18 dicembre 2008

Quante contorsioni dietro la parola eutanasia

Come ad «accanimento terapeutico»
Di Francesco D’Agostino
Siamo in grado di definire con rigore il significato del termine 'eutanasia'? Certamente sì: possiamo farlo, anzi dobbiamo farlo, perché proprio a causa di valori scorrettamente attribuiti a questa parola il dibattito sul 'caso Englaro', e più in generale sulla fine della vita umana, è andato assumendo negli ultimi mesi connotati molto ambigui, per non dire ingannevoli.
'Eutanasia' (etimologicamente 'buona morte') indica la morte procurata intenzionalmente e motivata dalla pietà per le terribili sofferenze fisiche di un malato: si tratta quindi di un vero e proprio omicidio, per quanto 'pietoso'. Ma la pietà, per quanto autentica, soggettivamente sincera e oggettivamente fondata, può giustificare un omicidio? La tradizione etica e giuridica ha sempre negato che una simile giustificazione sia possibile, pur senza mai minimizzare la tragicità delle situazioni eutanasiche. Da tempo è in atto un tentativo, molto esplicito, di riformulare il concetto di eutanasia. Con questo termine ci si vuole oggi riferire all’uccisione volontaria e diretta di una persona, su sua richiesta consapevole e autonoma. In questa accezione, l’eutanasia (che alcuni non scorrettamente qualificano anche come ' suicidio assistito') sarebbe giustificabile. L’insistenza su questa definizione circoscritta di eutanasia è ormai palesemente funzionale a negare che quello di Eluana Englaro sia un vero caso di eutanasia (si tratterebbe soltanto di una mera e doverosa desistenza da un accanimento terapeutico, giustificata, oltre tutto, dalla volontà pregressa della povera Eluana). Così come per il termine 'eutanasia', anche l’espressione 'accanimento terapeutico' viene ormai a subire una contorsione semantica, quella che ha indotto la Cassazione ad autorizzare il signor Englaro a far cessare l’alimentazione e l’idratazione della figlia e a procurarne così inevitabilmente la morte, senza però autorizzarlo a sopprimerla direttamente (ad esempio attraverso un’iniezione letale). Si vogliono così tenere distinte due pratiche, che sono in realtà la stessa cosa e cioè la morte procurata in modo diretto (eutanasia attiva) e la morte procurata in modo indiretto (eutanasia passiva).
Queste forzature lessicali sono devastanti e paradossali. Applicandole rigorosamente dovremmo negare carattere eutanasico ad uccisioni autenticamente pietose, ma non sollecitate dalla vittima e qualificare invece come eutanasica l’uccisione freddamente burocratica di chi, anche in perfetta salute, ne facesse richiesta. Né meno grave è l’alterazione del concetto di accanimento terapeutico: da atto medico futile, inutilmente invasivo, sproporzionato, incapace di arrecare alcun reale beneficio al malato, si viene ad intendere arbitrariamente per accanimento terapeutico qualunque pratica medica che il paziente rifiuti coscientemente, anche per motivazioni irrazionali. Perfino i gesti umani simbolicamente più rilevanti, l’alimentare e il dissetare, divengono in tal modo forme di accanimento.
Se abbiamo l’onestà intellettuale di chiamare le cose con il loro vero nome, non possiamo non qualificare l’ormai prossima morte di Eluana se non come un autentico omicidio eutanasico. Essa, infatti, non morirà per la patologia che l’ha colpita, ma a seguito della sospensione del sostegno vitale che l’ha mantenuta in vita per tanti anni, un sostegno che non è qualificabile né come atto medico, né come una forma di accanimento terapeutico. Ma, si dice, facendola morire, si rispetterà la volontà di Eluana. Forse (!) questo è vero; ma è anche vero che l’aiuto al suicidio, sia pure intenzionalmente e liberamente richiesto, nel nostro codice è sempre stato e resta un delitto. Eluana sarà uccisa e il suo caso si inserirà nel tristissimo e lunghissimo novero degli omicidi pietosi. Spero sinceramente che in tutti coloro che plaudono alla sentenza della Cassazione non ci sia, invece della pietà, l’intenzione di progredire verso la legittimazione di uccisioni motivate non dalla compassione, ma dall’esigenza funzionale di liberare la società dal peso economico e psicologico dei minorati mentali, dei portatori di handicap, dei malati in stato vegetativo, di tutte le persone la cui vita si deciderà di ritenere 'non degna' di essere vissuta, acquisendo il loro consenso (!) o più semplicemente presumendolo. È consapevole l’opinione pubblica che molti bioeticisti sono già saldamente attestati su queste posizioni?
«Avvenire» del 23 novembre 2008

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