30 maggio 2009

Chi più stupra vince la partita: così i media "vendono" l’orrore

Videogame dove ogni omicidio fa punti, film "monstre" per teen ager. Un saggio del criminologo Ceretti: "Attenti al fascino della malvagità"
di Tommy Cappellini
E stupra che ti passa. Questo devono aver pensato alla Illusion Soft di Yokohama i soliti programmatori giapponesi bulimici di manga erotici e poco altro. E allora si sono messi lì e hanno inventato e realizzato Rapelay, un videogioco il cui nome è tutto un programma: rape è stupro, e replay è replay. Traduzione: vince chi stupra di più. Ci sono anche dei benefits per gli stupratori più entusiasti e per quelli che riescono a far abortire le vittime, giusto per evitare vendette. Bene. Dopo tanti videogame basati sull’«ammazza-squarta-staccagli la testa-tiralo sotto con l’auto», questo potrebbe essere un delicato passo avanti nella formazione morale ed estetica dei videogiocatori e della civiltà tutta, anche se alla Illusion Soft vi diranno che questa ironia è fuori luogo, la civiltà non è affare loro e che «business is business». E poi, non ha niente di meglio da fare il Parlamento italiano, che c’è la crisi? Perché perde tempo a discutere se vietare o meno questo Rapelay, peraltro già censurato in Spagna, Germania, America e Gran Bretagna?
Come se prima non ci fosse stato Alemanno. Criticato da tutti per aver puntato il dito contro la fiction Romanzo criminale, accusata di favorire sul velluto - via mimesi, à la René Girard - comportamenti violenti. Fiction tra l’altro visibile solo su Sky. «L’arte non si censura! Così si censurerebbe anche Arancia meccanica!». Nessuno, però si è chiesto se Romanzo criminale fosse davvero questa opera d’arte insostituibile e non un semplice prodotto mediatico: portatore, però di fascinosa quanto inutile violenza. Ad ogni modo, gli attori della fiction hanno pubblicamente raccomandato di non imitare quel che loro si sono prestati soltanto a recitare. Comunque nulla a confronto di San Valentino di sangue 3D: tra i film più visti dell’ultimo mese. Schizzi di sangue e colpi d’ascia che vi piombano direttamente addosso: vi abbracciano, quasi.
Entriamo nell’argomento: la violenza è virale? Si propaga forse per contagio, come volevano gli psicologi comportamentisti e come a volte si sperimenta dal vivo durante certe manifestazioni (in Occidente) o certi linciaggi (in Oriente) o certe aggregazioni facinorose (su internet)? I mass media possono ritenersi sempre autorizzati a rappresentarla? Siamo sicuri che allenarsi a stuprare «virtualmente» a casa propria con tastiera e mouse non abbia qualche micro o macro conseguenza nel mondo reale?
È appena uscito Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina, pagg. 432, euro 29), un esteso saggio che indaga con quali parole e quali fantasie chi mette in atto la violenza narra a se stesso i propri gesti. Ceretti è professore ordinario di criminologia alla Bicocca di Milano, si è occupato del massacro di Novi Ligure e di quello di Jucker, ed è da anni mediatore tra i rei e le vittime dei reati. Gli abbiamo sottoposto i nostri dubbi. «Se la violenza è virale?», ci risponde. «Se i mass media la fomentano? Il presidente americano Lyndon Johnson spese un milione di dollari per finanziare una commissione che rispondesse precisamente a questa domanda, e la questione è ancora aperta. Tutto dipende dalla “matrice simbolica” di chi sta davanti allo schermo, del cinema o del pc: intendo il filtro che ciascuno fa attraverso il suo sé di tutti i significati del mondo. È però chiaro che oggi sono disponibili numerosi percorsi di “violentizzazione” attraverso prodotti mediatici, sebbene alla fine sia il concreto contatto con la violenza - di un famigliare, dei coetanei - la goccia che porta la fantasia interiore a diventare atto reale. Posso guardare un film violento, ma fino a quando non ci sarà qualcuno in carne e ossa che mi indichi che proprio quel modo violento è il migliore di tutti per risolvere i conflitti, difficilmente passerò all’azione. Tuttavia... I mass media rafforzano tantissimo questo modo di essere, per osmosi emotiva e intellettuale. Abbattono un argine dopo l’altro. Ho fatto il giudice minorile per anni e ho visto la violenza degli adolescenti spostarsi dai ceti deprivilegiati a quelli medi: fruitori, per noia, per depressione, per mancanza di un futuro credibile, di prodotti mediatici basati su comportamenti asociali. Non è un caso. So che alcuni degli attori di Gomorra, un film in cui i protagonisti hanno una visione abominevole del mondo, sono diventati davvero delinquenti. Un caso anche questo?».
Senza voler tirare in ballo l’insolubile e paolino dilemma della predestinazione - se si nasce già «segnati» verso il bene e verso il male - occorre però far mente laica e locale. Difendere la libertà, anche quella con la «l» minuscola che ha inventato lo stupendo e stupido motto «O pensi che tutti siano liberi di fare quello che vogliono o hai torto»? Oppure virare verso il duo de Maistre-Cacciari, «l’uomo è troppo cattivo per essere libero»? Come dire, chiunque guarda una donna per desiderarla, in cuor suo ha già commesso adulterio?
Sì, e il mercato è ben cosciente di questo. Tant’è che la Rockstar Games ha eliminato dal suo nuovo videogioco Grand theft auto IV, prima di rilasciarlo, la possibilità di fare sesso con qualsiasi cosa si muovesse sullo schermo, bambini e animali inclusi, per non alimentare pedofilia e altre aberrazioni. Ha lasciato attiva solo la possibilità di accoppiarsi solo con prostitute consenzienti. «Questo perché - ci spiega Ceretti - il mercato attinge senza remore dall’immaginario collettivo generato dal nostro tempo, e produce soltanto ciò che si vende, ciò che riesce a “passare”. Alla fine guardacaso “passa” una visione non bella dei rapporti personali. Ci sono delle frontiere mobili che stiamo lentamente spostando, verso il peggio. Chi è fuori dal pericolo, se ne accorge, e subito. Ma chi è nel mercato no, e razionalizza certe scelte con inammissibili motivi, come quello che questi videogiochi o queste fiction possano esorcizzare o neutralizzare alcune fantasie».
In un romanzo di Isaac Bashevis Singer, il protagonista adolescente si ribella al proprio padre: «Ma chi ha detto che gli ebrei devono portare la barba?». «Nessuno - gli risponde pacato il genitore. Ma oggi ti tagli la barba e domani vai a letto con una donna sposata». Già si sente in questa risposta tutta l’amarezza di chi prevede un mondo dove gli atti esteriori, e non solo quelli interiori, «virtuali», non conteranno più nulla.
«Il Giornale» del 30 maggio 2009

La crudeltà non è in video ma nei cuori

di Claudio Risè

La rappresentazione della violenza la moltiplica? Dunque riducendo le immagini violente, la loro riproduzione mediatica, nei video, film, o narrazioni varie, potremmo costringerla a contrarsi, a sparire? Se fosse così, sarebbe bellissimo. Un po’ di buona volontà, di cooperazione, qualche leggina, qualche regolamento... e oplà, la violenza non c’è più, sparita, come le galline dai cappelli dei prestigiatori estivi negli alberghi delle Dolomiti, quando ero bambino. E, appunto, il prestigiatore in cambio di un gelato mi nascondeva sotto al tavolo, perché vi aprissi una botola e facessi scappare la gallina rinchiusa nel cilindro appoggiato sopra. Sono passati troppi anni, i prestigiatori mi hanno annoiato con le loro storie, sono vecchio, devo dire ciò che vedo. Osservo allora che la violenza, purtroppo, ha ben poco a che fare con la sua spettacolarizzazione. Non nasce dai video, o dalla carta stampata, ma dal cuore dell’uomo, come si era intuito da sempre, e soprattutto negli ultimi due millenni (quelli dopo Cristo).
Sarebbe come dire che il consenso a Berlusconi nasce dai video. In realtà i video, quelli Tv, o dei giochi, o dei computer non creano nulla; si limitano a mostrare ciò che di bene o di male già esiste nelle tendenze delle emozioni umane. Violento non diventerà necessariamente quello che vede troppi video horror, che comunque non aiuteranno la sua educazione sentimentale. Rischia invece di diventarlo quello che ha sperimentato la violenza distruttiva nella sua infanzia. Fin da quando era nella pancia della mamma, circondato da figure genitoriali inaffidabili, fuori controllo, a loro volta violente come dimostrano innumerevoli lavori sulle esperienze prenatali e perinatali.
La violenza, come si spiega anche in Cosmologie violente (di cui si parla qui accanto), nasce dalla paura. Se temi di essere ucciso, sei pronto a sparare per primo; è il famoso «colpo in canna» autorizzato dalla legge sulle armi americana. Ma il luogo di incubazione delle prime, profondissime paure, e quindi dei più profondi nuclei di violenza, è addirittura (non casualmente se si pensa al numero degli aborti) la pancia della madre. La psicoanalisi ha abbondantemente osservato come il mito del diluvio universale (presente in gran parte delle culture), venga associato alla rottura delle acque amniotiche. Episodio, questo, vissuto come una grande violenza, che si conclude con l’altrettanto violenta espulsione dal corpo della madre, in cui per lunghi mesi si era sviluppata la vita, ed anche le prime strutture della persona umana (a questi forti scenari è dedicato, tra l’altro, il recente L’origine della paura, Edizioni Magi, dello psicoanalista svizzero Franz Renggli).
Il fatto che la paura, e la violenza che essa genera, affondino le loro radici nel corpo (e nel cuore che le conserva), non offre dunque ricette facili. In compenso, però, ci può liberare da alcuni problemi inutili. Confermandoci, per esempio, che la violenza c’entra poco coi discorsi, ed anche con le immagini. È meno un problema del Ministero della Cultura insomma, di quanto lo sia di quello della Sanità, e naturalmente della Giustizia. Giustamente il diritto postmoderno non bada alle sensibilità, ma alle vie di fatto. Aiutare davvero le donne che non vogliono abortire, curare veramente i folli, garantire la sicurezza dei cittadini, sono tutte iniziative che, proteggendo i corpi degli esseri umani, affrontano la violenza, più di mille discorsi sulle diverse violenze mediatiche.
Bersaglio della violenza sono i corpi. Proteggiamoli, mettiamoli in sicurezza, e ridurremo la violenza.

«Il Giornale» del 30 maggio 2009

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