22 giugno 2009

Galileo, Chiesa ed etica pubblica in Italia

Di Pietro De Marco
L’intervento che Adriano Prosperi ha riservato al caso Galileo su «Repubblica» del 30 maggio (su cui già è intervenuto qui Andrea Galli), in concomitanza con il dibattito conclusivo del Congresso fiorentino sullo scienziato del ’600, adottava qua e là toni cupi; sentiamo rumor di catene (non è la prima volta) che si prolungano dal carcere­tribunale dell’Inquisizione al Concordato alla odierna violenza su «immigrati, malati, morenti» (!). D’altronde il processo a Galileo è storia di violenze e astuzie, di volpi e leoni, spiega lo storico ai lettori. Fu forse così, anche se non saprei come collocare in un tale quadro il Bellarmino, intelligenza di superiori capacità chiarificatrici e grande anima, come rivela la sua produzione spirituale. Ma questo aspetto sarebbe relativamente poco importante.
Va invece respinta la riproposizione in Prosperi di una vecchia tesi anticattolica, che prende forma nel «primo Risorgimento» e risorge col «secondo», talora con l’acritico consenso del cattolicesimo liberale: il processo Galileo sarebbe la chiave, non solo simbolica, per intendere la storia d’Italia. Propriamente per intendere la nostra decadenza e arretratezza, quella dei «secoli della Controriforma» come quella di oggi; infine la nostra civica inconsistenza, l’immoralità pubblica, la sudditanza al governo religioso delle coscienze, la nostra stessa irreligione. Tesi e immagini dell’Italia che, qualche lettore si stupirà, hanno una prima origine nella controversistica protestante e precedono il caso Galileo. Tesi che, comunque vengano riformulate, vanno dichiarate infondate. Infondate, anzitutto, quanto al presente; solo il moralismo di un’intelligentzia che disprezza l’uomo comune può credere che abbia fondamento obiettivo l’immagine di una società italiana civicamente inconsistente, irreligiosa ma cattolicamente conformista, simulatrice e dissimulatrice, governata dai preti per interposta persona. Infondate nell’assegnare alla dominante cattolica un’arretratezza (già nell’età moderna), che oltre mezzo secolo di storiografia degli Stati italiani preunitari ha mostrato in molti casi inesistente, comunque non correlata alla dominante cattolica. Mal posta la tesi della decadenza, specialmente controevidente quando essa nega all’Italia un ruolo eminente in Europa, non solo nelle lettere e nelle arti (ove l’Italia, anzi, godrà di un durevole primato) ma anche nelle scienze, nonostante il peso oggettivo della condanna di Galileo. Vi sono, tuttavia, anche forti obiettivi civili che impongono di contrastare queste retoriche sull’Italia moderna e contemporanea: non solo esse inquinano di semplificazioni grossolane e spiriti anticlericali il dibattito pubblico, ma impediscono oggi che la coscienza nazionale recuperi a sé l’integrità della storia d’Italia.
Non è riuscita a nessuno (né ai liberali, né ai fascisti, né ai comunisti) la costruzione di una memoria identitaria spaesata, paradossalmente incoerente con quanto la semplice visione delle nostre città storiche ci ricorda ogni giorno. La memoria di una nuova Italia dovrà essere, al contrario, pacificata e ricomposta con l’evidenza del suo valore passato; di quel passato che si stende al di là del diaframma ideologico della «serva Italia» e delle invettive del «libero pensiero». Per questo l’amplificazione neo­risorgimentale del caso Galileo è un ostacolo, non un contributo, alla desiderata crescita civile.
«Avvenire» del 4 giugno 2009

Nessun commento: