16 luglio 2008

La disfida di Parmenide

L’esistenza di Dio e il nulla: replica ad Emanuele Severino sui suoi rapporti con il pensiero cattolico e il suo maestro Bontadini
di Michele Lenoci
È confortante che ogni tanto si richiami l’attenzione sulla tematica metafisica e sulle fondamentali questioni relative all’essere, al nulla, al divenire e al problema di Dio, con la pretesa di poterle affrontare non solo attraverso metafore suggestive e persuasive, ma anche mediante argomentazioni stringenti e rigorose, giungendo a risposte univocamente fondate, per la loro immediata evidenza o per l’impossibilità del contrario, e capaci, quindi, di rivelare i vincoli necessari che legano pensiero ed essere. E quando su questi temi ritorna, in un lungo articolo sul Corriere della sera di ieri, un filosofo come Emanuele Severino, che al loro sviluppo, in modo originale e coerente, ha dedicato l’intera sua riflessione, il richiamo diventa significativo, sul piano storico e su quello teoretico. L’occasione è offerta da un volume che raccoglie gli atti di un Convegno veneziano, dedicato al pensiero di Gustavo Bontadini, nel centenario della sua nascita: vengono ripresi i momenti centrali di un dibattito, tuttora vivo, che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, ha animato le aule della Cattolica, per poi estendersi e raggiungere orizzonti più ampi e interessi più vasti, anche se quasi sempre alternativi rispetto a quelli alla moda, paghi, questi, delle loro metaforiche debolezze.
Di Bontadini Severino è stato allievo, e lo ricorda sempre con affetto e stima; così come entrambi, insieme con Sofia Vanni Rovighi, sono stati non dimenticati maestri di molti di noi, che in Cattolica abbiamo studiato e adesso insegniamo.
Il richiamo alla differenza insuperabile tra essere e nulla e all’impossibilità che l’essere non sia e il nulla sia, fin dal celebre saggio del 1964, costituisce la base per quel ritorno a Parmenide, in virtù del quale Severino considera il divenire impossibile, perché contraddittorio. Ma, a differenza dell’Eleate, non relega il molteplice, cioè le cose del mondo, nell’illusione, facendo propria la lezione di Platone, e, inoltre, si propone di fondare l’eternità assoluta degli enti, di tutto ciò che è ed ha una qualche forma di essere, per quanto umbratile e lieve possa apparire. Qui è stato il maggiore contributo di Severino: nel tentativo di rispondere alle obiezioni del suo maestro e dei molti interlocutori, egli ha sviluppato una prospettiva sistematica, sempre più ampia, avvolgente e complessa, in cui cerca di rendere plausibile, perché fondata, la contemporanea ammissione dell’eternità degli essenti e del loro mutevole e cangiante apparire.
E qui sta anche il suo secondo contributo, quello su cui maggiore è stata la disputa con Bontadini, e meno convincenti ancorché molto elaborate le sue risposte alle obiezioni: Severino ritiene che l’esperienza non attesti il divenire, cioè l’andare nel nulla o l’uscire dal nulla, ma solo l’apparire e lo scomparire degli enti: sicché ad affermare il divenire sarebbe solo una fede, una convinzione, condivisa da tutto l’Occidente, ma non per questo meno infondata e folle, giacché contraria alla legge del logos e, insieme, neppure attestata dall’esperienza.
Bontadini, che alla lezione dell’Eleate è sempre stato sensibile e attento, sin dagli anni Cinquanta, anche se in una prospettiva inizialmente diversa da quella del suo allievo, ha successivamente condiviso il principio parmenideo in senso forte, per cui l’essere non può annullarsi e divenire, ma ha sempre sostenuto che l’esperienza ci attesta un divenire come annullamento dell’essere, sia pure solo per un minimum, ritenendo che la distinzione tra non essere e non apparire, proposta da Severino, a un certo punto non sarebbe più sostenibile. E proprio a questo momento Bontadini dà avvio all’argomento dialettico per dimostrare l’esistenza di Dio, che tanto lo ha impegnato negli ultimi anni della sua riflessione e della sua esistenza: non sempre confortato, in ciò, dal consenso di allievi e interlocutori. Ma per lui il passaggio è necessariamente richiesto ove si ammetta, insieme, il principio di Parmenide e si vogliano 'salvare i fenomeni', cioè riconoscere l’attestazione empirica del divenire: solo Dio, eterno e creatore, può colmare, nella sua infinita positività, quel non essere che l’esperienza del divenire testimonia e che risulterebbe contraddittorio solo se fosse assolutizzato, cioè se non fosse inscritto e risolto in quel più ampio contesto ontologico, in cui i conti, cioè la somma algebrica tra positivo e negativo, vengono finalmente pareggiati.
Si delinea una prospettiva ontologica assai diversa da quella scolastica e classica, cui pure Bontadini si richiama e che intende rigorizzare, e un poderoso tentativo per provare che l’affermazione del divenire non è solo una 'fede', una convinzione folle, e, ciononostante, si può egualmente rimanere fedeli all’essere e al positivo; così egli, pur ammettendo l’annientamento delle cose, non ritiene irrefutabili le confutazioni che Nietzsche rivolge all’Assoluto: anche qui concorde con Parmenide e Severino, ma, insieme, da loro radicalmente distante (e, del resto, quali radicali opposizioni non implicano anche, e sempre, essenziali e sottese solidarietà?). Tuttavia, proprio in quegli anni, e successivamente, altre voci si sono levate per ricordare, che forse la distinzione tra ente ed essere e la sottolineatura dell’analogia dell’essere (del resto ben note a Severino) potevano offrire spunti per evitare una 'sostanzializzazione’dell’essere, cosicché la radicale opposizione tra essere e nulla non si trasferisse, immediatamente e necessariamente, in un’altrettanto radicale opposizione dell’ente (di ogni ente) al nulla, in modo da renderne contraddittorio il divenire. Ma qui si aprirebbe un altro capitolo, e forse un’altra storia.
«Avvenire» del 13 marzo 2008

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