genova dimostra prima di tutto che l’aborto clandestino esiste, anche se, negli annuali rapporti ministeriali sulla applicazione della 194, si sottolinea con costante soddisfazione il calo degli interventi. Poi ci sono, almeno, le ventimila interruzioni clandestine stimate dall’Istituto superiore di Sanità; le straniere che si arrangiano con un farmaco, e a volte finiscono con un’emorragia all’ospedale; poi ci sono anche studi in palazzi eleganti, in quartieri residenziali.
L’aborto, al di là delle statistiche ufficiali, ha un 'sommerso' di cui la vicenda genovese potrebbe essere solo una punta vistosa. Ma, al di là del legale e del sommerso, il suicidio di un medico da venticinque anni in servizio all’ospedale Gaslini, di un uomo conosciuto e stimato d’improvviso accusato di praticare aborti clandestini, getta Genova nello sbalordimento; e non può, pure nella pietà per questa fulminea tragedia, non porre delle domande. Sul sito Internet del Secolo XIX piovono email di gratitudine per il ginecologo che ha fatto nascere i propri figli da una gravidanza difficile, da un parto travagliato.
Al Gaslini, ospedale cattolico, il dottor Ermanno Rossi i bambini li faceva nascere. Le sue pazienti testimoniano della sua sensibilità professionale e umana. Poi – secondo le intercettazioni e le testimonianze di altre pazienti – nello studio privato praticava aborti. Per mille euro. O cinquecento, secondo i casi. Una cifra tale da giustificare la messa in gioco della reputazione di tutta una vita? Perché, allora? Dottore, gli avrebbe detto una paziente intervistata dal Secolo XIX, «mio marito non deve assolutamente sapere». E viene rassicurata: «Non lo saprà nessuno». Medico attento, umano, 'squisito', dice la signora, e se ne torna a casa grata. Il 'perché', dalla parte del medico, sembra allora stare in un’alleanza perfetta con la donna. Alleanza tacita e assoluta, che però esclude da un lato il 'pubblico' e la lealtà con il mondo attorno, come se eliminare una vita fosse cosa esclusivamente privata.
Dall’altro, nega totalmente quel terzo invisibile. Se sua madre l’avesse voluto, sarebbe stato un figlio festeggiato e vezzeggiato in una stanza d’ospedale. Ma, in quel patto privato, il figlio è un nulla – neanche un numero nelle statistiche della legge 194. E tutto, in mezz’ora e per mille euro, è tornato in ordine: carriere di stelline televisive, matrimoni perbene e borghesi rispettabilità.
Il piccolo incomodo, eliminato. Poi d’improvviso i carabinieri, e un uomo che traccia, sconvolto, un bilancio disperato. Anti­abortista sì, ma per convenienza? L’accusa è bruciante. Ma su questa morte già c’è chi grida: è colpa dei pro life; oppure: è colpa dei troppi medici obiettori. La presidente dell’Aied, che non è certo una organizzazione cattolica, al Secolo XIX dichiara che «in Liguria la 194 funziona».
La storia di Genova è in realtà storia di aborti riservati per donne benestanti. È l’aborto 'privato' che pretende di non essere detto, né discusso nella sua natura, né tantomeno visto lealmente nella sua essenza. È quello, anche, che non si dice, per reciproca convenienza. È, nell’ordine apparentemente perfetto, l’annientamento totale dell’invisibile. Ciò che dovrebbe, oltre lo smarrimento di Genova, convincere della necessità e dell’urgenza di un dibattito limpido, non ideologico e finalmente concreto su aborto e applicazione della 194. Perché, senza grida né proclami, tutto sia detto. Perché qualcuno di quei figli invisibili possa nascere.
«Avvenire» del 14 marzo 2008

Nessun commento: