28 maggio 2009

Ma la poesia è diventata relativista?

di Gianfranco Lauretano *
Nell’interessante dibattito sull’insegnamento della poesia a scuola, ospitato dalle pagine di «Agorà», una questione non è stata ancora posta: la poesia è sempre insegnabile? Si tratta cioè di rovesciare la questione e cogliere le colpe dei poeti. Se infatti parliamo di classici - Dante, Leopardi, Ungaretti - il problema si riduce alla capacità dell’insegnante di proporre ai suoi ragazzi testi acclaratamente validi, non foss’altro che per la tradizione di insegnamento di generazioni di docenti. Diverso è il discorso per la poesia del Novecento: ci sono autori che, pur avendo compiuto la parabola della loro opera e della loro esistenza, ancora non riusciamo a collocare. In Italia abbiamo un problema di canone, non riusciamo cioè a dire quali sono gli scrittori esemplari, quelli che hanno cantato con verità e bellezza l’anima del nostro tempo. Per quanto riguarda la poesia siamo fermi a Montale e Ungaretti i quali, sarà utile ricordarlo, sono nati nel XIX secolo.
Sul dopo non abbiamo idee e le canonizzazioni variano da antologia ad antologia. Eccetto che per la buona volontà di qualche docente e progetto d’istituto, i poeti contemporanei sono assenti dalla scuola italiana. Anche gli autori proposti agli esami di Stato sono sempre gli stessi. È successo qualcosa che ha rotto una continuità. Quando Montale era ancora vivo, la sua opera era già oggetto di studio al liceo e antologizzata sui libri di testo. Una cosa del genere è impensabile per gli autori viventi. Di solito dell’incapacità di individuare un canone si dà la colpa alla scuola e all’università, ed in parte è vero; ma qual è il ruolo negativo dei poeti?
Quando si propone un autore ad una classe di venti-trenta studenti, si capisce bene se esso sia insegnabile o meno. I ragazzi, certo, cercano in una poesia la parola bella, quella particolare intensità di voce e dizione che li possa emozionare e che è tipica della poesia, ma non basta. Cercano anche risposte.
Nell’età dell’adolescenza e della giovinezza, finché la televisione non ha del tutto piallato la ricerca esistenziale, le domande fondamentali di vero, di bello, di giusto, di eterno ancora battono nel cuore della persona: essere giovani tutta la vita significa proprio continuare ad ascoltare quel cuore.
La poesia parla esattamente ad esso, per questo è il campo dell’intelligenza, come diceva Pasolini. Ora, succede che molti poeti non credano più a quelle domande. Si chiama relativismo: non c’è nulla di universalmente valido, neppure le domande di senso. Ma per la poesia , sia per chi la scrive sia per chi la insegna, è una posizione mortale. I poeti reagiscono in modo diverso a questa mancanza: da una parte l’oscurità della poesia di matrice simbolista ed ermetica, che rende incomprensibile il 'messaggio' (questa parola così vituperata), come se attingesse a sfere troppo profonde della psiche; oppure la poesia sperimentale, in cui le tecniche e il gioco linguistico sono centrali, ma che alla lunga rendono tediosa e inutile la lettura; infine la recente proliferazione della poesia da performance, adatta più alle letture pubbliche che al libro, come se il futuro della poesia potesse essere in un adeguamento alla società dello spettacolo anziché un’intelligenza del mondo (e quindi anche ad una critica dello spettacolo stesso, come giustamente avvertiva Cucchi su queste pagine). Tutte strade che rendono la poesia improponibile a scuola, appunto, se non per soddisfare una superficiale curiosità sulle tendenze moderne.
Ma la sostanza della poesia è altrove, sta proprio in quel nucleo di domande fondamentali, antropologiche, a cui la poesia deve tentare di rispondere, o almeno affermare, come faceva Leopardi, per poter tornare ad essere interessante per insegnanti e studenti.
* direttore della rivista «clanDestino»
«Avvenire» del 16 maggio 2009

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