05 maggio 2009

Per la Cassazione far morire è «affare privato»

L’ultima e definitiva decisione della Corte di cassazione a sezioni unite del 13 novembre scorso sul caso Englaro è una decisione di tipo procedurale. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile, perché il soggetto che l’ha proposto – il Pubblico Ministero presso la Corte di appello di Milano – non aveva titolo per farlo, a giudizio della Suprema Corte. Un vizio di procedura, dunque, è quello che conduce alla irrevocabile decisione di sospendere l’alimentazione, affinché Eluana Englaro muoia.
di Marta Cartabia
(professore di Diritto costituzionale Università di Milano-Bicocca)
Come tutte le decisioni, anche quelle procedurali sono frutto delle valutazioni discrezionali del giudice e delle sue interpretazioni. In questo caso, la Cassazione ha escluso che il caso di Eluana Englaro presentasse profili di interesse generale in quanto «viene in rilievo un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come nella specie il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale)» e non invece «un prevalente interesse pubblico solo in ragione del quale si giustifica l’attribuzione di più incisivi poteri, anche impugnatori, al pubblico ministero». Detto in parole povere, la decisione se sia possibile far morire una persona in stato vegetativo permanente è considerata dalla Corte un affare meramente privato, che non riguarda la vita della società.
Questa valutazione presuppone a sua volta che esista «un diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale», che in vero è tutt’altro che pacifico.
Infatti, proprio questo è un aspetto tutto da dimostrare dal punto di vista giuridico. Ci si basa sul presupposto che l’ordinamento riconosca un diritto del singolo alla privacy o all’autodeterminazione così esteso dal punto di vista dei contenuti da ricomprendere anche il diritto a lasciarsi morire, e così ampio dal punto di vista soggettivo da spettare anche ai soggetti incapaci di intendere e di volere, come Eluana Englaro.
Il diritto all’autodeterminazione del soggetto incapace: un ossimoro, se non fosse affermato dalla Suprema Corte di cassazione.
Per la verità che il caso Englaro stesse imboccando questa strada era già chiaro dalla precedente sentenza della Corte di cassazione, sezione I civile dell’ottobre 2007. È in quell’occasione che le autorità giudiziarie hanno scelto di impostare la soluzione del caso facendo leva sul diritto all’autodeterminazione del paziente. A quell’epoca la Corte di cassazione aveva davanti a sé altre alternative, perché le si chiedeva in primo luogo di stabilire se si trattasse, nel caso di specie, di accanimento terapeutico. Tuttavia la cassazione, invertendo inspiegabilmente l’ordine dei motivi di ricorso, non ha mai risposto su questo punto, preferendo avventurarsi sul terreno del rispetto della libera autodeterminazione della paziente (incosciente). Nella motivazione della decisione sono stati invocati vari principi costituzionali, numerosi trattati internazionali, e persino molta giurisprudenza straniera ed europea. La ricchezza delle fonti citate non vale però a colmare i salti logici che permangono nel percorso argomentativo della sentenza.
Il punto di partenza del ragionamento giuridico è il principio del "consenso informato", in base al quale ogni malato deve poter essere libero di accettare o meno un determinato trattamento sanitario, dopo essere stato adeguatamente informato dal medico curante. Il fatto è che solo con numerose forzature il caso Englaro può essere fatto rientrare nello schema del "consenso informato". Infatti, il primo nodo da sciogliere è se l’alimentazione e l’idratazione siano trattamenti sanitari, fatto che la sentenza dà per scontato, senza adeguatamente discutere una valutazione che invece appare controversa. Alimentare, sia pur con il supporto di alcuni macchinari, è davvero la stessa cosa che sottoporre a trattamenti sanitari? Il secondo problema è che la paziente non può essere stata "informata" adeguatamente né sugli effetti del trattamento né su quelli della sua sospensione, a causa dello stato in cui versa.
Il terzo e insormontabile problema è che la volontà della paziente – anche a voler ritenere tale ciò che si può desumere dagli elementi portati in giudizio e risalenti a molti anni addietro – non è attuale ed è stata ricostruita in base ad indizi straordinariamente esili, specie se comparati alla gravità della decisione da assumere, che in definitiva è quella se vivere o morire.
A fondamento del "diritto di autodeterminazione sanitaria fino alla morte" si è spesso invocato l’art. 32 della Costituzione italiana. La disposizione costituzionale afferma testualmente che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
È evidente che questo principio costituzionale non contiene una risposta univoca per un caso così particolare come quello di Eluana; da esso si possono ricavare diverse interpretazioni ed è tutt’altro che pacifico che esso implichi necessariamente la libertà di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione, specie se l’esito è la morte e se l’interessata si trova in stato di incoscienza. Forse sarebbe stato opportuno sul punto investire del problema la Corte costituzionale, che invece è rimasta inspiegabilmente esclusa da tutta la vicenda.
A onor del vero la Corte di cassazione, pur avendo imboccato la strada del diritto all’autodeterminazione, aveva poi formulato il principio di diritto in modo molto restrittivo, tanto è vero che all’epoca molti avevano pensato che poi i giudici milanesi, chiamati ad applicare i principi al caso di specie, sarebbero stati costretti a rifiutare l’autorizzazione richiesta dal padre e tutore di Eluana Englaro. Con una certa sorpresa, invece, la Corte di appello di Milano ha rifiutato di ripetere gli accertamenti medici per una verifica delle condizioni attuali della paziente, prima di procedere ad autorizzare la sospensione dell’alimentazione; con sorpresa anche maggiore, ha ritenuto sufficienti le testimonianze di alcune amiche e conoscenti, oltre che del padre di Eluana, per concludere inequivocabilmente che la volontà della malata era di preferire la morte alla vita in stato vegetativo. Molteplici sono, dunque, le forzature dei dati normativi che hanno condotto all’ultima decisione della Corte di cassazione, alle quali si aggiunge l’inspiegabile inerzia del legislatore che avrebbe potuto e, se volesse, potrebbe ancora intervenire con un normativa che stabilisca qualche principio per orientare anche in futuro l’azione dei giudici di fronte a queste situazioni in cui la vita umana appare avvolta dal mistero.
«Avvenire», supplemento «èVita» del 20 novembre 2008

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