31 dicembre 2009

E per Capodanno diamo a Cesare quel che è di Cesare

di Ezio Savino
Tour operator, gestori di ristoranti, animatori di discoteche che grazie alla notte del veglione di Capodanno si ritrovano con le tasche più gonfie, sappiano chi ringraziare: Giulio Cesare. Mettere in riga le legioni non gli bastava. Così, con un editto dei suoi, fece ordine nel guazzabuglio del calendario romano. Prima di lui, i mesi «romulei», frutto di una prima sgrezzata inferta al computo dell’anno dal fondatore Romolo, integrati dai ritocchi di Numa Pompilio, 700 a.C., comportavano lo scomodo fatto che il periodo civile e quello astronomico viaggiassero a velocità sfalsate. Risultato: i consoli entravano in carica il primo di gennaio, ma la comunità festeggiava l’inizio dell’anno nuovo a martius, mese consacrato al dio della guerra. Per l’occasione, ci si scambiava le strenae, i ramoscelli di alloro primaverile, colti nel bosco votivo di Strenia, antica dea della fortuna e della felicità. Ed ecco l’origine delle nostre strenne.
Ma torniamo a Cesare. Despota illuminato, convocò gli scienziati dell’astronomia. Sosìgene era il più titolato. Teneva cattedra ad Alessandria d’Egitto, nella Biblioteca e, da greco dotto, conosceva ogni trucco per rimettere in pari le agende personali con l’effettivo volgersi delle stagioni. Per esempio, ogni quattro anni, intercalare un giorno «doppio», bis sexta dies, verso la fine di febbraio, e inventare così il bisestile. La riforma più drastica fu il Capodanno, bloccato invariabilmente sul primo di gennaio. Si cominciò con l’anno 45 a.C. Per far quadrare i conti, Cesare dovette allungare il 46 a.C. di quasi settanta giorni, tra novembre e dicembre. Fu il più lungo della storia, noto come l’«anno della confusione», con usurai e affaristi che non sapevano più come calcolare i tassi. Ma poi tutto tornava in ordine, sotto l’impero del dio Giano, dal cui nome proveniva januarius, il nostro gennaio. Dio del transito, Giano era immaginato bifrons, con un volto maturo e barbuto rivolto al passato, e uno giovanile e augurale che guardava negli occhi il futuro. Il suo simbolo era la porta.
Alla scoccare della mezzanotte, a San Silvestro, un pensierino al vecchio Giano bisognerebbe farlo, perché stanno tra le sue mani le chiavi dell’inizio, dell’ingresso in ogni impresa e in ogni tempo. I Romani, popolo in cui religione e superstizione si mischiavano volentieri, lo veneravano come «padre del mattino», portinaio degli dei, ai quali spalancava i portali dell’Olimpo a ogni sorgere di sole. Era logico lisciarlo un po’ a Capodanno, alla Kalendae Januariae. Il sacerdote gli preparava una focaccia di farina, uova, olio e formaggio grattugiato: a contorno, farro e sale. Secondo il pratico principio del do ut des, «ti do perché tu mi dia», il buon Giano avrebbe sentito il dovere di disobbligarsi, con annate ricche di messi e guadagni. I regali di rito tra amici e conoscenti, nel Capodanno romano, erano miele, datteri e fichi: roba dolce, per un dolce inizio. Proibite le parole sgradevoli. Bene accette le espressioni di amicizia e fortuna, antenate dei nostri auguri. Si continuava a regalare foglie di alloro, come ai vecchi tempi: ai vip, però, la confezione speciale, con il rametto in un bagno d’oro.
Il vischio entrava in scena più a nord, nelle terre celtiche, tra Irlanda e Gallia. Lassù i Druidi, a quanto ci racconta Plinio il Vecchio, coglievano il vischio di rovere, il più raro, in una sagra che si svolgeva il sesto giorno di Luna, il Capodanno celtico. Una data speciale, all’equinozio di ottobre, quando la metà chiara ed estiva dell’anno sfumava in quella buia e invernale. Scattava la festa di Samain, tra riunioni tribali, banchetti di più giorni e possenti bevute di idromele. Si spalancava anche la porta verso Sid, la landa degli Immortali e dei grandi trapassati. All’inizio di novembre si staccava il biglietto per il viaggio nell’aldilà, nel mito e nella magia, un trip che il cristianesimo avrebbe solennizzato in Ognissanti e la globalizzazione trasformato nel mercatino mascherato di Halloween.
Ma anche per il potente Cesare, mettere ordine tra i campanili d’Italia, almeno in fatto di Capodanno, restò un pio desiderio. Ciascuno continuò a modo suo. Se Venezia festeggiava l’anno nuovo il primo di marzo, avvio di primavera, Firenze rispondeva con il suo Capodanno del 25 marzo, giorno dell’Incarnazione di Nostro Signore. In meridione, nelle terre a influenza greca, si seguiva lo stile bizantino: anno nuovo al primo settembre. La Roma papalina faceva coincidere il Capodanno con il Natale, uso che fu anche milanese fino alla fine del 1700. Ci voleva la modernità dell’industria e delle ferie programmate, per metterci tutti, finalmente, d’accordo.
«Il Giornale» del 31 dicembre 2009

Federico II e il demone della politica

Da Anticristo a benefattore dell’umanità e, addirittura, lontano padre della nazione italiana. Una biografia del grande sovrano svevo fa giustizia di molti errori ed esagerazioni storiografiche
di Eugenio Di Rienzo
L’arma della criminalizzazione dell’avversario politico, come si sa, è vecchia come il mondo. E se in questi ultimi mesi abbiamo visto paragonare un presidente del Consiglio liberamente eletto dalla maggioranza degli italiani a Hitler, Mussolini e al golpista argentino Videla, molto peggio era accaduto a Federico II di Svevia che alla metà del XIII secolo cercò di ripristinare la grandezza del Sacro Romano Impero della Nazione germanica fondato nel 962 da Ottone I di Sassonia. Se i ghibellini videro in lui lo strumento del giusto castigo divino che avrebbe punito lo strapotere del clero, il suo grande rivale, il pontefice Gregorio IX, dopo averlo scomunicato nel settembre del 1227, lo bollò del titolo di Anticristo. Da quel momento, la propaganda guelfa dipinse l’Imperatore come un convertito all’islam, un eretico negatore di tutte le religioni, diffondendo una leggenda nera che Dante avrebbe ripreso nella sua Commedia.
Salimbene de Adam avrebbe arricchito questa saga oscura di nuovi tenebrosi particolari nel libello, poi andato perduto, Le dodici scelleratezze di Federico Imperatore. Anche il monaco cistercense Gioacchino da Fiore fece la sua parte stilando una profezia che avrebbe dato luogo al mito secondo cui Federico II sarebbe ritornato a vivere, dopo mille anni dalla sua morte, per tornare a flagellare la cristianità nelle vesti di nuovo Nerone. Infine, nel primo decennio del Settecento, un erudito olandese rivelava che l’Imperatore tedesco doveva considerarsi come uno dei probabili autori del Trattato dei tre impostori, dove Mosè, Cristo e Maometto erano ritratti come avventurieri che avevano strumentalizzato la credulità dei loro adepti per soddisfare la propria brama di potere.
Proprio a partire dal XVII secolo, la leggenda nera fredericiana si tramutava tuttavia in leggenda aurea. Un pensatore che avrebbe anticipato molti temi dell’Illuminismo come Pietro Giannone esaltava nel principe svevo il creatore di un modello statale capace di aver ragione non solo delle forze disgregatrici del feudalesimo, ma soprattutto dell’ingerenza ecclesiastica nella vita pubblica. Dopo il 1870, numerosi storici tedeschi fecero di Federico il primo fondatore dello Stato assoluto superiore a ogni interesse particolare e idoneo a dare impulso alla volontà di potenza germanica. Nel 1933 anche il grande storico Ernest Kantorovicz scriveva al ministro dell’Educazione del Terzo Reich che «i miei scritti sull’Imperatore Federico II attestano pienamente il mio favore per una Germania nuovamente orientata in senso nazionale».
Molto diversa da tutte queste letture ideologiche è la monumentale biografia di Wolfang Stürner (Federico II e l’apogeo dell’Impero, Salerno Editore, pagg. 1127, euro 84), che dichiara di aver voluto «proporre una ponderata interpretazione dell’Imperatore che ne evitasse ad un tempo l’eccessiva esaltazione come pure la sottovalutazione». Questo contributo sarà utile al pubblico italiano per evitare di cadere in un altro diffuso fraintendimento della verità storica. Proprio nel nostro Paese, infatti, si propagò alla fine degli anni Trenta l’ipotesi che la creazione del Regno di Sicilia (comprensivo in realtà di gran parte del Meridione), da parte di Federico II, sarebbe stato il mezzo per sanare la frattura tra le «due Italie» che avevano progressivamente divaricato il loro percorso a partire dal crollo dell’Impero romano.
Il Nord, sottoposto all’influenza della cultura germanico-romana, e il Sud, soggetto all’egemonia di quella bizantino-islamica, avrebbero potuto ricomporre la loro antica ossatura unitaria, proprio perché il nuovo Regno sarebbe stato unito nella persona di Federico all’Impero germanico che dominava almeno nominalmente il comparto settentrionale della Penisola. Da questa saldatura, avrebbe scritto Gabriele Pepe nel 1938, sarebbe stato il Mezzogiorno a godere dei maggiori vantaggi. La simpatia dell’Imperatore svevo per la civiltà araba e la sua amicizia personale con il nipote del grande Saladino avrebbero fatto dei suoi porti un ponte teso fra cristianità e mediterraneo islamico. Inoltre la sua energica azione di governo sarebbe stata in grado di reprimere gli abusi del sistema feudale. Soltanto la morte di Federico, avvenuta nel dicembre 1250, concludeva Pepe, avrebbe interrotto questo grande disegno.
Il volume di Stürner ha il grande merito di demolire questa congettura, ricordandoci come i poteri effettivi di colui che fu definito dai suoi contemporanei «lo stupore del mondo», fossero in realtà del tutto inadatti a raggiungere questo obiettivo. In linea di principio il diritto romano codificato dal grande Giustiniano e l’unzione divina che aveva accompagnato la sua incoronazione sancivano pienamente la sua autorità. Tuttavia nella realtà Federico mancava di quel monopolio della decisione politica che caratterizzerà l’età moderna, ma che era del tutto assente nel mondo medioevale. Le prerogative dell’Imperatore facevano tutt’uno infatti con quelle dei principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, che trovarono nel figlio Enrico, nominato nel 1220 re di Germania, un più «liberale» difensore dei loro privilegi. Lo scontro politico su questa cruciale questione portò alla fine a una vera e propria guerra del padre contro il suo diretto successore che, sconfitto nel 1235, venne privato di ogni diritto al trono.
Ma quei privilegi che Enrico voleva tutelare e ampliare e che Federico intendeva invece decisamente ridimensionare, non avrebbero mai potuto essere annientati, a meno di non voler distruggere con essi i titoli della legittima sovranità imperiale. Più risoluta fu invece la lotta dell’Imperatore per abbattere l’autonomia dei centri urbani del meridione italiano anche a costo di usare la mano forte come accade nella sanguinosa repressione della rivolta di Messina del 1234. In quell’opera il sovrano svevo ebbe sicuramente successo, anche perché non incontrò nessun tipo di resistenza paragonabile a quella strenua e vittoriosa che i Comuni lombardi opposero a Legnano al suo avo Federico Barbarossa nel maggio del 1176.
«Il Giornale» del 30 dicembre 2009

Islam e Occidente, alla fine aveva ragione Oriana la "pazza"

Quando disse "attenti ai musulmani" la attaccarono e la irrisero. Oggi, rileggendo le sue rabbiose parole, è impossibile darle torto. Rabbia Parlò con chiarezza e coraggio, ma le élite la snobbarono. Orgoglio La sua non fu una "crociata" animata dall’odio ma un atto d’amore verso la civiltà occidentale
s. i. a.
È destino di tutti i profeti rimanere inascoltati. Dopo l’11 settembre 2001 è accaduto anche a Oriana Fallaci, «Cassandra» che parlava con passione, con rabbia e con molta ragione, e che pur sapendo di parlare al vento, lo faceva con tutta se stessa. Lo faceva in modo diretto, chiaro, coraggioso. Troppo. E infatti nessuno - o quasi - l’ha seguita. Nessuno delle élite, si intende, perché la «gente» invece ha intuito immediatamente che Oriana aveva parecchie ragioni dalla sua parte, anche se scomode, anche se scorrette. Gli intellettuali, i politici, i maître à penser per lo più l’hanno bollata come «pazza», invasata, xenofoba, razzista: hanno detto che istigava all’odio, che era una fascista, una guerrafondaia. L’hanno attaccata, incriminata per vilipendio all’islam, hanno fatto di lei un facile bersaglio politico e un oggetto di pessima satira. Quando diceva: state attenti, questa «civiltà» è troppo diversa da noi, non esiste un islam moderato, l’Europa e l’Occidente sono troppo arrendevoli, il terrorismo non finirà, anzi crescerà - quando diceva tutto questo, chi avrebbe dovuto non l’ha presa sul serio. I risultati? A quasi dieci anni da quell’11 settembre tutto è come prima, o peggio. Eppure bastava ascoltare le sue parole. Queste, ad esempio. Tutte tratte dai suoi libri, pubblicati da Rizzoli.

di Oriana Fallaci

Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell’Apocalisse dell’evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l’Orgoglio. Continuai con La Forza della Ragione. Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse. I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l’accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l’accusa di vilipendio all’Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all’Occidente, Culto della- Morte, Suicidio-dell’Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.

IL NEMICO È IN CASA
Continua la fandonia dell’Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell’integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un’esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani. Bé, ilnemico non è affatto un’esigua minoranza. E ce l’abbiamo in casa[...] Ed è un nemico che a colpo d’occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all’occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente- inserito-nel-nostro sistema- sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l’automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità [...] Un nemico che in nome dell’umanitarismo e dell’asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità » (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l’Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi» [...] Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all’imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l’Eurabia sicché per andare daLondra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l’esplosivo che vuole: nessunolo ferma, nessuno lo tocca.

IL CROCEFISSO SPARIRÀ
Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l’alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Chebandisce il maiale dalle mense delle scuole,delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l’oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s’imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi- Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr:nonsi tratta d’un errore tipografico,voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

DIALOGO TRA CIVILTÀ
Apriti cielo se chiedi qual è l’altra civiltà, cosa c’è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significatodella parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell’Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell’Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall’Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c’è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L’Islam è il Corano, cari miei. Comunquee dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

UNA STRAGE IN ITALIA?
La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l’ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all’Africa cioè ai paesi cheforniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. [...] Molti italiani nonci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

MULTICULTURALISMO, CHE PANZANA
L’Eurabia hacostruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s’è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l’Europa vive nella paurae che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l’Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l’ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del Politically Correct, hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

CONQUISTA DEMOGRAFICA
Nell’Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia- blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell’ultimo mezzo secolo i mussulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall’Onu, che ai mussulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all’anno (i cristiani, solo 1’1 e 40 per cento). [...] Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli Anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell’Unione Europea i neonati mussulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

ADDIO EUROPA, C’È L’EURABIA
L’Europa non c’è più. C’è l’Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L’Unione Europea è solo il club finanziario che dico io.Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l’antiamericanismo, l’odio per l’Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuovegenerazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell’anima si beccano il cancro del corpo.

INTEGRAZIONE IMPOSSIBILE
La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall’Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l’impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c’è un bambino mussulmano. Al bambino mussulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamania scuola e...». Apriti cielo. L’indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell’immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso,che nelle mense studentesche s’è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L’ISLAM MODERATO NON ESISTE
Il declino dell’intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d’essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l’Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l’affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l’arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell’Avvenir è contro Ragione.

LA SINISTRA BUONISTA
Per tenersi a galla, oggi bisogna stare a Sinistra. E non solo perché merita economicamente e politicamente, perché ti assicura l’impiego e ti garantisce il potere, ma perché è di moda. Sissignori, è una moda ormai stare a Sinistra. Una moda come portare le gonne lunghe o le gonne corte, andare a Cortina oppure no. È un conformismo, una convenzione. Soprattutto per i banchieri e i magnati e i presunti intellettuali che frequentano posti come il Tepidarium. Per i giornalisti e le giornaliste e i direttori di giornali che facendo i filoislamici e gli antiamericani intascanostipendi da capogiro. Per gli stilisti che vendendo cenci da cinquantamila euro al pezzo si comprano storici palazzi e piani interi da Bloomingdale’s. Per la Confindustria che fa lingua in bocca con laCgil, insomma per quella che in America si chiama the Caviar Left. La Sinistra al Caviale. Mah!Io non ci capisco piùnulla. Quando ero bambina, i comunisti volevano che i ricchi si vergognassero d’essere ricchi. Sostenevano che la proprietà è un furto. Ora, se non sei ricco, ti sputano addosso. E spesso sono più ricchi dei ricchi di allora. Adorano illusso e dicono di volersi battere per il superfluo.

ECCO COS’È IL CORANO
Perché non si può purgare l’impurgabile, censurare l’incensurabile, correggere l’incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell’uovo, paragonato l’edizione della Rizzoli con quella dell’Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l’odio per l’Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli. Così l’incompatibilità fra la teocrazia e lo Stato di Diritto. Inutile arrampicarsi sugli specchi: il Corano è ciò che è. E i fondamentalisti, gli integralisti, non sono il suo volto degenere. Sono il suo vero volto, il suo volto fedele. Ergo, un buon mussulmano non può esser moderato. Non può accettare lo Stato di Diritto, la libertà, la democrazia, la nostra Costituzione, le nostre leggi. L’Islam moderato non esiste.

BERLUSCONI SARÀ TRADITO
Berlusconi qualcosa di buono, infondo, lo ha fatto. Non ha imitato il cinico populismo di Zapatero. In politica estera ha dimostrato d’aver più coraggio di quanto credessi quando lo accusai di non aver palle e gli buttai in faccia l’esempio di mia madre che fa a pezzi l’uomo dal quale s’è sentita dire Signora, domattina-alle-6-fucileremo-suo-marito. Ha anche frenato un po’ le orde dell’avanzata islamica, ripeto. E dulcis in fundo: la libertà ce l’ha mantenuta. Però so che i Maramaldi in grado d’ucciderlo non sono i suoi sgangherati avversari. Sono i suoi insinceri alleati. Gli omìni che in piazza Montecitorio vanno a spasso con l’opposizione. Che per un pugno di voti si sono montati la testa e lo pugnalano coi ricatti. Che per non tradirlo esigono nuove poltrone ministeriali. Lo uccideranno loro, sì.

L’IRAQ DOPO SADDAM
Il prezzo per toglierlo di mezzo è stato troppo alto. Il terrorismo islamico s’è moltiplicato, i morti hanno partorito altri morti, continuano a partorire morti, partoriranno sempre più morti. E prima o poi ci ritroveremo con una Repubblica Islamica dell’Iraq. Ossia con un paese nel quale i mullah e gli imam impongono i burkah, lapidano le donne che vanno dal parrucchiere, impiccano la gente allo stadio. Quindi tanto valeva tenersi Saddam Hussein. Io non mi stancherò mai di ripeterlo: la democrazia non si può regalare come una stecca di cioccolata. La democrazia bisogna conquistarsela. Per conquistarsela bisogna volerla. Per volerla bisogna sapere cos’è. Gli iracheni non lo sanno. Ancor meno la capiscono. E di conseguenza non la vogliono. Nontanto perché sono diseducati da ventiquattr’anni di dittatura feroce quanto perché sono mussulmani: assimilati dalla teocrazia e incapaci di scegliere il proprio destino.

OCCIDENTE RASSEGNATO
Chi si indigna, oggi, per il marocchino che infrangendo il Codice Penale tiene due o tre mogli e vorrebbe mettere il burkah anche a me? Chi si arrabbia,oggi, con l’albanese che gestisce la prostituzione e che ubriaco investe i passanti, li uccide? Chi si oppone, oggi, al sudanese che fa la pipì sui monumenti e spaccia la droga sui sagrati delle chiese? Chi protesta, oggi, contro il somalo che per salvare il barbaro principio dell’infibulazione inventa e diffonde attraverso un pubblico ospedale la farsa della cosiddetta soft-infibulation? Chi si scandalizza, oggi, per l’algerino che aggredisce o ricatta il carabiniere in procinto di arrestarlo? «Guarda-che se- ti-avvicini-mi-taglio-il-cazzo- con-questa-lametta-poi-di co-che-me-l'hai-tagliato-tu-e in- galera-ci-finisci-tu» dicono, quasi sempre, in quella circostanza. Chi si sorprende, oggi, per gli articoli strappalacrime dei cosiddetti giornali indipendenti o per le oltraggiose insensatezze di quelli che come l’Unità darebbero il permesso di soggiorno anche a Bin Laden? La gente è rassegnata, ormai. Abituata, addormentata. Subisce queste cose passivamente, le accetta come l’alternarsi delle stagioni.

«Il Giornale» del 31 dicembre 2009

La minorità storica della donna ha un’eccezione: il cristianesimo

Chiesa, singolare femminile
di Francesco Agnoli
La condizione della donna, scriveva Simone de Beauvoir, è stata molto immiserita dall’avvento del cristianesimo. Quest’idea, diffusa con insistenza da una parte del mondo femminista, dalla stampa, dalle rivistine in vista sul tavolo del parrucchiere, da molti testi scolastici, ha ormai radici piuttosto profonde ed è quindi un luogo comune accettato spesso anche all’interno del mondo cattolico, spesso ignaro della propria storia. Su Wikipedia, l’enciclopedia in Internet consultata da milioni di persone, alla storia delle donne sono dedicate poche righe. Nulla sulla condizione femminile, umiliante a dire poco, nell’antica Roma, o in Grecia, o sotto l’islam, o nell’Induismo, sia in passato sia oggi.
L’unica frecciata velenosa è dedicata al cristianesimo, con accuse invereconde, neppure supportate dalla citazione di fonti. Si legge: “Una delle più grandi (sic) discriminazioni nei confronti della donna è operata dalla chiesa cattolica… Questo atteggiamento è confermato dai vari concili ecclesiastici: a Macon, a Laodicea, ad Aquisgrana, a Trento si discute ‘se la donna appartenga al genere umano’ e ‘se la donna abbia un’anima!’”. Così il lettore medio impara che per secoli, sino al Concilio di Trento, sino al XVI secolo, la chiesa avrebbe messo in dubbio l’anima delle donne, quindi la loro dignità, e non di rado, purtroppo, finisce per crederci. Perché più grossolane sono, le menzogne, più trovano proseliti e ottengono fortuna secolare.
Lo storico francese Jean Pierre Moisset, nella sua “Storia del cattolicesimo” (Lindau), ricorda come questa calunnia così ridicola fu proposta per la prima volta dal calvinista Pierre Bayle, nel suo “Dizionario storico e critico, nel XVII secolo”. Essa, nota il Moisset, fu avidamente ripresa, ampliata e propagandata come vera da molti polemisti anticattolici, nonostante la sua patente assurdità. Ma come erano andati i fatti? Al II concilio di Macon, nel 585 d.C., un vescovo aveva detto ai suoi confratelli che la “donna non poteva essere chiamata uomo” (“dicebat mulierem hominem non posse vocari”). Il problema, spiega Moisset, era di ordine linguistico: “Era il caso di applicare alla donna il termine generico homo, che designa l’essere umano, o bisognava chiamarla femina o mulier? Dal momento che l’evoluzione del latino parlato tendeva ad assimilare homo (essere umano) a vir (essere umano di sesso maschile), l’oratore chiedeva che si prendesse atto del nuovo uso, riservando homo all’essere umano di sesso maschile. Gli altri vescovi non erano di quell’avviso e hanno risposto che bisognava cercare di esprimersi, oralmente e soprattutto per iscritto, in buon latino, di conseguenza era giusto continuare a chiamare homo la donna”.
Tutto qui. Eppure la calunnia permane tutt’oggi. Facilitata senza dubbio, come si diceva, dalla terribile ignoranza storica propalata nelle nostre scuole superiori, in cui spesso vengono adottati manuali in cui mancano del tutto i riferimenti alle grandi donne del cristianesimo: alle varie martiri dei primi secoli, venerate da tutto il popolo cristiano con immensa devozione (Agnese, Tecla, Cecilia, Margherita, Blandina…); alle donne colte dei monasteri; alle donne nobili o meno dedite alle opere di carità (Pulcheria, Eudoxia, Galla Placidia, Olimpia, Melania…), così pure come alle donne che hanno cambiato la storia dei loro regni come le principesse Clotilde, Teodolinda, Berta Di Kent, Olga di Kiev… Omissioni su omissioni, che derivano sia dalla misconoscenza di una grande storia, quella del cristianesimo, a cui si preferisce fare ogni volta un processo, sia, dalla frequente incapacità della mentalità contemporanea di ritenere che l’ambito di realizzazione della donna potesse essere, allora come oggi, diverso dall’ambito di realizzazione dell’uomo.
Per questo l’epopea delle donne che fondarono i primi ospedali, da Elena a Fabiola, così come le vicende delle donne che hanno creato, in ogni secolo, ordini religiosi dediti all’educazione dei fanciulli, dei poveri, degli orfani, è anch’essa ignorata, forse perché le si considera legate a un ideale di donna ormai sorpassato. Eppure, sia la condizione della donna moderna, codificata ogni giorno sui giornali, sulle tv, e non solo, sia lo studio della storia, dovrebbero favorire qualche riflessione più profonda sull’effettivo ruolo che il cristianesimo ha avuto nel mutamento della condizione femminile.
Se infatti studiamo la storia prima dell’avvento di Cristo, troviamo che la donna è assolutamente secondaria e marginale nel mondo greco, in quanto conduce vita ritiratissima, le è quasi vietato uscire di casa, ed è giuridicamente incapace; si trova sotto perpetua tutela dell’uomo, padre e marito, nel mondo romano; è ostaggio della forza maschile presso i popoli germanici; passibile di ripudio e giuridicamente inferiore nel mondo ebraico; vittima di infiniti abusi e violenze, compreso l’infanticidio, in Cina e India; forma inferiore di reincarnazione nell’induismo tradizionale; sottoposta alla poligamia, umiliante affermazione della sua inferiorità, e al ripudio unilaterale, nel mondo islamico e animista; vittima presso diverse culture di una patente inferiorità giuridica e di vere e proprie mutilazioni fisiche; sottoposta al ripudio unilaterale del maschio, in tutte le culture antiche.
Nella Roma pagana, ad esempio, “la donna, senza esagerazione né paradosso, non era soggetto di diritto… La condizione personale, i rapporti della donna con i suoi genitori o con suo marito sono di competenza della domus di cui il padre, il suocero o il marito sono gli onnipotenti capi… la donna è unicamente un oggetto” (Régine Pernoud, “La donna al tempo delle cattedrali”, Rizzoli, p. 19). Similmente, per stare in Europa, nelle culture germaniche al tempo delle invasioni barbariche, alla donna, che non è “in grado di portare armi”, “viene riconosciuta una inferiorità cronica nei confronti dell’uomo. Nessuna donna può vivere nel regno longobardo da libera, senza essere cioè soggetta al mundio, che sia del marito o del padre o dei fratelli, o in caso estremo del re, né può vendere o donare beni senza il consenso del mundualdo (Rotari, cap.204)” (mundio è istituto di diritto signorile germanico, che si esercita attraverso lo scambio tra protezione maschile e sottomissione femminile). Eppure la “donna è temuta per la sua capacità di combattere con armi subdole (la malizia, il veleno) contro l’uomo… la donna è nelle leggi longobarde considerata più come oggetto di diritto che non come soggetto dello stesso: l’offesa recata a una donna viene riparata in quanto recata ad un possesso dell’uomo” (“Storia d’Italia e d’Europa”, Jaka Book, Milano, 1978, vol. I, p. 161).
Con l’avvento del cristianesimo cambia tutto. Donna è la Vergine Maria, cioè la madre di Dio stesso; numerosissime sono le donne con cui Gesù parla, scandalizzando anche i suoi discepoli: l’emorroissa, la samaritana, la prostituta condannata per legge alla lapidazione, tutte incontrano lo sguardo affettuoso e l’attenzione di Gesù. I primi secoli del cristianesimo sono segnati dall’incredibile numero di donne che si convertono alla nuova fede e che spingono anche i loro mariti ad abbracciarla. San Paolo menziona nomi di donne che in Roma “faticavano nel Signore”. Non per nulla i polemisti anticristiani di quest’epoca, da Celso a Porfirio, deridono nei loro libelli la nuova religione, cui aderiscono non tanto uomini colti e filosofi, quanto “donnette”, “donne sciocche”, “schiavi” e “ragazzini”. Il fatto è che il Vangelo proclama apertamente l’uguale dignità di tutti i figli di Dio, mentre san Paolo sconvolge tutto il pensiero antico, proclamando che “in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero” (Gal 3, 28).
Quali sono le conseguenze, storicamente parlando, di questa nuova concezione? Basterebbe indicarne tre. La prima: il cristianesimo è l’unica religione in cui il rito di iniziazione e quindi di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è uguale per uomini e donne. La seconda: il cristianesimo, condannando l’esposizione dei bambini e l’infanticidio, limita drasticamente una pratica presente in tutto il mondo, dall’antica Roma, alla Cina e all’India di oggi: l’infanticidio, molto più spesso quello di bambine. Il terzo: il matrimonio cristiano è imprescindibilmente monogamico e indissolubile. Esso quindi sottintende e implica anzitutto la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo o nel suo harem! Non è lecito, in virtù della sua maggior forza, ripudiare la moglie, come fosse un oggetto, né sostituirla con delle schiave! E neppure, ovviamente, il contrario. Tutta la storia della chiesa, per quanto riguarda la morale coniugale, tende a salvare proprio questa pari dignità: vietando ovviamente ogni antico diritto di vita o di morte dell’uomo sulla donna; tutelando il più possibile il libero consenso degli sposi, già partire dai primi secoli quando Agostino ricorda che “l’intervento dei genitori non è di diritto divino”, cioè non è necessario, come per gli antichi, e aggiunge umoristicamente che “altrimenti Adamo avrebbe dovuto essere presentato a Eva da suo Padre”; innalzando l’età del matrimonio della donna (che per i romani erano sovente i dodici anni) e quindi la sua responsabilità e libertà; ostacolando il più possibile la possibilità dei genitori di violare la libertà dei figli, e in particolare ai padri di decidere il marito della figlia; combattendo l’abitudine dei matrimoni combinati, soprattutto tra i nobili; contrastando in ogni modo i matrimoni forzati, in cui solitamente era la donna a fungere da vittima; impedendo, in questo caso a tutela della salute dei figli, i matrimoni tra consanguinei…
Ha scritto il celebre storico del medioevo Jacques Le Goff: “Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì” (Avvenire, 21/1/2007).
Per capire quanto il matrimonio cristiano muti la condizione femminile basti considerare l’atteggiamento nuovo proposto dalla chiesa dinanzi alla sterilità della donna, all’infedeltà del maschio o alla vedovanza. Tradizionalmente, nel primo caso, in tutte le culture antiche, l’infertilità di coppia veniva addossata alla moglie e giustificava il ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio desiderato. Si pensi ad esempio che le donne romane dovevano mettere al mondo almeno tre figli “per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere da ogni tipo di tutela sui beni” (“Storia delle donne”, a cura di Georges Duby e Michelle Perrot, vol.I, Laterza, Bari, 1993, p. 349, 342). Ancora nel Settecento intellettuali come l’illuminista Diderot considereranno le donne sterili degne di essere allontanate dal consorzio civile. Nel cristianesimo, invece, “è l’accordo di coppia che costituisce l’essenza del matrimonio e non la fecondità: in esso, infatti, non è più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile” (M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne, Laterza, Bari, 2008, p. 15). In altre parole: un cattolico che si sia sposato e scopra che la moglie non riesce a concepire, non ha mai il diritto di ripudiare o abbandonare la propria consorte, che dunque non perde affatto nulla della sua dignità anche se non può divenire madre (sterilitas matrimonium nec impedit nec dirimit).
Quanto all’adulterio, all’infedeltà coniugale, essa è proibita sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi: “Nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti nella casa. Rifacendosi alle radici bibliche, Agostino scrive, sulla traccia di Paolo (I Corinzi, 6, 12-20), che l’eccellenza di una unione fedele è così grande che i coniugi diventano membra stesse di Cristo, per cui mancare alla fedeltà significa prostituire le membra stesse di Cristo” (M. Pelaja, L. Scaraffia, op. cit., p. 17). Eadem a viro, dice infatti la legge della chiesa, quae ab uxore debetur castimonia (c.4, C. XXXII, q. 4).
La battaglia della chiesa per la fedeltà coniugale, per il pudore, per l’autocontrollo soprattutto maschile, per la santità del matrimonio, oltre che liberare l’uomo da una concezione animalesca del rapporto sponsale, ebbe anzitutto l’effetto di nobilitare e liberare la donna. Scrive Aline Rousselle: “Gli uomini (romani, ndr) non venivano allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo era normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere. La frequentazione delle prostitute introduceva inoltre un elemento di varietà nei divertimenti amorosi del giovane”. Così anche “le mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave o concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere queste ‘socie’”, sin dai tempi della Repubblica, dimostrando così di non ritenere neppure loro iniqua una sorta di poligamia (Storia delle donne, op. cit., vol. I, p. 346, 348). Le donne schiave poi, oltre che per il piacere del maschio, venivano utilizzate, esattamente come animali, per la riproduzione di manodopera servile, ma al di fuori del matrimonio, che il diritto romano, sino alle modifiche apportate dagli imperatori cristiani, non concedeva come diritto degli schiavi.
L’opera della chiesa e dei cristiani contro siffatte ingiustizie non toglie, chiaramente, che la maggior forza dell’uomo e le antiche consuetudini, nonostante la predicazione evangelica e il divieto di Costantino agli uomini sposati di possedere concubine, abbiano potuto continuare in qualche modo a sopravvivere; né che alcuni cristiani laici o ecclesiastici abbiano compreso solo in parte o solo col tempo questo insegnamento.
Però è innegabile che con la concezione cristiana di matrimonio la storia delle donne prenda una strada totalmente nuova. Scrive ancora Jacques Le Goff: “Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l’uomo è stato severamente condannato dalla chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell’XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l’interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero”.
Quanto infine alla vedovanza, i primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove la loro dignità, senza imporre loro di sottostare immediatamente al dominio di un nuovo marito, come invece volevano le leggi di Augusto. Per fare questo venivano in aiuto anche economico a quelle di loro che avessero voluto rimanere tali. Così a Roma, nel 251, il vescovo Cornelio assiste millecinquecento vedove e poveri della città.
Un simile atteggiamento, che noi diamo per scontato, non lo è affatto, neppure oggi. Si pensi soltanto all’India induista, dove, sebbene abolita in linea di diritto nell’Ottocento dagli inglesi, esiste ancora qua e là l’abitudine di bruciare le vedove sulle pire dei mariti (sati), e permane comunque una discriminazione orrenda nei loro confronti (Corrado Gnerre, “La religiosità orientale”, il Minotauro, Roma, 2003).
Repubblica del 13 luglio del 1999 titolava: “La città delle vedove d’India che rifiutano il suicidio. A Vridavan si rifugiano le donne che non accettano di togliersi la vita alla morte del marito come impone la tradizione”. Nell’articolo si legge tra il resto: “In molte regioni dell’India la donna che perde il marito dice addio per sempre ai diritti di un essere umano. Non ha più proprietà, perché le pretendono i figli, non può comperare né vendere, perché nel peggiore dei casi viene dichiarata la morte presunta. Un tempo si davano fuoco sulla stessa pira del marito. Oggi, per fortuna sempre meno spesso, restano vittime di misteriosi incidenti domestici, il più delle volte provocati dai parenti del marito che non vogliono più avere a che fare con loro”.
Qualche anno dopo il Corriere della sera scriveva: “Le più coraggiose vi arrivano da sole, sognando di raggiungere moksha, il paradiso, dove saranno liberate dal ciclo della morte e della rincarnazione. Ma la maggior parte viene accompagnata, o meglio ‘scaricata’ a sua insaputa, dalla famiglia del marito, ormai defunto. Con lui del resto hanno perso tutto, persino il cognome da sposate: diventano dasi, discepole di Krishna, così come vuole la religione indù. Eppure a portare a Vrindavan migliaia di donne ogni anno non è tanto la fede, ma la disperazione. Questa cittadina dell’Uttar Pradesh, 150 chilometri a sud-est di Nuova Delhi, da 500 anni è un rifugio per le donne spogliate di tutto che qui vivono, se va bene, di elemosine e offerte, cantando per ore negli ashram, comunità consacrate a Krishna. Proprio in questo luogo il ‘dio dell’amore’ fece una promessa: ‘Fortunato chi muore qui perché rinascerà libero dai peccati’. Non ultimo quello di sopravvivere al proprio marito. Un lungo purgatorio in terra, un viaggio senza ritorno verso l’oblio: a casa non arriverà neanche la notizia della loro morte. Vrindavan, una città santa quasi tutta per loro: su 56 mila anime, quasi 15 mila sono vedove. Un abitante su quattro. Cinquemila in più rispetto a dieci anni fa…” (Corriere della sera, 20/8/2007).
«Il Foglio» del 30 dicembre 2009

Addio anni zero senza rimpianti

Il bilancio di un decennio orribile. L'Italia è stata schizofrenica e le chiacchere sovrastano chi lavora con serietà. Cosa succederebbe, se invece di camminare, corressimo
di Sergio Romano
L’immagine del tunnel, per definire un percorso al buio attraverso una lunga serie di crisi, è ormai inflazionata e svalutata. Ma è quella che definisce meglio i primi anni del secolo, dall’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 all’elezione di Barack Obama nel novembre dell’anno scorso. Le responsabilità non sono soltanto americane. Non è colpa degli Stati Uniti, ad esempio, se il fanatismo islamico, nel settembre del 2001, scatena la guerra santa nel cielo di New York. Ma molto di ciò che è accaduto ha le sue origini nel modo in cui l’America, da quel momento, ha concepito il proprio ruolo nel mondo e nei metodi con cui ha perseguito i suoi obiettivi.
La lista degli avvenimenti funesti è impressionante: la guerra afghana, la guerra irachena, la guerra libanese, la guerra georgiana, la guerra di Gaza, le guerre africane, imassacri del Darfur, una lunga serie di attentati terroristici da Madrid a Londra, dal Pakistan all’India, dall’Indonesia alla Turchia, e una serie non meno importante di repressioni poliziesche in Birmania, nel Tibet, nello Xinjiang, in Iran. Il catalogo delle crisi economiche e finanziarie non è meno lungo, da quella del petrolio e del gas a quella dell’industria automobilistica, da quella americana dei mutui a quella delle banche e delle compagnie di assicurazione, da Wall Street alla City. E mentre gli Stati Uniti reagivano a ogni insuccesso raddoppiando testardamente la posta, l’Europa impiegava otto anni per approvare una Costituzione che le permettesse di governare se stessa e di avere un ruolo mondiale corrispondente alla sua importanza. Aggiungo, per completare il quadro, che in questo marasma si sono fatti spazio gli avventurieri e i corsari, da quelli che controllano gli Stati, come il venezuelano Hugo Chávez e i signori nordcoreani di Pyongyang, a quelli che catturano le navi nel Golfo di Aden e al largo delle coste somale.
Forse siamo prossimi alla fine del tunnel. Vi saranno altre guerre, altri attentati terroristici e altre operazioni militari, forse addirittura nei prossimi giorni. Ma lo stile degli Stati Uniti è cambiato, l’Europa ha finalmente una Costituzione, la crisi del credito ha ripulito almeno in parte le stalle della finanza internazionale e molte industrie (quelle dell’automobile ad esempio) sanno che non è più possibile tornare alle dimensioni di un tempo. So che la conferenza di Copenaghen viene considerata da molti un insuccesso. Ma tra la situazione degli anni scorsi, quando alcuni fra i maggiori Paesi inquinanti rifiutavano qualsiasi impegno, e quella d’oggi corre una bella differenza. So che il G20 non sarà mai probabilmente il governo mondiale dell’economia, ma sarà pur sempre meglio di un G8 che rappresentava soltanto i vecchi proprietari. So che gli Stati Uniti continueranno a considerarsi superpotenza, ma l’America di Obama, soprattutto dopo l’approvazione della riforma sanitaria, assomiglierà un po’ di più all’Europa.
Gli Stati, come gli esseri umani, non smetteranno mai di commettere errori. Ma sanno imparare le lezioni ed eviteranno, almeno per un certo periodo, di ripetere gli errori del passato.
Possiamo dire lo stesso del nostro Paese? Durante il primo decennio del secolo l’Italia è stata, come spesso nel corso della sua storia, schizofrenica. La sua classe politica è litigiosa, il suo rapporto con gli elettori èmediocremente clientelare, i suoi dibattiti sono futili e retorici, l’apparato statale è poco produttivo, le corporazioni sono potenti e miopi. Ma il frastuono delle chiacchiere copre il silenzio di coloro che lavorano seriamente e mettono a segno ogni tanto risultati importanti, spesso con un confortante grado di continuità tra governi di colore diverso. Sul piano delle infrastrutture, un settore cruciale per la sua modernizzazione, il Paese, alla fine del decennio, sta meglio che all’inizio. Lo spettacolo è ancora più confortante se spostiamo lo sguardo dall’apparato politico-amministrativo alla società. Mentre l’agenda politica nazionale era dominata dalla discussione sul declino, molti industriali hanno affrontato il problema senza dare retta alle Cassandre e hanno reinventato le loro aziende.
Da una ricerca della Fondazione Edison, descritta da Marco Fortis sul Sole 24 Ore del 29 dicembre, risulta che nel 2007, prima della grande crisi del credito, l’Italia era «seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell’export mondiale ogni 100.000 abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud». Non è tutto. Mentre le cicale americane e inglesi bruciavano il loro denaro, le formiche italiane continuavano a risparmiare. Abbiamo un pesante debito pubblico, ma se altri Paesi sommassero il debito delle pubbliche amministrazioni a quello delle famiglie, scoprirebbero che la loro situazione, in qualche caso, è peggiore della nostra. Esiste una sonder weg italiana, una via speciale dell’Italia, che ci riserva talvolta qualche gradevole sorpresa.
Occorre evitare tuttavia, al momento dei bilanci, i pericolosi compiacimenti. Dovremmo piuttosto constatare che le potenzialità italiane sono frenate dalla mediocrità della sua classe politica, dallo stato del Mezzogiorno e dalla snervante lentezza con cui stiamo modificando le nostre invecchiate istituzioni. Siamo usciti senza troppi danni da un decennio orribile. Pensate a che cosa accadrebbe se, invece di camminare, ci mettessimo a correre.
«Coriere della sera» del 31 dicembre 2009

Camus: la «rivolta» 50 anni dopo

Definiva l’intellettuale «uno la cui mente osserva se stessa»... E forse non esiste descrizione migliore degli sforzi per indagare i sentieri tortuosi dell’esperienza umana che questa sua citazione: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri».
Così uno degli scrittori più «impegnati» del Novecento ha voluto mostrare come «fare una scelta di campo» non significhi sacrificare il resto Il romanziere si confessava «pessimista sulla storia umana ma ottimista sull’uomo», nel quale vedeva «l’unica creatura che rifiuta d’essere ciò che è». Per lui la nostra libertà «non è altro che una chance di essere migliori» e «il solo modo di affrontare un mondo che ne sia privo è diventare così assolutamente liberi da fare della propria esistenza un atto di ribellione»
di Zygmunt Bauman
Una riflessione del sociologo della «modernità liquida» sul lascito del grande scrittore francese, morto prematuramente a 47 anni in un incidente d’auto il 4 gennaio 1960, ma i cui romanzi aiutano a riconciliarsi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo
Mezzo secolo è trascorso senza Albert Camus, senza i suoi giudizi pungenti, provocatori e stimolanti, che ci pungolano e ci pungono sul vivo. In tutto questo tempo il corpus di libri, articoli e tesi dedicati all’autore di L’Etranger , La Peste , La Chute e Le Premier Homme non ha smesso di lievitare.
Questia , la «biblioteca on line di libri e periodici» più consultata dai docenti universitari, il 1° ottobre 2009 elencava 3171 titoli, tra cui 2528 libri dedicati al suo pensiero e al posto che occupa nella storia delle idee; Google Books, sito web ancora più popolare, ne contava 9953. La maggior parte degli autori finisce per porsi la stessa domanda: quale sarebbe stata la posizione di Camus di fronte al mondo – il nostro – che si è instaurato dopo la sua morte prematura? Quali sarebbero stati i suoi giudizi, i consigli, le intimazioni che non ha avuto il tempo di offrirci e che ci mancano così ferocemente?
Una sola domanda, tante risposte: tante risposte diverse… Non c’è da meravigliarsi. Camus diceva: «Tutta l’arte di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere».
Perché? Perché le sue rivelazioni, o l’assenza di rivelazioni, suggeriscono spiegazioni, ma «che non vengono rivelate chiaramente» e che, per essere chiarite, richiedono che la storia sia riletta «da una nuova angolazione». In altre parole, l’arte di Kafka consiste nell’evitare la tentazione di voler inglobare l’ininglobabile e chiudere questioni destinate a restare per sempre aperte, intriganti e lancinanti: e dunque nel non cessare mai di interrogare e provocare il lettore, continuando a ispirare e incoraggiare gli sforzi di ri­pensare. Grazie a questa peculiarità le intuizioni di Kafka sono immortali, e le controversie e i dibattiti che continuano a generare sono la migliore approssimazione possibile alla «pietra filosofale» che sognavano gli alchimisti, dalla quale si può perennemente estrarre l’«elisir di vita». Nel suo ritratto di Kafka, Camus ha schizzato il modello di ogni pensiero immortale: il marchio di tutti i grandi pensatori, lui compreso… Naturalmente non ho finito (e neanche seriamente tentato) di studiare le migliaia di reinterpretazioni suscitate finora dall’eredità di Camus. Non sono perciò competente per valutare, e neanche per sintetizzare, lo stato del dibattito, tanto meno per predirne l’evoluzione. Nelle riflessioni che seguono dovrò limitarmi al mio Camus, alla mia lettura personale e alla sua voce come la riascolto dopo oltre cinquant’anni, filtrata questa volta attraverso il tumulto della modernità liquida, quel gran bazar che ci fa da mondo: l’autore, innanzitutto, di Le mythe de Sisyphe e L’Homme révolté , due libri che come pochi altri letti nella mia giovinezza mi hanno aiutato a riconciliarmi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo, e che continuiamo a modellare giorno dopo giorno, consapevoli o meno, attraverso la nostra stessa maniera di abitarlo. Non sarei sorpreso che altri ferventi lettori di Camus, alla ricerca del suo messaggio alla posterità, giudicassero la mia lettura diversa dalle loro, strana o addirittura perversa: nell’inseguire indefessamente la verità della condizione umana, Camus era consapevole che l’oggetto della sua esplorazione restava aperto a una moltitudine di spiegazioni e giudizi, e resisteva strenuamente a ogni conclusione prematura (del resto, quando ci si dedichi al mistero insondabile della natura umana e delle sue possibilità, qualunque conclusione non potrebbe che essere prematura!), così come alla tentazione di espungere dalla sua visione della tragedia umana, in nome della logica e della chiarezza del discorso, l’ambiguità e l’ambivalenza che ne sono attributi irriducibili, se non addirittura quelli che la definiscono. Non si dimentichi che Camus definiva l’intellettuale come «uno la cui mente osserva se stessa»...
Parecchi anni fa in un’intervista mi fu chiesto di «riassumere il mio pensiero in un paragrafo». Non saprei trovare descrizione migliore degli sforzi del sociologo per indagare e registrare i sentieri tortuosi dell’esperienza umana che questa citazione di Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri». Molti autori di ricette per la felicità degli uomini, più radicali e più arroganti, denuncerebbero questa professione di fede come un’incitazione scandalosa a giocare su due tavoli. Ma Camus ha mostrato, per me senza ombra di dubbio, che «fare una scelta di campo» sacrificando uno di quei due compiti per (apparentemente) svolgere meglio l’altro finirebbe inevitabilmente per metterli fuori portata entrambi. Lui stesso si diceva «posto a metà strada tra la miseria e il sole». «La miseria – spiegava – mi ha salvato dal credere che tutto vada bene sotto il sole e il sole mi ha insegnato che la storia non è tutto». Camus si confessò «pessimista sulla storia umana, ottimista sull’uomo», nel quale vedeva «l’unica creatura che rifiuta d’essere ciò che è». La libertà umana, sottolineava, «non è altro che una chance di essere migliori» e «il solo modo di affrontare un mondo senza libertà è diventare così assolutamente liberi da fare della propria esistenza un atto di ribellione». Il quadro che dipinge del destino e delle prospettive dell’uomo s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo e quella di Prometeo, lottando – invano, ma con ostinazione indefessa – per riunirli e fonderli. Prometeo, l’eroe di L’Homme révolté , sceglie una vita per gli altri, una vita di ribellione contro la loro infelicità, scorgendovi la soluzione a quella «assurdità della condizione umana» che trascinava Sisifo, sopraffatto e ossessionato dalla propria infelicità, verso il suicidio come unica risposta e via d’uscita alla sua umana (troppo umana) maledizione (fedele all’antica massima enunciata da Plinio il Vecchio, e rivolta senz’altro a tutti gli adepti dell’amore di sé associato all’amor proprio: «Nella miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior regalo di Dio all’uomo»). Nella giustapposizione, operata da Camus, di Sisifo e Prometeo il rifiuto diventa un atto di affermazione: «Io mi ribello – avrebbe concluso Camus – dunque noi esistiamo». È come se gli uomini si fossero inventati gli ideali della logica, dell’armonia, dell’ordine e dell’ Eindeutigkeit solo per essere spinti dalla loro condizione e dalle loro scelte a sfidarli uno a uno nella pratica… Il «noi» non potrebbe essere mobilitato da Sisifo il solitario, che ha per tutta compagnia un masso, un pendio e un compito di autosconfitta.
Ma anche nella maledizione di Sisifo, apparentemente senza speranza e senza prospettiva, confrontato com’è con l’assurdità assoluta della propria esistenza, c’è uno spazio, atrocemente minuscolo, è vero, ma ampio a sufficienza per accogliere Prometeo.
La sorte di Sisifo è tragica solo perché egli è cosciente, consapevole dell’insensatezza ultima delle sue fatiche. Ma come spiega Camus: «La chiaroveggenza che doveva essere il suo tormento determina al tempo stesso la sua vittoria. Non c’è destino che non si superi con il disprezzo». Scacciando la coscienza morbosa di sé per aprirsi alla visita di Prometeo, Sisifo riesce a trasformarsi da figura tragica di schiavo delle cose in loro artefice gioioso. «La felicità e l’assurdo – osserva Camus – sono due figli della stessa terra. Sono inseparabili». E aggiunge: a Sisifo questo universo «senza padrone» non sembra «né sterile né futile. Ogni atomo di quella roccia, ogni falda minerale di quella montagna piena di notte, da solo forma un mondo. La lotta verso le vette basta a riempire un cuore d’uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Sisifo è riconciliato con il mondo com’è, e quest’accettazione spiana la strada alla ribellione; anzi, la rende un esito inevitabile, o almeno molto probabile. Tale combinazione di accettazione e di ribellione, di attenzione per la bellezza e per il miserabile, intende proteggere il progetto di Camus su due fronti: dalla rassegnazione greve di pulsioni suicide e da un eccesso di fiducia in sé, greve di indifferenza verso il costo umano della rivolta. Camus ci dice che la rivolta, la rivoluzione e la lotta per la libertà sono aspetti inevitabili dell’esistenza umana, ma che dobbiamo sorvegliarne i limiti per evitare che tali ammirevoli intenti sfocino in tirannia.
Davvero Camus è morto cinquant’anni fa?
(c) 2009 Le Nouvel Observateur. Traduzione di Anna Maria Brogi
«Avvenire» del 28 dicembre 2009

I libri, corpi vivi da non ridurre ad algidi byte

di Giuliano Vigini
Ormai sono i libri elettronici e soprattutto gli strumenti che servono per leggerli a tenere banco nel dibattito editoriale. Per il momento, con vari pro e anche non pochi contro: non tanto per i prezzi, che in breve tempo scenderanno sotto la soglia attuale (250-300 euro), con il diffondersi dei lettori e l’estendersi della concorrenza, ma per la marginalità dei contenuti (almeno quelli in lingua italiana) e per problematiche generali non del tutto risolte (standard, funzionalità operative, indicizzazione, diritti d’autore, ecc.). Nel frattempo ci si domanda: la carta elettronica sarà un sostituto o un complemento della carta tradizionale? Per rispondere, bisogna innanzitutto capire che cosa differenzia l’una dall’altra. Perché in fondo uno potrebbe pensare, visto che le parole sono sempre le stesse e che l’inchiostro elettronico di nuova generazione rende la pagina sullo schermo simile a un foglio di carta, che leggere un libro elettronico sia la stessa cosa che leggerlo nel modo in cui da secoli siamo abituati. Potrebbe esser così se un libro fosse un puro e semplice documento. Ma un libro non è soltanto un documento che si consulta per esigenze d’informazione, studio o professione. Un libro – quello in particolare legato al gusto intimo del leggere e, per i ragazzi, anche alla manualità fondamentale del gioco – non è una sequenza uniforme di parole, ma un corpo vivo, con cui si entra fisicamente, mentalmente ed emotivamente in contatto, attraverso una relazione molto personale. È per questo che l’inconfondibile fisicità di ogni singolo libro – la sua forma estetica, ma anche il suo modo di comunicare – diventa nel tempo anche la memoria di quel libro, tanto che, a distanza di anni, si è spesso in grado di ricordarne perfettamente le sembianze: il colore della copertina, le immagini, la legatura, la carta, perfino i carattere di stampa. Sottolineare questa ed altre peculiarità del libro tradizionale (che può, ad esempio, essere letto anche da chi non ha dimestichezza con gli aggeggi elettronici e offre per vari aspetti una duttilità ancora ineguagliata) non significa sminuire l’utilità del libro elettronico per una molteplice serie di funzioni e non riconoscere che i nuovi strumenti sono comodi e abbastanza semplici da usare, agevoli alla lettura anche in piena luce e con il vantaggio non indifferente di poter modulare la dimensione del carattere alla propria capacità visiva. Tuttavia, è importante ribadire che si tratta di due modalità di lettura diverse e che producono effetti diversi.
Leggere un romanzo o sfogliare un grande libro d’arte su un lettore elettronico o sulla carta stampata non dà lo stesso tipo di partecipazione ed emozione. Un audiolibro che racconta a un bambino una fiaba o una storia non è intercambiabile con un genitore che gliela legge in una sequenza di gesti, sguardi, domande che creano quel legame affettivo e psicologico unico, capace di dare alla voce e alle parole il loro inimitabile potere d’incanto. Esperienze diverse, appunto, perché la forma in cui si riceve il testo incide profondamente sul modo in cui poi si fa l’esperienza e si conserva la memoria di quel testo. Non si tratta quindi essere tecnologici o anti, ma semplicemente di riconoscere le differenze tra i vari modi di leggere.
«Avvenire» del 28 dicembre 2009

Sgorlon: Omero nella «foiba grande»

Lo scrittore premiato de «La conchiglia di Anataj» fu sempre fedele a una poetica che privilegiava la sacralità del mondo e dell’uomo e una visione mitica trasfigurata nella nostra esistenza
di Fulvio Panzeri
Ci ha lasciato uno dei più importanti narratori italiani del Secondo Novecento, Carlo Sgorlon: classe 1930, nato a Cassacco, un paese a 13 chilometri da Udine, in quel Friuli che è diventato terra mitica nelle sue opere, un angolo di mondo in cui ritrovare i segni della tradizione e della sacralità delle radici. Non era contento negli ultimi anni e non aveva problemi ad indicare le ragioni del suo disagio e di un isolamento culturale che sentiva un po’ come una condanna, tanto che nelle interviste e in quello che è il suo ultimo libro, La penna d’oro, aveva puntato il dito sulla implacabilità della censura della società letteraria italiana e aveva lamentato «la troppa sufficienza e indifferenza nei miei confronti, specie dalla intellighenzia di sinistra». E aggiungeva: «La mia coerenza e il mio universo di scrittore continuano a suscitare più fastidio e diffidenza che consensi. Che io insista a pensare in modi personali e anticonformisti sui grandi temi del vivere continua a ribadire il bando, l’ostracismo che nessuno ha mai pronunziato apertamente, ma che conserva ancora la sua antica efficacia. Ogni cosa che faccio, o che mi riguarda, viene irrisa e deformata».
Certamente Sgorlon con la sua narrativa non ha mai ceduto alle mode imperanti, rimanendo sempre fedele a una poetica che privilegiava la sacralità del mondo e dell’uomo e una visione mitica trasfigurata nella nostra esistenza. Diceva: «Nella cultura dominante non v’è più il senso della sacralità, né l’amore per la natura e per la vita, né il sentimento dell’armonia con l’Essere, né i miti religiosi, né le emozioni genuine di un tempo, neppure le più vere e forti, come quelle suscitate dall’eros. Ma, soprattutto, la disperazione dominante oggi in Occidente è una forma di conformismo, di diffusa suggestione». Non voleva allinearsi nella rappresentazione del male del mondo e nella forma d’apocalisse della sua degenerazione e rivendicava il diritto ad un esempio di francescana fiducia nella bellezza del mondo: «Personalmente mi pare giusto parlare di ciò che attira, che emoziona, che seduce i sentimenti e appaga il cuore, anche se tutto questo secondo i critici appartiene alla zona del consolatorio. Molti dei miei personaggi, specie quelli che si collocano nei primi piani della storia, hanno una natura profondamente cristiana. Ciò ha fatto scendere sulla mia narrativa l’ombra del buonismo». Un rapporto quindi non facile con la critica e con la società letteraria, anche se l’opera di Carlo Sgorlon è piuttosto vasta.
Nato da Livia, maestra elementare, e da Antonio, sarto, era il secondo di 5 figli e ha vissuto per lunghi periodi in campagna, con i nonni, in assoluta libertà, assimilando il carattere e il senso di quella cultura rurale, intessuta di favole, miti e superstizioni, che sarà poi al centro della sua opera. Si era laureato con una tesi su Franz Kafka, scrittore con il quale sentiva di avere qualche affinità, almeno nel territorio della ricerca religiosa. Iniziò a scrivere negli anni Sessanta, anche se il primo libro in cui si delinea quella coralità di struttura e di personaggi, all’insegna di un originale 'realismo magico' che caratterizzerà il suo ideale di storia e di letteratura, è La Luna color ametista del 1970. Il grande consenso di pubblico arriva nel 1973 con Il trono di legno, romanzo di successo, grazie anche al premio Campiello che Sgorlon vince per la prima volta con questa storia che ha per protagonista un narratore di vicende fantastiche legate alla cultura contadina, un romanzo secondo lo scrittore «come tanti altri miei romanzi, e forse tutti, profondamente intriso di sentimenti ecologici e di immedesimazione con la sacralità della natura».
E il Supercampiello lo vincerà ancora, nel 1983, con La conchiglia di Anataj, da molti considerato il romanzo più significativo dello scrittore friulano, che descrive l’avventura di 400 friulani in Siberia ed è incentrato sul recupero delle origini e del legame con le proprie radici. Emblematico di un altro tema forte della sua narrativa, quello che Sgorlon definisce «il sentimento dominante di alcuni personaggi di essere degli stranieri nel mondo», pur non sottraendosi mai ai propri doveri.
Nel 1985 vince il premio Strega con L’armata dei fiumi perduti, ispirato alle vicende poco note della duplice tragedia del popolo cosacco; un romanzo che raggiunge le 22 edizioni. Scrittore molto amato dal pubblico, autore di una trentina di romanzi (tra i quali ricordiamo ancora La carrozza di rame, Il Calderàs, L’ultima valle, La foiba grande), raccolte di racconti e vari saggi, Sgorlon ha sempre rivendicato un carattere di forte moralità alla propria letteratura e una fedeltà al suo mondo e alla sua verità di cui ha voluto essere cantore umile e semplice, anche se sempre molto appassionato, al punto di lavorare, nell’ultimo periodo, verso una «fusione della cultura umanistica con quella scientifica, e in particolare la fisica e l’astrofisica, di cui sono molto curioso». Con una scoperta: «La sostanza del mondo è diversa dalle sue apparenze e dalle nostre sensazioni». E un lascito ideale: «Non sono uno scrittore 'buonista', ma semplicemente un ammiratore della bontà, e di tutto ciò che essa comporta. Né sono un moralista, ma uno scrittore morale. Senza etica una società non è più tale, ma un Caos senza forma, destinata a crollare e scomparire».
«Avvenire» del 28 dicembre 2009

I cristiani e il Petronio «cifrato»

di Ilaria Ramelli
Come accennavo la volta scorsa, Petronio probabilmente conobbe l’Editto di Naza­reth contro i cristiani e la persecuzione del 64. Come ho mostrato con sempre nuovi argo­menti in «Aevum» 1996, I romanzi antichi e il cri­stianesimo (Madrid 2001), «Ancient Narrative» 2005, Il Contributo delle scienze storiche alla in­terpretazione del NT (Città del Vaticano 2005), e Gesù a Roma (Roma 2007), il Satyricon potrebbe contenere allusioni parodistiche ai cristiani e alle narrazioni evangeliche. Petronio affiancò Nerone come arbiter elegantiae dopo il 62, l’anno del riti­ro di Seneca e della 'svolta' i cui effetti si fecero sentire anche contro i cristiani. La presenza di cristiani, negli anni del Satyricon, alla corte nero­niana è attestata in Fil 4,22. All’epoca, i cristiani a Roma erano già numerosi, come attestano Tacito e Clemente Romano, e oggetto di accuse e di o­dio popolare, e furono suppliziati in maniera spettacolare nel 64.
L’interesse di Petronio per il giudaismo depone a favore di un suo interesse per il cristianesimo, set­ta giudaica, anche se nel 64 a Roma era chiara la differenza. Petronio, secondo Clarke e Katzoff, co­nosceva alcuni costumi giudaici, a cui allude iro­nicamente. In questa prospettiva credo possibile rivalutare l’attribuzione a lui dell’epigramma Anth. Lat. I 2,696, ove sono ridicolizzati gli usi giu­daici della circoncisione, dell’astensione dalla carne di maiale, del digiuno sabbatico. Nella Ro­ma neroniana possono esserci stati esempi della corrente di Rabbi Eliezer, le cui prescrizioni, quali digiunare il sabato, catturarono l’attenzione dei satirici romani, anche Marziale.
Agli esempi addotti dagli studiosi citati aggiunge­rei la parodia del giudizio di Salomone nel Satyri­con, che trova un parallelo nella sua parodia in un affresco esistente a Pompei al tempo di Petronio.
L’episodio si colloca subito dopo la cena Trimal­chionis, in cui sono anche i suddetti riferimenti a­gli usi giudaici e alcuni accenni al Cristianesimo.
Il giovinetto Gitone, conteso tra Encolpio e Ascil­to, rischia di essere scisso con la spada da que­st’ultimo, che preferisce tagliarlo in due piuttosto che cederlo al rivale, il quale insiste sulla demen­tia di tale comportamento. Ascilto si appresta a scindere il puer «con mano di parricida», e nell’e­pisodio sono enfatizzati gli stretti legami di san­gue del puer con entrambi. In realtà non è loro parente; il presunto vincolo familiare tra il ragaz­zo e gli uomini che se lo contendono, nonché il costante appellativo puer, si adattano a una parodia del giudizio di Salomone, con un bambino e le madri che se lo contendono, ove quella dispo­sta a scindere in due il puer pur di non lasciarlo all’altra è quella falsa. Nella Bibbia le litiganti so­no cortigiane; anche in Petronio gli uomini che si scontrano per il puer sono moralmente corrotti.
Come nell’episodio biblico, la spartizione del puer non avviene, e a Gitone è lasciata facoltà di scegliersi il frater che preferisce: con inversione parodistica, il giudizio, lungi dall’essere giusto co­me quello di Salomone, è ingiusto e il puer va ad Ascilto, che era disposto a ucciderlo, mentre nella Bibbia il puer è assegnato alla madre vera, che, piuttosto di vederlo morire, era disposta a cederlo alla rivale. Quello che nella Bibbia è un esempio di saggezza è qui trasformato espressamente in dementia. L’episodio è inoltre chiamato 'proces­so' di fronte a un 'giudice'; di fatto non ha luogo un processo, ma tale caratterizzazione si com­prende in relazione al passo biblico.
La scena si svolge in una città campana, come Pompei, ove era conosciuto il giudaismo. Ivi ca­deva opportuno un riferimento ironico a un epi­sodio biblico che, come risulta dall’affresco, era parodiato in ambiente pagano. Se Petronio presupponeva che ai lettori il giudizio di Salomone fosse noto al punto da poter coglierne la parodia, la stessa conoscenza è presupposta, nei medesi­mi anni e nella stessa area, negli spettatori di un affresco di una casa pompeiana prima del 79. Vi compaiono un re in trono, una donna che lo pre­ga in ginocchio e un’altra che tiene un bambino il quale sta per essere tagliato in due da un soldato che leva un enorme coltello; attorno, soldati e a­stanti. La scena ha tratti caricaturali: il giudizio di Salomone è parodiato e attesta la conoscenza di questo episodio biblico in ambito pagano. Lo stesso nome di Trimalcione ha un’etimologia se­mitica ('tre volte sovrano'), ironica per un liberto. L’interesse di Petronio per il giudaismo rende me­no sorprendente un’eventuale sua attenzione al mondo cristiano, pure a scopi parodistici.
«Avvenire» del 29 dicembre 2009

Solitudine, un « virus » contagioso

di Giuseppe O. Longo
Secondo una ricerca di John Cacioppo dell’Università di Chicago, comparsa di recente sul «Journal of Personality and Social Psychology», la solitudine si diffonderebbe nella società seguendo la dinamica dei contagi virali: come ci si prende il raffreddore da chi è raffreddato, così ci si 'prenderebbe' la solitudine da chi è solo. Forse qualche anno fa una ricerca del genere avrebbe messo in evidenza un congetturale 'gene della solitudine', mentre oggi l’influenza... dell’influenza 'suina' comporta un cambio di paradigma. E, seguendo la metafora virale, Cacioppo aggiunge che non solo le persone da noi frequentate ci possono contagiare, ma anche le persone che frequentano coloro che noi frequentiamo, e ciò fino a tre gradi di separazione: se Tizio è solitario e frequenta Caio e Caio frequenta Sempronio e noi frequentiamo Sempronio, ebbene possiamo diventare dei tristi solitari. Sorge allora la domanda perché non siamo tutti solitari, dal momento che tutti frequentiamo persone che direttamente o indirettamente hanno frequentato o frequentano persone sole. È ovvio: un solitario è tale proprio perché non frequenta (e non contagia) nessuno. Ma allora come si diffonde la solitudine?
Forse esistono i portatori sani, persone che hanno il virus della solitudine, ma che ciò nonostante vivono in seno ad allegre brigate alle quali trasmettono il temibile agente.
Inoltre, asserisce Cacioppo, la società adotta misure profilattiche probabilmente inconsapevoli, mettendo al bando quanti sono in odore di solitudine per evitare che infettino le persone gioviali. Allora non è chiaro se si viene messi al bando perché si è solitari oppure se si diventa solitari per effetto di un bando, magari ingiustificato. Lo studio fornisce anche qualche dato numerico (piuttosto nebuloso): ogni giornata di solitudine di un vicino di casa solitario ci causa due ore di solitudine, mentre ogni amico ci risparmia due giorni di solitudine all’anno (lo sapevamo che chi trova un amico trova un tesoro). Chris Segrin, un esperto di comportamento estraneo alla ricerca, ha osservato che sì, in effetti, le persone solitarie tendono a trovarsi tra loro, aggravando la propria condizione (ma quando si ritrovano non possono più dire di essere sole: forse qui si confonde la solitudine con la depressione). Poiché per molti la solitudine è difficile da sopportare essa, come sottolinea Cacioppo, deprime il sistema immunitario e provoca effetti sulla pressione sanguigna paragonabili a quelli del fumo.
Non sono mancate le critiche alla ricerca: nel 2008 Jason Fletcher e Ethan Cohen-Cole hanno dimostrato che di primo acchito anche l’acne, la cefalea e perfino l’altezza presentano una diffusione di tipo epidemico nella popolazione, ma questo andamento scompare quando si tenga conto in modo accurato dei fattori ambientali: Cacioppo ne ha tenuto conto? Chissà se Petrarca, che solo e pensoso i più deserti campi andava misurando, si rendesse conto di essere stato contagiato dal subdolo virus di Cacioppo e non semplicemente colpito dall’insidioso ma banale dardo di Cupido.
«Avvenire» del 29 dicembre 2009

Se ci raccontassero ogni tanto qualcosa di bello

Senza buonismi né volgarità
di Marina Corradi
L’ultimo film di Christian De Sica ha incassato tre milioni di euro in un solo giorno, e a Roma è proiet­tato in oltre la metà delle sale. Un film volgare? Al Corriere l’attore risponde che i film d’autore fanno incassi pe­nosi, e che un film di Natale come il suo è « lo specchio dell’Italia » di oggi. Al di là della vicenda particolare, l’af­fermazione colpisce. Per prima co­sa, perché occorre riconoscere che c’è del vero. Gli ammiccamenti, le pa­rolacce di un film di grande cassetta non sono in realtà peggiori di quan­to si sente all’uscita di una qualun­que scuola, o in un talk show televi­sivo. È vero, c’è un involgarimento collettivo che è prima che nelle pa­role nello sguardo, nella morbosità con cui per esempio si scrive, e si leg­ge, dei vizi altrui, spiati con avidità. Quasi un compiacimento nell’indu­giare su ciò che è greve; il gusto di un cinismo sorridente che ama i doppi sensi, l’ammiccamento, in un sot­tintendere che così fan tutti, e chi non ci sta è un illuso.
Certo, quello «specchio d’Italia» man­ca di tante cose silenziose che rara­mente passano in tv: affetti, lavoro, solidarietà, carità, individuali co­scienze che resistono a questo im­barbarimento collettivo. E tuttavia non si può negare che tra l’Italia del dopoguerra e questa c’è un tale salto di costume e linguaggio, che chi è vec­chio, e ricorda, ne è spaesato.
Ma quel dire che così è l’Italia, sot­tintendendo che dunque bisogna dar­le ciò che le somiglia, colpisce anche per una tristezza che ne viene. La vol­garità vende, dunque si va incontro alla richiesta del mercato. Senonché quel mercato siamo noi, un Paese, i nostri figli. A cui vorremmo lasciare qualcosa di meglio che le battute dei cinepanettoni. Perché dietro a quelle risate c’è ben poco. Perché andiamo al cinema o accendiamo la tv per di­strarci, la sera; ma anche con la ma­gari non riconosciuta attesa di vede­re qualcosa che ci dia una speranza. Di riconoscere, perfino fra le righe di una storia dolorosa o terribile, un sen­so buono, che valga anche per noi. Le fiabe che si raccontano ai bambini hanno sempre un lieto fine – e se non ce l’hanno, i bambini ci restano ma­lissimo. Siamo un po’ bambini anche noi. In un film, in un libro, magari ac­canto al realismo più crudo, vorrem­mo trovare almeno qualcosa di bello, o una faccia buona. Per non uscire più sfiduciati di quanto eravamo prima.
E dunque, può essere che in molti sia­mo come gli italiani allegrotti dei ci­nepanettoni. Però, se ci raccontasse­ro ogni tanto qualcosa di bello. Non agiografie, o buonismi. Se ci venisse mostrata una bellezza: qualcosa che appassiona e sveglia una tensione, u­na domanda. Incontrando gli artisti un mese fa Benedetto XVI ha ricor­dato Platone: secondo il quale la fun­zione essenziale della bellezza « con­siste nel comunicare all’uomo una sa­lutare scossa che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione». La bellezza risveglia, e mette in mo­to. Come in un bellissimo film di tre anni fa, ' Le vite degli altri' di Florian Henckel von Donnersmarck, dove un agente della polizia segreta della Ddr passa i suoi giorni a spiare e intercet­tare dei sospetti dissidenti. Ma pro­prio le loro speranze e la loro tensio­ne lo contagiano. L’agente non li de­nuncia, e abbandona il suo lavoro di aguzzino.
Si sarebbe ben potuto fare un film semplicemente sulla crudeltà degli uomini della Stasi. Sarebbe stato rea­lista. Ma la storia della spia commos­sa dalla bellezza è ancora più realista: è la realtà, attraversata da una spe­ranza. Ciò che in fondo tutti doman­diamo. (E quanto a successo non è andata male: Oscar per il miglior film straniero. La bellezza, gli uomini la ri­conoscono ancora).
«Avvenire» del 30 dicembre 2009

Ciao Darwin, scusa l’equivoco

Si conclude l’anno che ha visto ricordare lo scienziato inglese, a 200 anni dalla nascita, con numerose iniziative e anche polemiche: bilancio finale in chiaroscuro
di Fiorenzo Facchini
Non è ancora chiaro a tutti che l’evoluzione non rende superflua la creazione, ma anzi esalta l’opera di Dio che si esprime in modi sempre nuovi nel tempo
L’anno galileiano e l’anno darwiniano sono state otti­me occasioni per richia­mare l’attenzione sulla scienza. In particolare le ricorrenze darwinia­ne ( 200 anni dalla nascita di Darwin, 150 anni dalla pubblica­zione della sua opera Le origini del­le specie ) hanno consentito di di­vulgare le conoscenze sulla evolu­zione della vita per la quale Char­les Darwin ha proposto la teoria più largamente accettata.
Nell’anno che si conclude il pensie­ro di Darwin ha dominato la scena culturale. Le iniziative sono state davvero tante a ogni livello, nelle se­di accademiche, come nei centri cul­turali. Anche le mostre hanno fatto la loro parte. Molti i saggi su giorna­li, riviste e libri, dedicati alla evolu­zione e alle sue problematiche, an­che dal punto di vista religioso.
A mio modo di vedere avrebbe po­tuto esserci una maggiore attenzio­ne al dibattito in corso nel mondo scientifico sulle modalità e sui mec­canismi evolutivi, specialmente in relazione con le ricerche sulla bio­logia evolutiva e dello sviluppo e sul­la epigenesi, affrontando critica­mente i punti chiave del darwini­smo. Tali ricerche non smentiscono la teoria di Darwin, almeno a certi li­velli, ma mettono in evidenza la ne­cessità di integrarla.
È stata richiamata l’attenzione sul­la storia della vita sulla terra, non so­lo per gli aspetti che destano la cu­riosità sul passato, ma per il signifi­cato che possono avere per l’uomo di oggi e il suo futuro gli studi sulle origini della vita e sulle domande di tipo esistenziale che sollevano.
Spesso, specialmente nelle sedi mas­smediatiche, questa attenzione è stata associata a una certa visione della natura che molti scienziati vo­gliono ricavare dalla teoria di Darwin. La concezione evolutiva viene estesa ad aspetti più propria­mente filosofici facendo assumere al discorso sulla evoluzione una con­notazione ben precisa, quella ispi­rata al naturalismo, che dalla evolu­zione vuole dedurre la negazione della creazione, di un finalismo nel- l’universo e della dimensione spiri­tuale nell’uomo. Una operazione es­senzialmente ideologica, sempre possibile, ma che non può essere so­stenuta in nome della scienza e nep­pure della teoria darwiniana di cui rappresenta una estensione totaliz­zante. La concezione darwiniana viene utilizzata da alcuni perfino per la spiegazione della religione e del­l’etica. Piegare una teoria scientifica in senso materialistico, ignorando o negando altri approcci, non è un buon servizio alla scienza e alla cul­tura e rivela una visione riduzioni­stica della realtà. Nel dibattito che si è sviluppato non poteva mancare il riferimento alla creazione che ha avuto in alcune se­di qualificate (ricordo per brevità la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Università Gregoriana e l’Istituto Stensen di Firenze) una particolare attenzione con la neces­saria e coraggiosa apertura sotto di­versi profili: scientifico, filosofico e teologico. Senza dubbio il 'dopo Darwin' riguarda anche la teologia cattolica. Da segnalare lo spazio da­to al rapporto tra evoluzione e crea­zione nell’evento internazionale su
D io oggi , promosso a Roma nei gior­ni scorsi dal comitato per il Proget­to culturale della Cei. Il tema della creazione è stato pre­sente, se pure marginalmente, an­che in alcune sedi laiche. Nel dibat­tito non sono mancate voci ispirate al cosiddetto creazionismo (una pa­rola che si è caricata di ambiguità per cui è meglio parlare di creazio­ne nel rapporto con la evoluzione) e quindi critiche non solo del darwi­nismo, ma della teoria evolutiva in quanto tale in nome della creazione, quasi che evoluzione e creazione debbano essere viste in contrappo­sizione. Un equivoco che perdura in molte persone e ambiti culturali. Ad avallare questa posizione vengono avanzate critiche alla teoria evoluti­va riprendendo alcuni luoghi co­muni ormai superati (le lacune nel­le serie evolutive) o aggrap­pandosi a notizie stravagan­ti non attendibili (i dinosau­ri contemporanei di Homo sapiens) o, peggio, viene so­stenuta la inconciliabilità della evoluzione in quanto tale con la visione teologica della creazione, nonostante non siano mancati autore­voli pronunciamenti in sen­so contrario nell’ultimo decennio. Queste posizioni, che hanno come unico risultato quello di alimentare inutili polemiche, sembrano fare da contrappeso alle forme di fonda­mentalismo di segno opposto, degli evoluzionisti ad oltranza, che rifiu­tano il pensiero cattolico sulla crea­zione in rapporto con l’evoluzione giudicandolo come una intrusione in campi che non competono alla teologia. Di questi estremismi ha fat­to esperienza diretta anche chi scri­ve, tacciato dalla rivista MicroMega
come intregrista ratzingeriano e ac­cusato, al termine di un recente in­contro ecclesiale, di sostenere posi­zioni in disaccordo con Benedetto XVI. Potrei anche riferire che quan­do mi è capitato di esporre in una sede universitaria prestigiosa il pen­siero cattolico su evoluzione e crea­zione, quale emerge da vari inter­venti del magistero, mi sono sentito dire polemicamente da un collega che non esiste altro che la raziona­lità scientifica. Il resto non interes­sa. È evidente che questo modo di vedere rappresenta un’autolimita­zione nella conoscenza e preclude le possibilità di allargare il dialogo al piano filosofico e teologico. Altre vol­te però il dibattito è stato sereno, an­che nella manifestazione di opinio­ni diverse. Sul fronte ecclesiale si è accresciuto l’interesse per i temi dell’evoluzione, non senza qualche incertezza nella base di fronte all’evoluzionismo ma­terialista propagandato abbondan­temente dai grandi mezzi di comu­nicazione. Si avverte la necessità di affrontare in sede catechistica i rac­conti della Genesi e la teologia sulla creazione con un’adeguata prepa­razione, ma senza complessi di in­feriorità di fronte alla scienza.
Nonostante tutto, direi che il bilan­cio dell’anno darwiniano sia positi­vo nell’insieme, particolarmente per un avvicinamento dell’opinione pubblica ad alcuni grandi temi del­la scienza, per i quali l’interesse è molto vivo. Tuttavia persistono al­cune chiusure sia nell’ambito pro­priamente scientifico (come se il darwinismo rappresenti l’ultima pa­rola sulla evoluzione), sia su aspetti più generali, quelli che vertono sul significato della storia della vita e sull’uomo. Ma sul fronte religioso si colgono anche preoccupazioni e ti­mori sul tema dell’evoluzione. Non è ancora chiaro a tutti che l’evolu­zione non rende superflua la crea­zione, ma esalta l’opera del Creato­re che si esprime in modi sempre nuovi nel tempo.
«Avvenire» del 31 dicembre 2009

L’occasione perduta dell’anno darwiniano

La scienza e le manipolazioni ideologiche
di Francesco D'Agostino
Attendo con impazienza la fine del 2009; non, come si potrebbe credere, per immergermi nei festeggiamenti della notte di S. Silvestro, ma perché con il 2009 avrà fine l’ 'anno darwiniano'. Si dirà: ecco un creazionista impenitente, che non accetta la teoria dell’evoluzione! Niente affatto. Sono assolutamente convinto che quella di Darwin sia ben più che un’ipotesi (come disse con espressione felice Giovanni Paolo II), anzi non mi crea alcuna difficoltà riconoscere che allo stato attuale delle conoscenze è ben difficile che una diversa teoria sull’origine delle specie possa mai sostituire quella del grande naturalista anglosassone: potranno essere formulate, come già è avvenuto, teorie integrative o correttive di quella darwiniana, ma non certo teorie radicalmente alternative. In altre parole, nei confronti del darwinismo, come teoria scientifica, e nei confronti dei darwiniani, come scienziati, mi pongo in un atteggiamento di profondo rispetto. Ciò che non tollero non è il darwinismo, ma l’uso ideologico che del darwinismo viene massicciamente fatto, quando si utilizza il legittimo prestigio che la scienza si è conquistata nella modernità per veicolare ed avvalorare prospettive che non sono affatto scientifiche, ma filosofiche: prospettive peraltro antiche, riducendosi a varianti, nemmeno troppo originali, di quel naturalismo irreligioso con cui già nell’antichità classica si erano confrontati Socrate, Platone, Aristotele. Il torto del naturalismo non è quello di prendere sul serio e di studiare la realtà materiale come un fatto, anzi come una molteplicità sconfinata di ruvidi, irriducibili fatti, ma quello di ritenere che essa sia capace di rendere ragione di se stessa e di offrire sia pure un minimo appiglio per dare una risposta a quella domanda di senso che caratterizza e tormenta ogni uomo. Per i naturalisti darwiniani la teoria dell’evoluzione svuota dal di dentro ogni questione teologica e antropologica e rende inutile sia l’interrogarsi su Dio che l’interrogarsi sull’uomo. In un mondo lacerato da conflitti politici, culturali e generazionali, i neodarwiniani (confutate, cancellate, o meglio rimosse, le inquietanti teorie tardo ottocentesche del 'darwinismo sociale') continuano a mandarci messaggi ottimistici, si affannano a dipingere la realtà naturale come armoniosamente equilibrata e la specie umana come predeterminata evolutivamente alla cooperazione ed alla solidarietà. Guai a chi non accede a questi quadri idilliaci: oltre a diventare immediatamente oggetto della pesantissima accusa di essere un fondamentalista premoderno ed antiscientifico, chi osi insistere nel distinguere il darwinismo come teoria scientifica dal naturalismo darwiniano come teoria filosofico-antropologica viene radicalmente escluso da ogni dibattito pubblico su tematiche scientifiche e bioetiche ed esposto al ludibrio di un’opinione pubblica pesantemente manipolata dai grandi sistemi mediatici, per i quali quello di Darwin è il Vangelo della modernità.
Naturalmente, non tutti gli scienziati che aderiscono alla teoria dell’evoluzione sono, sul piano filosofico, 'naturalisti darwiniani'. La loro voce, però, continua ad essere ben più debole di quella di coloro per i quali Darwin non è solo un grandissimo scienziato, ma un vero e proprio benefattore dell’ umanità, per averla liberata dall’ipoteca di un soffocante teismo creazionista(!). L’anno darwiniano avrebbe potuto essere un’ottima occasione per distinguere queste due posizioni e per mettere bene a fuoco il principio epistemologico fondamentale, secondo il quale l’esistenza di Dio, come non può essere provata scientificamente, così non può essere scientificamente confutata (non a caso, infatti, le celebri prove classiche dell’esistenza di Dio hanno un carattere metafisico, cioè filosofico e non scientifico).
L’occasione (malgrado alcuni sporadici, generosi sforzi in senso contrario) è andata perduta. La maggior parte delle iniziative celebrative del darwinismo che si sono svolte nel 2009 hanno avvalorato indebitamente l’idea che la scienza sia l’unico orizzonte conoscitivo dotato di validità (e con ciò si è continuato ad attribuire agli scienziati un potere sociale che loro non spetta) e hanno contribuito a indebolire la valenza di ogni ricerca di senso di carattere antropologico, filosofico, teologico.
Sotto questo profilo, l’anno darwiniano è stato un fallimento. E’ una fortuna che sia arrivato alla fine.
«Avvenire» del 31 dicembre 2009