29 novembre 2008

L'enigma dei risvegli

Lo stato vegetativo studiato con nuove tecniche permette di riscontrare tracce di coscienza. Alla ricerca di nuove metodologie per stimolare funzioni celebrali minime
di Daniela Ovadia

Le persone in stato vegetativo possono svegliarsi dopo mesi, anni, oppure mai: difficile prevederlo. Oggi però, grazie alle tecniche di visualizzazione del cervello, si può capire con un certo anticipo se in quei corpi c’è ancora una coscienza intrappolata. E cercare di farla riemergere.
I segni di coscienza in un esperimento di Owen
Di lei sappiamo solo che nel 2006 aveva 23 anni ed era in stato vegetativo da qualche mese, dopo un incidente d’auto. Apparentemente, non aveva consapevolezza di ciò che accadeva attorno né rispondeva ad alcuno stimolo. Adrian Owen, dell’unità di scienze cognitive e del cervello all’Università di Cambridge, la infilò in una risonanza magnetica in grado di «leggere il pensiero» e le chiese, alternativamente, di immaginarsi mentre giocava a tennis o passeggiava per casa. I due pensieri sono rappresentati diversamente nel cervello, quindi è possibile sapere se il paziente sta eseguendo il compito oppure no. La ragazza, ritenuta incosciente, rispose, dimostrando che dentro quel corpo c’era ancora (forse, su questo punto le opinioni divergono) un pensiero consapevole. Il suo caso fu pubblicato su Science e lei entrò a far parte di quel piccolo numero di pazienti in stato di incoscienza su cui è stata fatta una diagnosi sbagliata.
Persistente o permanente?
La scienza non ha una risposta certaSecondo il ministero della Salute, in Italia sono circa 3 mila le persone in stato vegetativo persistente o permanente. Hanno superato la fase acuta del coma senza risvegliarsi e sono entrate in un limbo dall’esito incerto. In quattro casi su dieci la causa è vascolare (rottura di un vaso cerebrale o un coagulo); in due è traumatica (incidente stradale); per il resto sono da imputare intossicazioni (da farmaci, droghe, alcol) o alterazioni metaboliche (iperglicemie o ipoglicemie nei diabetici). Pazienti per i quali i medici non sanno bene che fare. E, soprattutto, non sanno fare una prognosi. C’è chi si sveglia dopo qualche mese, chi dopo qualche anno (pochissimi), chi mai. Ora, grazie allo sviluppo delle neuroscienze, c’è qualche speranza in più e, forse, la possibilità di capire in anticipo quali sono le loro possibilità di risvegliarsi.
La scoperta della "coscienza nascosta"
«Gli stati vegetativi, chiamati anche erroneamente comi vigili perché il paziente apre gli occhi e mantiene un ritmo di sonno e veglia, sono definiti come mancanza di coscienza, ossia privi della capacità di interagire con l’ambiente e rispondere agli stimoli» spiega Gabriella Bottini, dirigente del laboratorio di neuro psicologia cognitiva all’Ospedale Niguarda di Milano e docente di neuropsicologia alla facoltà di psicologia dell’Università di Pavia. «In alcuni casi, però, potrebbe non essere vero: vari neurologi, tra cui Owen, hanno pubblicato studi in cui dimostrano che pazienti apparentemente incoscienti capiscono ciò che accade intorno. Non solo, spesso quelli che mantengono una percezione dell’ambiente circostante più tardi si risvegliano. Nei loro confronti vale quindi la pena di concentrare gli sforzi di riabilitazione».
Le tecniche di neuroimmagine
Alla scoperta della coscienza nascosta si è arrivati grazie alle tecniche di neuroimmagine, che consentono di leggere il pensiero di chi non può comunicare con l’esterno. «Se un paziente non controlla i suoi movimenti e non può rispondere alle domande dell’esaminatore, è facile che venga giudicato incosciente» avverte Eraldo Paulesu, docente di neurofisiologia all’Università Milano Bicocca ed esperto di neuroimaging. Con il dipartimento di neuroradiologia del Niguarda diretto da Giuseppe Scialfa, e il laboratorio di Bottini, Paulesu sperimenta la risonanza magnetica funzionale per indagare il reale stato di coscienza di chi è in coma. «Vogliamo verificare, confrontando i livelli di attivazione delle aree cerebrali in persone sane e in coma, se è possibile comprendere cosa passa per la testa di questi ultimi».
Alla ricerca di segnali di coscienza
Alessandra L. è una studentessa di psicologia. Si è offerta, con altri, di entrare nella risonanza magnetica per lo stesso tipo di esperimento che Owen ha condotto sulla giovane in coma. Lo scopo, dare ai ricercatori un’immagine di come si attiva un cervello sano, come parametro di confronto. Quando il neurologo le ha chiesto di elencare mentalmente nomi di animali, la risonanza ha mostrato l’attivazione di determinate aree del cervello. Anche alcuni pazienti in coma «accendono» il cervello nello stesso modo: significa che, sebbene non possano parlare, hanno capito cosa si chiede e hanno eseguito il compito. «In altri casi non abbiamo visto alcuna attività, vuol dire che il paziente non percepisce ciò che proviene dall’esterno. Se però c’è qualche segnale positivo, allora investiamo tempo e risorse per un programma intenso di stimolazione, nella speranza di accelerare il risveglio» prosegue Paulesu. Che ciò basti a dire che la persona «c’è» dentro un corpo che non controlla più non è però evidente. Spiega Bottini: «L’attivazione delle aree cerebrali non basta a definire la coscienza, che presuppone un’interazione volontaria con l’ambiente. Alcuni affermano che pure questo compito può essere eseguito in automatico, tuttavia la presenza di una volontarietà nella risposta è un indizio importante».
Tra piena coascienza e incoscenza ci sono vari gradi
Il cervello, per esempio, non può impedirsi di riconoscere un volto noto, anche se questa è un’azione cognitiva complessa: esistono quindi attività elevate governate da meccanismi automatici. Sicuramente il confine tra l’essere completamente coscienti e il non esserlo non è netto, presuppone un gradiente; e questi studi possono dirci a quale livello di profondità sia arrivata la perdita di interazione con l’ambiente. «Nel paziente cronico, cioè in stato vegetativo da mesi o anni, lo scopo potrebbe essere identificare i rari casi in cui c’è un residuo di coscienza, o uno stato di coscienza normale chiuso in un corpo inanimato, il che è ancora più raro» dice Paulesu. «Più spesso il medico ha bisogno di capire cosa fare del paziente subacuto, dopo le prime settimane dall’incidente. Che cosa dire ai familiari, quale riabilitazione avviare, se trattare eventuali malattie che compaiono o se considerare ogni intervento come accanimento terapeutico».
Lo stato di minima coscienza
I malati che rispondono meglio ai compiti di attivazione cerebrale sono quelli che più facilmente si sveglieranno, quindi con prognosi migliore. Secondo Owen, una buona percentuale di pazienti negli istituti di riabilitazione con diagnosi di stato vegetativo è invece nello «stato di minima coscienza». E la distinzione non è accademica. «Lo stato vegetativo è spesso definito come un disordine della coscienza, ma è una definizione imperfetta» sostiene Owen. «Sul concetto di coscienza c’è discussione. In genere si ritiene che vi siano due componenti nella coscienza: lo stato di veglia (in inglese arousal) e la consapevolezza di ciò che accade intorno (awareness). Per convenzione, i pazienti in stato vegetativo hanno perso la seconda ma mantengono in parte la prima: aprono e chiudono gli occhi in relazione alla luce». I pazienti con stato minimo di coscienza mantengono intatto l’arousal ma potrebbero avere anche qualche attività cerebrale consapevole. Separare i due elementi può essere utile dal punto di vista accademico, lo è poco in senso pratico. Infatti per la maggior parte delle persone non c’è coscienza senza consapevolezza, ed è questa che si va a cercare con le neuroimmagini.
In futuro la tecnologia potrebbe "dare voce" alle attività celebrali
E se qualche malato dovesse trovarsi «chiuso in un scafandro» (secondo la definizione che diede della propria condizione il giornalista francese Jean-Dominique Bauby) in futuro potrebbe comunicare con l’esterno con apparecchiature che leggono gli schemi di attivazione cerebrale. Questo campo di ricerca è chiamato interfaccia cervello-computer e ha già dato risultati stupefacenti, come spiega Niels Bierbaumer, neurobiologo comportamentale all’Università di Tubinga, in Germania: «Con caschi che leggono l’attività elettrica del cervello possiamo istruire i pazienti a pensare a frasi o azioni che attivano il computer: selezionare le lettere su uno schermo fino a comporre frasi con cui comunicare. Tutto senza muovere neanche una palpebra».
Il cervello senza contatto esterno smette di volere per proteggere dalla disperazione
Certo, sono casi estremi, per i quali è comunque necessario dare pronte risposte: Bierbaumer ha capito che se passa troppo tempo fra la perdita della capacità di comunicare e la scoperta che il paziente è ancora cosciente, non è più possibile insegnargli a usare questi strumenti. Il cervello non riesce più a esprimere pensieri di volontà. «Non sappiamo perché accade, credo che la spiegazione sia questa: poiché per tanto tempo il malato ha desiderato che accadessero eventi mai realizzati, e non ha potuto chiedere agli altri di fare in modo che accadessero, il suo cervello, per proteggerlo dalla disperazione, smette di volere». I possibili sviluppi della neurochirurgiaIn futuro si potrà anche contare sulla neurochirurgia. Apparecchi simili ai pacemaker cardiaci già stimolano aree del cervello, per esempio nei pazienti con Parkinson. Così si limitano gli effetti della malattia sul movimento. C’è chi sta cercando di usare lo stesso principio per sollecitare le aree cerebrali responsabili della coscienza. Un progetto simile ha preso avvio a Pavia, tra Policlinico San Matteo, Fondazione Maugeri e Istituto Mondino: impiantare elettrodi nel talamo dei pazienti in stato di minima coscienza per vedere se la stimolazione di questa area indispensabile può facilitarne il risveglio.
Scienza ed etica
Tutto ciò ha risvolti etici. Basti pensare ai casi di Terry Schiavo e di Eluana Englaro per capire quanto vi sia in gioco. I neurologi, però, sono certi che invece che complicare il quadro i loro studi lo chiariranno. «Il problema degli stati vegetativi è proprio quello di comprendere per tempo quale sarà la prognosi così da evitare nuovi casi Englaro» sostiene Bierbaumer. «E anche per avere uno strumento di valutazione dei casi cronici, tale da fugare dubbi su ciò che è meglio fare per quel paziente». È d’accordo anche Owen: «Il problema etico è la proporzionalità delle cure, ovvero applicare a un malato terapie commisurate alla prognosi e alle previsioni che si possono fare sul suo stato neurologico futuro. La medicina può dotarsi di strumenti per la comprensione degli stati di coscienza, ma dobbiamo continuare a studiare cosa accade nel cervello di chi è incosciente».
«Panorama» del 4 dicembre 2008

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