01 maggio 2009

Laicità? Ma l’hanno inventata i cristiani...

Una parola il cui vero senso è snaturato: dalla distinzione dei ruoli all’agnosticismo «a priori». Un saggio del vescovo Fisichella
Di Rino Fisichella
«Lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità; deve senz’altro adoperarsi per difendere le minoranze, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza del Paese, che ne rappresenta storia, tradizione, identità»
L’aggettivo laikós indicava o­riginariamente un membro della Chiesa, che fa parte del laós tou theou, il «popolo di Dio». Ciò è ancora più evidente se si con­sidera la traduzione latina del termine, che non è il generico populus, bensì plebs, che indicava specificamente la comunità cristiana.
L’inevitabile evoluzione del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche – particolarmente, in questo caso, le divisioni provocate all’interno della comunità cattolica dalla Riforma protestante nel XVI e XVII secolo –, ma anche e soprattutto dell’orizzonte culturale a essa sotteso. Si è così progressivamente giunti a identificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiungere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede.
In entrambi i casi, l’autentico significato del termine, per come si è evoluto nel corso dei millenni, è stato snaturato. Se da una parte, infatti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettivamente alla Chiesa e allo Stato, è invece difficilmente condivisibile la tesi secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti. Questa posizione si può riassumere con la massima di Ugo Grozio, fatta propria, quasi fosse una formula magica, dal movimento secolarista, il quale però ne ha corrotto il significato originale: etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse». Analogamente, è assurdo temere che la verità della fede possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la verità, e fa meraviglia che i fautori di tali posizioni non ne siano coscienti.
Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità» – è bene ribadirlo –, in ambito sia filosofico sia politico, è solo perché nel cristianesimo si erano precedentemente sviluppate le forme concettuali ed espressive che ne permisero il comune riconoscimento, nonostante l’uso ambiguo e spesso strumentale a cui il termine è soggetto. Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezione, non per orgoglio – anche se avremmo tutti i diritti per farlo –, ma esclusivamente perché ci venga riconosciuto un diritto di originalità che non ci può essere sottratto, se non altro per rispetto della verità storica.
Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso di «etica laica». Cosa si nasconda dietro questa espressione è facile immaginarlo, alla luce di quanto abbiamo esposto in precedenza. Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di favorire la scienza e così produrre progresso. Quanto questa visione sia ingenua è evidente. Per sua stessa natura l’etica non ha alcuna colorazione e ogni sua ulteriore qualificazione risulta pleonastica. L’etica, infatti, riconosce il primato della ragione e assieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita personale.
Difendere in ambito politico l’esistenza di un’etica «laica» indipendente dalla «morale cattolica» è giusto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano essere necessariamente contrapposti. Significherebbe non percepire il nesso costitutivo che intercorre tra etica e morale cattolica e creare artificiosamente, e con intenti strumentali, un’inesistente contrapposizione.
Per quanto possa apparire paradossale, oggi gli Stati hanno urgente bisogno di confrontarsi con la que­stione della verità; devono ricercar­la incessantemente e proporla ai cit­tadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamenta­li della persona, come quelli che ri­guardano la vita e la morte. Dinan­zi a quei problemi etici particolar­mente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e special­mente con quella proposta dalla re­ligione, che più di ogni altra confe­risce valore alla dignità della persona.
Il concetto di tolleranza, applicato oggi ai più sva­riati ambiti – si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale –, non è di aiuto per risolvere la situazione conflittuale nella quale ci troviamo. Lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nessuno predilige. Deve senz’altro adoperarsi per riconoscere e difendere le minoranze, anche quelle religiose, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza presente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità.
Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fondamentale attributo. In virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo momento temperandole – le eventuali ingerenze. Non si tratta di una questione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettando i rischi di tale condizione. La Chiesa invece, richiamandosi a principi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti. Ciò non rende una superiore all’altro, ma semplicemente riconosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni.
La cosa può apparire paradossale, e lo è. La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera della politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite. La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può operare. Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta comunque di uno strumento, non di un fine. Ciò che caratterizza la presenza della Chiesa nella società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle eventualità regolamentate dalle leggi emanate dagli Stati, ma va oltre. L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare segno della laicità acquisita dallo Stato, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza congenita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia.
I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coerenti, saranno obbligati, oggi più di ieri, a legittimare la nostra esistenza all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affermare che siamo un’anomalia, una presenza fortuita, accidentale, addirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perché tanto in­gombrante con le sue certezze e i suoi dogmi. La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro principio di tolleranza – espressione genuina di dogmi laicisti – secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblicamente su questioni di carattere sociale ed etico. Non è lontano da questa stessa tentazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Stato etico, che legifera non solo prescindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’ispirazione per i propri interventi legislativi.
«Avvenire» del 31 marzo 2009

Nessun commento: