04 agosto 2008

Solzenicyn, un uomo contro il Gulag

Simbolo delle resistenza alla repressione sovietica
di Anna Zafesova

Erano in molti a sospettare che in realtà fosse immortale. Era sopravvissuto a tutto: la rivoluzione, la guerra, il Gulag, il cancro, il Kgb, l’esilio, tutte le cose peggiori che potevano capitare a un essere umano, in particolare a un russo, nell’ultimo secolo. Ma il suo non sembrava un destino comune, e certamente nei suoi lunghi anni di lotta personale al comunismo Aleksandr Isaevich Solzenicyn probabilmente avrebbe considerato improbabile morire come è morto ieri sera tardi: a Mosca, a casa sua, stroncato da un ictus a 89 anni.
Oggi toccherà agli onori di Stato, ai funerali solenni, alle condoglianze di leader politici e mostri sacri della letteratura. Ma l’uomo che è morto ieri a Mosca non era solo il Nobel per la letteratura, il più grande scrittore russo vivente, il padre del dissenso sovietico. Era il Novecento russo, dalla sua nascita nel 1918, a rivoluzione appena compiuta, a Krasnodar, figlio di contadini e di ufficiali imperiali, di quella vecchia Russia che veniva demolita proprio in quei giorni. Non c’è tragedia che non avesse vissuto sulla propria pelle: dal padre «nascosto» perché ufficiale dello zar, alla repressione di quella fede ortodossa nella quale era stato allevato dalla madre, all’incubo della guerra fatta da ufficiale di artiglieria, fino al Gulag - parola che proprio lui introdusse nel vocabolario di tutte le lingue - nel quale finì per aver criticato in una lettera Stalin, chiamandolo «baffone» e «capobanda». Otto anni di lager in base all’infame articolo 58 del codice penale, attività antisovietica, poi il confino «eterno» nelle steppe asiatische, dal quale è stato liberato da Krusciov, che nel 1962 da il suo consenso personale alla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovich.
Aleksandr Isaevich viveva la sua battaglia contro il comunismo come una faccenda personale, decine di suoi critici l’hanno accusato di narcisismo e megalomania, eppure la denuncia dell’Arcipelago Gulag fu un colpo mortale al sistema, sia quando uscì in Occidente - comportando per lo scrittore il Nobel nel 1970 e l’arresto e l’esilio forzato per «alto tradimento» nel 1974 - sia quando, nel 1990, venne pubblicato per la prima volta in Russia, ancora sovietica, e nei vagoni della metropolitana non c’era nessuno che non avesse in mano la rivista sulla quale usciva a puntate.
Ma la Russia nella quale tornò nel 1994, in un lunghissimo viaggio in treno su tutta la Transiberiana lo dimenticò. Era in piena ebolizione il capitalismo di marca eltsiniana, di caos e kalashnikov, di sogno americano e delusione postsovietica, e il grande vecchio non tardò a mostrare tutto il suo disgusto. La sua trasmissione tv in prima serata, dove lui predicava la morale, la paziente ricostruzione del Paese a cominciare dal suo cuore rurale, il recupero dei valori della comunità, venne chiusa, ufficialmente per mancanza di audience. I suoi saggi di denuncia e disperazione come La Russia al collasso non facevano più discutere né nella metropolitana, né nei salotti. La Russia era troppo impegnata a sopravvivere.
Quello degli ultimi anni di Solzenicyn è stato forse un ennesimo esilio, stavolta non voluto da nessuno e per questo ancora più doloroso. Nel 1998 rifiutò clamorosamente la medaglia di Sant’Andrea dalle mani di Boris Eltsin, dicendo che non voleva l’onorificenza più alta della nuova Russia da un potere che «aveva distrutto il Paese». Ma questo gesto di estrema sfida passò quasi inosservato. Non poteva più fare battaglie col potere perché lo ignorava. Non era più al centro del dibattito letterario, al massimo qualche vecchia scaramuccia ereditata dagli anni ’70, come il cattivissimo pamphlet di Vladimir Voinovich «Ritratto sullo sfondo del mito» che ridicolizzava il vate della letteratura russa come egocentrico, monarchico, autoritario, antisemita, e soprattutto convinto di avere una missione superiore. Ma soprattutto non aveva più lettori: per i liberali era troppo reazionario con le sue denunce di «degrado dell’Occidente», la predica della religione e il suo saggio controverso Duecento anni insieme sulla storia degli ebrei in Russia, per i nazionalisti troppo lucido e moderato, per tutti gli altri troppo complicato e antiquato, incaponito a scrivere e riscrivere la sua sterminata epopea sul 1917 La ruota rossa, un groviglio di dettagli storici minuzioni, in un Paese che non voleva più lezioni di storia.
Negli ultimi anni Solzenicyn lo si vedeva quasi. Un isolamento rotto, un anno fa, da Vladimir Putin, che andò personalmente dal grande vecchio, ormai in carrozzella, a consegnargli il Premio di Stato per la sceneggiatura del Primo cerchio. Solzenicyn era diventato una fiction, e probabilmente si era rassegnato a questa nuova Russia, se non altro perché aveva fatto entrare in casa quel giovane presidente che era stato ufficiale di quel Kgb che lo aveva perseguitato. Fu l’ultima volta che i russi lo videro vivo.


“La Stampa” del 4 agosto 2008

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