01 luglio 2008

Tito, la mattanza dei cristiani

Nuovi terribili particolari sugli eccidi commessi dal regime nell’ex Jugoslavia tra il 1941 e il 1952, soprattutto a Sarajevo e Mostar
di Francesco Dal Mas
Ventisette luglio 1941, a Drvar, parrocchia della diocesi di Banja Luka, in Bosnia Erzegovina. Don Maximilian Nestor viene ucciso, insieme a numerosi pellegrini, di ritorno dalla festa di Sant’Anna vicino a Knin, in Kosovo; per non faticare, i partigiani di Tito li catturano, li legano e li ammazzano nei pressi della fossa di Golubnjaca, dove gettano i loro corpi. È il primo sacerdote ucciso della seconda guerra mondiale nel territorio dell’ex Jugoslavia. Il secondo, poche ore dopo, è don Juaraj Gospodnetic, parroco di Bosansko Grahovo. Catturato dopo la messa domenicale, viene condotto a Grahovo «legato come un orso» - riferiscono le cronache ­, ucciso e arso sulla brace. Quel 27 luglio 1941 è passato alla storia della Jugoslavia socialista come festa nazionale, in quanto «giornata dell’ insurrezione», ovvero dell’inizio della lotta antifascista. Un «vero massacro», più precisamente «una persecuzione» quella perpepretata tra il 1941 ed il 1952, ma soprattutto nel 1945, contro i cattolici ed in particolare i sacerdoti ed i religiosi nelle diocesi della Bosnia Ezegovina: Sarajevo, Banja Luka, Mostar e Tribinje. Lo certifica, dati alla mano, Tomo Vuksic, docente della facoltà teologica di Vrhbosna a Sarajevo e in quella di Zagabria, sul prossimo numero della rivista 'Nuova storia contemporanea'. «Sommando tutte le vittime, durante la seconda guerra mondiale, la Chiesa cattolica in Bosnia Erzegovina avrebbe perso 227 tra sacerdoti, fratelli laici, chierici, seminaristi e suore - riferisce lo storico - . In modo diretto o indiretto, per mano dei partigiani e dei comunisti ne furono uccisi 184 (cioè l’81,05%); 16 morirono di tifo; 18 per mano dei cetnici, 9 per motivi non precisati». Di soli 12 anni la vittima più giovane, Ivan Skender, seminarista di Banja Luka; di 84 anni quella più anziana, don Vide Putica, di Trebinje. «Perseguitando gli ecclesiastici, il regime comunista - riferisce ancora Vuksic - ottenne che la Chiesa in Bosnia Erzegovina, alla fine del 1949, rimanesse senza alcun vescovo in servizio. Il processo istruito nel 1948 avrebbe condannato il vescovo di Mostar, Petar Cule, a 11 anni e mezzo di reclusione. Il vescovo di Skopje, Similjan Cekada, che era anche l’amministratore apostolico di Banja Luka, alla fine del 1949 fu espulso, mentre l’arcivescovo di Sarajevo, Ivan Saric, dal 1948 venne costretto all’esilio». In quegli anni i cattolici nell’area in questione risultavano circa 650 mila e rappresentavano il 27% della popolazione, contro il 42% degli ortodossi (sicuramente più protetti) ed il 30% dei musulmani.
La tragedia più dura contro i sacerdoti inizia nell’autunno 1944 e si trasforma, in pochi mesi, in una vera e propria persecuzione, in particolare dal luglio 1945. «Alcuni venivano prelevati senza alcun motivo nei conventi, oppure nelle case parrocchiali, quindi catturati ed eliminati, per la sola colpa di essere preti, spesso senza essere neppure giudicati. Oppure la pena di morte veniva comminata nei cosiddetti tribunali militari. Altri morirono nei modi più diversi, tra le colonne di profughi verso l’Austria, altri ancora nei campi di concentramento comunisti e nelle prigioni dopo la guerra. I luoghi della loro scomparsa - che, ancor oggi, in molti casi rimangono sconosciuti - sono disseminati tra l’isoletta Daksa, vicino a Bubrvonik e Graz, in Austria». Nel suo saggio Vuksic rileva che per questo eccidio non è mai stata individuata una responsabilità. Eppure ci sono episodi documentati di uccisioni di massa, oltre che di singoli individui. Nel 1945 numerosi preti, tra le colonne dei fuggiaschi verso Bleiburg, in Austria, finirono vittime dei titini, così come lo fu un numero notevole di loro - «dopo la consegna da parte degli alleati ai partigiani» - , al ritorno, nella «marcia della morte». «Una volta presi in consegna dai partigiani, furono infatti riportati indietro ­passando per l’Austria, la Slovenia e la Croazia - verso la Bosnia Erzegovina e la Serbia. Marciando sempre a piedi insieme agli altri prigionieri, spesso anche legati a loro nelle colonne, maltrattati e privati di sostentamento, molti di questi trovarono la morte per fame, malattie o per uccisione immotivata». Non meno drammatico l’assalto dei partigiani dell’Ottavo Corpo d’Armata dalmata, il 7 febbraio 1945, a Siroki Brijeg, con bombardamento della chiesa e del convento. I frati vennero fatti uscire uno ad uno; ben 12 furono ammazzati sul posto. Il giorno dopo altri 9 frati, rifugiatisi nella centralina idroelettrica del convento, furono catturati, deportati verso Spalato e, successivamente, uccisi. Nella stessa giornata, vennero passati per le armi, a Mostarski Gradac, quattro sacerdoti e due chierici.
Solo 4 giorni dopo, in un villaggio a nord-ovest di Siroki Brijeg, un ufficiale partigiano ordinò di interrompere la messa e in seguito i suoi compagni prelevarono ed uccisero due religiosi ed un fratello laico. Il 1945 è stato l’anno più buio: ben 104 gli ecclesiastici uccisi.
È convinzione di Vuksic, dopo studi approfonditi, che l’uccisione di tanti uomini di chiesa «non è stata conseguenza di circostanze casuali». «Questo doveva essere un piano ben studiato e preparato degli ideologi e dai capi del nuovo regime di Tito - asserisce - ; non si potrebbe altrimenti spiegare il fatto che dall’inizio della guerra fino al 1944 furono ammazzati 40 sacerdoti e religiosi e dopo la guerra altri 120. L’altra dimostrazione sta nel fatto che mai nessuno ha dovuto rispondere per la morte di alcun ecclesiastico, anche se il maggior numero di loro morì in maniera brutale dopo la guerra e senza alcun processo». Per Bernardeta Banja, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Jula Uvansevic, Berchmana Leidenix, le cinque suore che i cetnici hanno portato via da Pale ed ucciso nel 1941 è stato avviato il processo di beatificazione.
«Avvenire» del 4 marzo 2008

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