29 maggio 2009

Scuola senza poesia, cioè senza storia

di Roberto Mussapi
Ho seguito con interesse il dibattito su poesia e scuola aperto da Davide Rondoni su queste pagine. È una questione seria perché la poesia non è un optional ma una componente del nostro Dna, e non è soltanto un genere letterario, ma, come scrisse per sempre Shelley, anche una dimensione antropologica, una necessità, direi, una fame da parte di chi non scrive. Insomma la poesia è l’insieme dei versi memorabili scritti ma anche l’infinito potenziale di quelli non ancora concepiti, basti pensa che abbiamo avuto il coraggio, cioè la necessità, di scrivere versi anche dopo la «Divina Commedia». La situazione è tragica: la televisione (in blocco quella prevalente e più forte) non considera la poesia una realtà, ma una strana disciplina paraaraldica, una sorta di innocente massoneria tra l’enigmistico e il beato. I giornali, nella stragrande maggioranza, fanno peggio: hanno imposto il luogo comune che i poeti sono Fabrizio De André, Ligabue e vari altri loro colleghi canterini. La stampa in gran parte diseduca, la televisione, con i talk show, le veline, i pagliacci vestiti da guru, ha già da tempo operato il suo sterminio a livello di cellule. La scuola dovrebbe resistere. Ma come è possibile? Che ne sanno gli insegnanti? Che cosa gli hanno insegnato all’università?
Come si regolano su antologie che nella sezione epica, accanto a Omero, mettono un cantautore milanese? Ma il problema è più grave: la poesia non è una branca dell’enigmistica, né una parente di quello che era il diario sentimentale un tempo e oggi Maria de Filippi.
Non è quella roba. È una strana realtà (sì, realtà) in cui fisico e metafisico s’intrecciano indissolubilmente, e misteriosamente, ma con la misteriosità magica del tappeto persiano. È l’espressione di domande e realtà astoriche e immateriali attraverso una lingua storica che agisce in un tempo e una realtà anche materiali. Quindi è indissolubilmente legata alla storia (se la storia è avventura e mito) alla filosofia (se questa è conoscenza in moto), alla fisica (se questa è brivido della scoperta), all’aritmetica (quando si manifesta come mistero pitagorico, adombrando la perfezione astrale del verso). Come può questa scuola parlare di poesia se presenta una storia demitizzata (dove sono Alessandro Magno, Colombo, Carlomagno, il Saladino?), una filosofia orientata al marketing, tendente alla psicologia aziendale, una fisica di formulette? La poesia non è una 'materia' o 'disciplina'come invece queste sono, ma semmai è il loro collante, e il segreto che le ha fatte e viste nascere. Se la scuola non può parlare con stupore, avventura, incanto, sgomento, rapimento del mondo, a che serve, in quella scuola, la poesia, messa in un angolo umiliata? Come può la nostra attuale scuola parlare di poesia se non è in grado di affrontare qualcosa di pari alla vita?
«Avvenire» del 23 maggio 2009

Nessun commento: