14 maggio 2008

"Merito e più poteri ai presidi": ecco la scuola del nuovo ministro

In una proposta di legge del febbraio scorso la Gelmini di fatto ha già espresso le sue idee su una riforma dell'istruzione pubblica
di Salvo Intravaia
"Il merito, innanzitutto". Ecco il pensiero del neoministro della Pubblica Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini. Nel totonomine dei giorni scorsi, il suo nome era già in circolazione proprio per la "casella" che le ha successivamente affidato il premier, Silvio Berlusconi. E assieme al nome, tra gli addetti ai lavori, sono cominciate a circolare anche le prime critiche: chi la considera troppo giovane e chi avrebbero preferito un tecnico con maggiore conoscenza sistema-scuola. Ma se qualcuno pensa che la trentacinquenne bresciana sia stata catapultata a Palazzo della Minerva quasi per caso si sbaglia. E di grosso. Lei ha le idee abbastanza chiare sulle mosse da fare per rilanciare il sistema dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
Il suo pensiero, quasi fosse una premonizione, è contenuto in una proposta di legge ("Delega al Governo per la promozione e l'attuazione del merito nella società, nell'economia e nella pubblica amministrazione e istituzione della Direzione di valutazione e monitoraggio del merito presso l'Autorità garante della concorrenza e del mercato") presentata lo scorso 5 febbraio, quando il governo Prodi era già caduto. Il disegno di legge prevede una serie di deleghe al governo: per la "valorizzazione del merito nel sistema scolastico e universitario", per "la valorizzazione del merito nella pubblica amministrazione" e per "la valorizzazione del merito nel mercato del lavoro".
Il motivo è semplice. "È noto - si legge nella relazione introduttiva della Gelmini - che il sistema-Paese sta attraversando, da molti anni, una crisi che attraversa tutti i livelli sociali e istituzionali; si tratta di una crisi di fiducia e di speranza tra le cui cause si può annoverare la scarsa valorizzazione del merito come criterio di distribuzione delle opportunità e di valutazione delle persone. L'impostazione statalista e dirigista che ha imperniato l'ordinamento degli ultimi cinquanta anni ha portato con sé la marginalizzazione del merito, che non è mai assurto a principio guida in grado di regolare i fenomeni sociali, i processi economici e le relazioni di lavoro".
Per rilanciare la scuola occorrerebbe manovrare tre leve: "Valorizzazione del merito e piena applicazione del principio di autonomia scolastica", "valorizzazione del merito degli studenti" e, infine, "valorizzazione del merito dei docenti". Come? In primis, passando per il "rafforzamento dei poteri organizzativi e disciplinari dei dirigenti scolastici con compiti di gestione amministrativa e di reclutamento del corpo docente". Proseguendo per "la promozione di una piena concorrenza tra le istituzioni scolastiche, mediante l'adozione di meccanismi di ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo" che pubblicherà "annualmente una classifica regionale delle istituzioni scolastiche fondata su parametri trasparenti e verificabili" e attraverso "il riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private".
Gli studenti dovrebbero essere spronati a dare il meglio attraverso "la cancellazione del sistema dei debiti formativi e l'aumento della selettività dei meccanismi di avanzamento scolastico, anche attraverso la reintroduzione degli esami di riparazione". Per coloro che sono in difficoltà occorrerebbe prevedere "all'interno del piano dell'offerta formativa delle singole istituzioni scolastiche, anche consorziate tra loro, appositi moduli integrativi obbligatori che diano l'opportunità, senza oneri a carico dello studente, di recuperare nel corso dell'anno eventuali insufficienze nelle singole materie" e per i più bravi incentivare "gli interventi volti alla concessione di borse di studio legate al merito, ferma restando la necessità di garantire un sistema adeguato di sovvenzioni a studenti meritevoli in stato di necessità".
Per spingere i docenti a lavorare "meglio" dovrebbe essere eliminato "ogni automatismo nelle progressioni retributive e di carriera degli insegnanti". Bisognerebbe liberalizzare progressivamente la professione docente "attraverso la chiamata nominativa da parte delle autonomie scolastiche su liste di idonei, con un periodo di prova di due anni scolastici propedeutico all'assunzione a tempo indeterminato" e dare "la possibilità alle singole istituzioni scolastiche di stipulare con singoli docenti contratti integrativi di tipo privatistico".
Per fare decollare il sistema universitario gli studenti dovrebbero sottoporsi ad "esami preliminari obbligatori per l'accesso alle università pubbliche e private, anche ove non sia previsto il numero programmato per le iscrizioni ai corsi di laurea, al fine di valutare la preparazione di base e i successivi progressi degli studenti". Bisognerebbe rimodulare "le tasse universitarie, con rafforzamento delle borse di studio destinate agli studenti meritevoli e aumenti delle tasse a carico degli studenti fuori corso", ampliare "l'ambito di applicazione dell'istituto del prestito d'onore".
Per la valorizzazione del merito dei docenti universitari e dei ricercatori si dovrebbe passare per la "la progressiva abolizione degli incarichi a tempo indeterminato". Occorrerebbe rivedere "i meccanismi di reclutamento, mediante l'istituzione progressiva della chiamata nominale da parte delle facoltà universitarie" e "introdurre sistemi di verifica triennali dei risultati della ricerca, ai fini del mantenimento dell'incarico e delle progressioni di carriera". Ma non solo. I finanziamenti agli atenei dovrebbero essere ripartiti in misura direttamente proporzionale ai risultati formativi qualitativi certificati da organismi terzi". Stesso discorso per gli Enti di ricerca ai quali toccherebbe la privatizzazione e "la soppressione di quelli pubblici che risultano inadeguati rispetto agli standard internazionali".
«La Repubblica» dell’8 maggio 2008

08 maggio 2008

Ma la Chiesa è maestra di libero pensiero

di Franco Cardini
Luciano Canfora ha pubblicato sotto forma di saggio, su «Il Corriere della sera» del 24 aprile, il secondo capitolo del suo recente libro «Filologia e libertà» (Mondadori): in esso, si dichiara con molta decisione che il cammino della storia della libertà di pensiero si snodò «attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi delle libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle 'scritture’dette appunto 'sacre'»; e si prosegue poi con vari argomenti, come quello secondo il quale vi sarebbe petitio principii, da parte delle Chiese cristiane storiche – e anzitutto quella romana – il pretendere che i testi scritturali dichiarati «canonici » contengano la Verità (e siano pertanto, in quanto ispirati da Dio, sacri) prescindendo da una loro precisa ricostruzione, quale appunto si può conseguire solo attraverso il lavoro filologico. Ora amicus Lucianus, sed magis amica veritas.
Piano, intanto, con la galleria degli illustri martiri del libero pensiero, nella quale egli allinea Erasmo, Spinoza e Bruno come se fossero proprio la stessa cosa. Erasmo, intanto, non disse mai una parola contro l’ortodossia cattolica: e, se un martire in quel torno di tempo ci fu, e ce ne fu uno esemplare, si trattò semmai di Thomas More, martire al tempo stesso della fede e della libertà. Ma prima di loro erano successe molte cose. Come ha ricordato un grande studioso, De Lubac, ch’era anche cardinale, la compresenza di addirittura quattro sensi nelle Scritture – tutti veritieri, ciascuno al suo livello – era alla base dell’esegesi medievale, in ciò già forse qualcosa di più che «prefilologica ». E non è stato a partire da un testo sacro, bensì da uno profano che la nascente filologia ha sgombrato in pieno XV secolo il campo da una secolare e fin allora condivisa menzogna, quella della cosiddetta «donazione di Costantino »: a farlo, a tutto scapito degli interessi quanto meno mondani del papato, è stato proprio quel Lorenzo Valla che senza dubbio avrebbe ispirato Lutero per il «libero esame» delle Scritture, ma che dal canto suo – nemmeno nei trattati più chiaramente anticuriali, come il De professione religiosorum – si è mai allontanato nemmeno d’un pollice dall’ortodossia. Ed è proprio il Valla che, tanto nel De libero arbitrio quanto nelle Dialecticae disputationes, ha prevenuto di mezzo millennio le critiche di Luciano Canfora e ad esse ha replicato che i principii della fede sono indimostrabili. Non è stata proprio la filologia moderna a cercare sovente di trascinare la comunità cristiana sul piano della critica razionalista delle Scritture, con ciò pretendendo l’abbandono e lo snaturamento della fede? Ciò premesso, perché scorgere tante penose contorsioni nella Divino afflante Spiritu di Pio XII?
Perché meravigliarsi se la Chiesa, confrontandosi con la storia e il progresso scientifico e tecnologico, riconosce le verità della scienza, rifiuta il sistema tolemaico e accetta anche la verità razionale contenuta nel metodo filologico? Solo la Chiesa ha, nella storia, avuto il coraggio di riconoscere e denunziare serenamente le colpe dei suoi figli. Lo ha fatto dinanzi alla filologia, alla memoria di Galileo, poi per le crociate o l’inquisizione, il massacro degli indios. Da Pio XII a Benedetto XVI, c’è stata una lunga teoria d’esami di coscienza e di pubbliche manifestazioni d’umiltà. La Chiesa dà l’esempio; ma altri non la seguono.
«Avvenire» del 1 maggio 2008

Così i filologi conquistarono la libertà

Luciano Canfora racconta in un saggio una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Di Luciano Canfora
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l’antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell’iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l’assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all’irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l’enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l’esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario. Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest’arte ((cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l’assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch’essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l’effetto insensatamente contraddittorio dell’invito a coniugare «riverenza al sacro testo» e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico). Ovviamente c’è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com’è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso - ed esso soltanto - contiene la verità. Invece qui c’è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che - oltre a rappresentare un’ulteriore petitio principii - per giunta accadde in un’epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico. Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale). Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l’autenticità dei testi - una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda - si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione - e quindi la lettera - del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.

Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, 13€). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.
« Corriere della Sera » del 24 aprile 2008