01 luglio 2008

Quella nostalgia dell’intransigentismo

Chi rimpiange i tempi in cui Calvino rompeva amicizie per questioni ideali?
di Pierluigi Battista
Nostalgia dei tempi in cui le contrapposizioni ideali erano più nette e inequivocabili? Dipende, se poi il frutto di quei contrasti era l’insopportazione del dissenso, l’incapacità persino di conservare rapporti umani e amichevoli con chi osa sostenere posizioni diverse. Italo Calvino, ci ricorda «Liberazione» che ne riesuma una lettera del 1975, non poteva nemmeno ammettere che Claudio Magris dubitasse senza tentennamenti della liceità morale dell’aborto. «Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo». Il pensiero dissenziente di Magris procurava un dolore così lancinante da indurre Calvino a decretare la fine di un rapporto personale (più tardi ristabilito): «Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia». Il furore della discordia ideologica non risparmiava relazioni, affetti, sentimenti di stima e di lealtà. Un eccesso di intransigentismo che rivelava una totale sordità alle ragioni altrui. Meglio non rimpiangerlo, questo passato. Un’atmosfera di perentorietà ultimativa che contagiava un intellettuale solitamente descritto come un paladino del dubbio metodico, un campione della freddezza analitica, uno scrittore più volte tentato dall’eresia sebbene, come ha ricordato Enzo Bettiza, nello scompiglio provocato nella cultura della sinistra italiana dopo la repressione sovietica nell’Ungheria del ‘56, Calvino non abbia opposto nient’altro che «sommessi borbottii». Ma nell’età del ferro e della febbre ideologica anche i più refrattari seppero arginare troppo blandamente i richiami della militarizzazione del pensiero, fino a trasformarsi in sentinelle occhiute dell’ortodossia, autorizzate alla scomunica dei reprobi e dei «tiepidi». A Geno Pampaloni, reo di aver riconosciuto in George Orwell uno dei maestri della letteratura politica del Novecento e della battaglia culturale anti-totalitaria, Calvino comunicò nel 1951 la sua sentenza di condanna: «Tu non ti sei abbastanza premunito dall’infezione d’uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo». A Pietro Citati, colpevole di non essersi accodato alla campagna censoria che precedette e accompagnò la pubblicazione del «Dottor Zivago» di Boris Pasternak, Calvino scrive nel 1958 (due anni dopo i fatti d’Ungheria, per inciso) una lettera in cui deplora una sua affermazione molto forte nei confronti dei comunisti: «Ma sei matto? Forse ogni sfogo d’ira è giusto e sano, basta che dopo a ripensarci si arrossisca, come spero tu faccia». Pampaloni era «infetto»; Citati avrebbe dovuto «arrossire». Per Pier Paolo Pasolini era già pronta una furente replica di Calvino, molto indispettito perché l’interlocutore si era permesso di criticare un suo articolo del 1975 in cui aveva equiparato gli assassini del Circeo alla scarsa fibra morale della «borghesia italiana». Solo la morte violenta di Pasolini, avvenuta due giorni dopo la polemica, impedì la pubblicazione di una reazione molto aspra da parte di Calvino. Uno scrittore che dispensava prediche morali agli eretici, troncava l’amicizia con chiunque, sia pur momentaneamente, si fosse trovato come Magris sul fronte opposto al suo. Un passato di cui non c’è da avere nessuna nostalgia, nessun rimpianto.
«Corriere della Sera» del 25 febbraio 2008

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