04 marzo 2008

Leopardi, Nietzsche e l’umile gregge

Angoscia e oblio dinanzi al cosmo
di Natalino Irti
La percezione della temporalità distingue l’uomo dagli animali e lo rende inquieto
La gregge: tema davvero inconsueto e curioso per un elzeviro: sì, la gregge, che di rado scorgiamo, quasi immagine di favole antiche, nella campagna romana, e che ormai invano cercheremmo per i tratturi che dall’Abruzzo scendono al mare e alle tiepide distese di Puglia. Ma proprio l’umile gregge, col suo vagare per i campi, con la lieve e ignara felicità, con il vivere ritornante e ripetitivo, ha mosso la fantasia di poeti e il pensiero di filosofi. Qui s’intrecciano i nomi di Giacomo Leopardi e di Federico Nietzsche. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia nasce in Leopardi fra l’autunno 1829 e la primavera 1830. Poesia somma, che ascolta le parole pure e originarie, dette dal pastore nell’Asia lunare e deserta, e così raccoglie il senso della vita umana e dell’intero universo. La greggia vi appare, nella penultima strofa, come oggetto d’invidia: «Non sol perché d’affanno / quasi libera vai; / ch’ogni stento, ogni danno, / ogni estremo timor subito scordi: / ma più perché giammai tedio non provi». La gregge «scorda», non ha memoria neppure del timore estremo, dell’imminente pericolo di morte. Il vivere della gregge come non ha durata, poiché si identifica ed esaurisce in singoli e puntuali episodi, così è al riparo dalla noia: non è veramente un vivere, ma un «posare», un consumare il tempo in uno stato di quieta incoscienza. L’immagine della gregge giungerà, di lì a qualche decennio (inverno fra il 1873 e il 1874), nella seconda «inattuale» di Federico Nietzsche: Dell’utile e del danno della storia per la vita. Ancora la gregge, che «non sa nulla dell’ieri e dell’oggi, salta qua e là, mangia, riposa, digerisce e poi torna a saltellare». Legata all’istante che passa, senza malinconia e senza tedio. Mentre l’uomo porta sempre con sé la catena del passato, e non può imparare a dimenticare, «l’animale vive in modo non storico (unhistorisch) perché si dissolve nel presente ». Se l’ammirazione di Nietzsche per Leopardi fu discontinua, sempre intrinseco e profondo rimase il nesso fra poeta e filosofo (meglio dovrebbe dirsi, fra i due grandi pensatori). Giuseppe Gabetti ed Emanuele Severino vi hanno scritto pagine fra le più illuminanti e perspicue. La gregge leopardiana «scorda»: che non è un dimenticare, ma propriamente un non trattenere dentro di sé, un’assenza di memoria, un posarsi ed esaurirsi nell’istante del piacere e del dolore. È uno stare senza durare; non c’è né ieri né oggi; e nulla giunge dal passato ad assalire la gregge «quieta e contenta». Il tema ritorna tutto in Nietzsche, ma come utilizzato e messo al servizio di una dimostrazione filosofica. Non più il dolore cosmico di Leopardi, che chiude la poesia con gravità di sentenza: «Forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale»; ma l’antitesi argomentativa fra il vivere non storico dell’animale e il vivere storico dell’uomo. Il cosmo, diviso in natura e storia, perde la propria dolorosa unità. I versi di Leopardi dischiudono profondità abissali, e sollevano le ultime domande sul nostro destino. Il quale si racchiude nel tempo: è tempo la memoria, che risale all’ieri, e a mano a mano s’appropria del domani; è tempo il divenire, in cui le cose sorgono dal nulla e tornano nel nulla; è tempo la morte, dove si fa chiara la finitezza e precarietà della vita. L’animale - scrive Nietzsche - sta «nell’ambito di un orizzonte che potremmo quasi dire puntuale», esperisce il puro attimo, e lo vede morire e spegnersi per sempre: così il filosofo raccoglie la favolosa nenia del pastore leopardiano, e se ne fa portatore nell’anima più profonda della filosofia moderna. Soltanto l’uomo è temporalità e storicità, e perciò in grado di anticipare nella propria angoscia l’evento estremo della morte.
«Corriere della Sera» del 20 gennaio 2008

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