14 giugno 2009

Un quinto centenario da «non» celebrare: la nascita di Giovanni Calvino (1509-2009)

di Roberto Spataro
Nel 2009 ricorre il quinto centenario della nascita di Jean Cauvin — nato in Piccardia, in Francia, nel 1509, e deceduto a Ginevra, in Svizzera, nel 1564, in lingua italiana noto con il nome umanistico di Giovanni Calvino —, il fondatore delle comunità cristiane riformate. Non è inverosimile pensare che numerose celebrazioni, anche d’indole ecumenica, saranno tenute per commemorare questo avvenimento. Infatti, già nel 1983, in occasione del quinto centenario della nascita di Martin Lutero (1483-1546), nel mondo cattolico si sono registrate sorprendenti attestazioni di apprezzamento per l’autore della Riforma protestante, spesso associate a un contrito mea culpa per l’atteggiamento di biasimo e di condanna che, per secoli, aveva caratterizzato la valutazione della Chiesa Cattolica nei confronti dell’ex monaco agostiniano, iniziatore di una radicale reinterpretazione della fede cristiana e di un dolorosissimo scisma (1). È auspicabile che nel 2009 non si ripetano le medesime ingenuità, ispirate da certo irenico ecumenismo, e che non si giunga a una sorta di beatificazione postuma di Calvino (2). Non vi sono ragioni per manifestare alcuna forma di entusiasmo nei suoi confronti. Al contrario, sono numerosi i motivi che rendono inopportuna ogni forma di celebrazione e, tutt’al più, sarebbe ragionevole che, almeno all’interno della Chiesa Cattolica, si lasci passare sotto silenzio questo quinto centenario. Ricordiamo tre motivi per evitare di «festeggiare» la nascita di Calvino.

1. Violenza e intolleranza
Calvino fu un uomo duro e intollerante. A Ginevra egli introdusse un’organizzazione teocratica della comunità cristiana abolendo, di fatto, ogni forma di distinzione fra dimensione civile e religiosa e imponendo una legislazione opprimente (3). Vale la pena di ricordare gli avvenimenti, per quanto siano abbastanza noti. Nel 1536 Calvino, in visita a Ginevra, accetta di sostenere i riformatori locali e viene nominato professore di teologia e predicatore. Due anni dopo, però, è espulso dalla città per le sue posizioni estremiste. Viene richiamato nel 1541 e vi rimane fino alla morte, avvenuta nel 1564. Il regime teocratico che instaura governa la città attraverso una serie di ordinanze che prevedevano severe punizioni non solo per deviazioni dottrinali ma anche per atti quali la danza, il gioco, la vendita e il consumo di birra. Il governo viene affidato alla responsabilità ministeriale dei quattro ordini introdotti da Calvino: pastori, dottori, anziani e diaconi. Il Concistoro, composto dai pastori e da dodici anziani eletti dalle autorità civili, diventa una sorta di suprema corte, giudicante finanche la vita privata dei cittadini. Una cappa, plumbea e asfissiante, cala su Ginevra. Molte sono le vittime del sistema calvinista.
A scopo di controllo si compiono più volte all’anno visite a domicilio e all’occorrenza si ricorre anche alle denunce e allo spionaggio prezzolato. I trasgressori vengono colpiti da ammonizioni, deplorazioni e scomuniche — esclusione cioè dalla sacra cena — e obbligati a far pubblica penitenza. I grandi peccatori, come i sacrileghi, gli adulteri e gli avversari ostinati della nuova fede, sono consegnati al consiglio cittadino per la punizione. Vengono eseguite molte condanne a morte — cinquantotto fino al 1546 — e più ancora all’esilio. La tortura è usata nel modo più rigoroso. La città deve sottomettersi, seppure di malavoglia, alla disciplina ferrea di Calvino. «Tutte le feste religiose scompaiono, eccettuate le domeniche [...]. La vita della società ginevrina acquistò l’impronta di una tetra serietà: le vesti di lusso, i balli, il gioco delle carte, il teatro e simili divertimenti erano severamente condannati» (4).
La lista delle vittime è tristemente lunga: il predicatore Sébastien Châ-tillon (1515-1563), biblista che proponeva un’interpretazione del Cantico dei Cantici sgradita a Calvino, è costretto all’esilio; il medico Girolamo Bolsec (m. 1584), un ex-monaco carmelitano apostata che aveva osato contestare la dottrina della predestinazione insegnata da Calvino, viene espulso dalla città nel 1551. Non si tratta solo di questioni squisitamente teologiche. Essendo stato bandito il gioco delle carte, perché ritenuto frivolo e immorale, Pierre Ameaux (m. 1552), che aveva anche richiesto al Concistoro il divorzio dalla moglie, viene ridotto in stato d’indigenza: suo mestiere era appunto la vendita delle carte da gioco. Spinto dalla dispe-razione, pronunzia parole offensive contro il regime puritano di Calvino. Viene incarcerato e, nonostante avesse responsabilità all’interno della comunità riformata ginevrina, per disposizione del Concistoro è sottoposto a una punizione umiliante la sua dignità: «In data 8 aprile 1546, il Consiglio pronunciò la seguente sentenza: “Avendo visto il contenuto delle risposte, dalle quali ci sembra che egli [Ameaux] abbia malvagiamente parlato contro Dio, il Magistrale e il ministro Calvino ecc. […] si ordina che sia condannato a fare il giro della città in camicia, a capo scoperto, con una torcia accesa in mano e che poi venga innanzi al tibunale a invocare misericordia da Dio e dalla giustizia, in ginocchio, confessando di avere mal parlato, condannandolo inoltre a tutte le spese, e che la sentenza sia resa pubblica”» (5).
L’affaire Perrin è sintomatico della situazione imposta a Ginevra da Calvino e dei metodi adoperati per reprimere ogni forma di dissenso. In questo episodio, infatti, si ritrovano tutti gli elementi che concorrono a mostrare il volto del «riformatore»: proibizione dell’espressione delle gioie più umane, come la danza in occasione di un matrimonio, carcere, esilio e anche spargimento di sangue. Protagonista ne è Ami Perrin (m. 1561), che pure inizialmente era stato un sostenitore di Calvino. Questi i fatti: in occasione di un matrimonio fra giovani di distinte famiglie borghesi, si festeggia con un ballo. Il Concistoro convoca tutti i partecipanti che, per paura, respingono l’accusa, eccetto due di essi, fra cui Perrin, che è costretto a fare ammenda del «crimine» commesso. Sua moglie, però, Franchequine Perrin, figlia di François Faivre, personaggio altolocato a Ginevra, continua a protestare pubblicamente e, provocatoriamente, a danzare. Poiché gode dell’appoggio di molti cittadini, stanchi delle vessazioni del Concistoro, compaiono anche scritti anonimi contro Calvino e i suoi partigiani. Infuriato, questi ordina una perquisizione in casa di uno degli amici delle famiglie Perrin e Faivre, Jacques Gruet (m. 1547). All’interno vengono trovati materiali compromettenti, cioè quaderni e annotazioni polemiche verso il regime teocratico di Calvino. La punizione è implacabile: condanna a morte per decapitazione.
Il caso più noto è quello di Michele Serveto (1511-1553), il medico spagnolo che negava il dogma della Trinità. In territorio francese, a Vienne, egli è sottoposto a un processo da parte dell’Inquisizione cattolica che adopera materiale fornito, segretamente, da Guillaume de Trie (1521 ca.-1561), un amico di Calvino, che già nel 1546, in una lettera al riformatore francese Guillaume Farel (1489-1565), aveva scritto: «Se verrà qui, posto che la mia autorità abbia un peso, non tollererò che se ne vada vivo» (6). Benché condannato in Francia, Serveto, probabilmente con la dissimulata accondiscendenza del blando tribunale inquisitorio cattolico, fugge e si rifugia proprio a Ginevra, ove, riconosciuto, viene immediatamente condannato a morte e arso vivo, nel 1553. Il ruolo giocato da Calvino in questa vicenda mostra lati umani veramente riprovevoli: non solo fanatica intolleranza, ma anche ricorso allo spionaggio, spirito vendicativo e, a vicenda conclusa, menzogneri tentativi di ritrattazione delle sue re-sponsabilità. «La cosa più triste in tutto ciò, conclude lo storico protestante Auguste Lang [1867-1945], è che nella sua Difesa contro Serveto, apparsa nel febbraio 1554, Calvino non ebbe il coraggio di confessare il ruolo che aveva avuto nell’imprigionamento di Serveto a Vienne. Afferma seccamente, in questo scritto, che è una frivola calunnia accusarlo di aver consegnato l’infelice ai nemici mortali della fede» (7).

2. Una personalità inquietante
Il governo teocratico di Calvino non sopravvive a lungo, anche se a esso s’ispirano le comunità riformate che si diffondono stabilmente in molti paesi d’Europa. Al di là dei successivi sviluppi, quanto avviene a Ginevra negli anni 1541-1564 mostra tratti della personalità di Calvino che confermano l’inopportunità di ricordare la nascita di un uomo orgoglioso e ambizioso. «[…] fu orgoglioso, collerico e vendicativo.“Io non so, dice Renan [Joseph Ernest (1823-1892)], se sia possibile trovare un esemplare più completo di uomo ambizioso, desideroso di far dominare il suo pensiero perché lo crede vero, […] tutto [è] sacrificato al desiderio appassionato di formare gli altri a sua immagine”» (8).
I tratti negativi della personalità di Calvino, drammaticamente espressi nell’imposizione della tirannia religiosa a Ginevra, oscurano il suo approccio alla Rivelazione cristiana e la Parola di Dio viene asservita ai suoi fini iconoclasti e non servita con devota e religiosa fedeltà, come la storia della santità cristiana mostra negli autentici riformatori. «A parer nostro, tutto Calvino è in questa dottrina cupa e desolante, ci sembra uno scolastico a cui gli umanisti abbiano insegnato a scrivere, tutto irto di argomentazioni, tutto rinsecchito dalla mania di raziocinare, spirito falso, poco originale, testardo nelle scelte adottate, cieco nelle opinioni che ha respinto, carattere teso, aspro, tenace, dominatore, saccente nell’imporsi con l’intransigenza dei princìpi, l’algebra dei ragionamenti, la regolarità esteriore della vita, una maschera affetta da puritanesimo severo e compresso, e infine e soprattutto mediante il prestigio allora onnipotente della parola di Dio, contenuta nella Scrittura, di cui citava inin-terrottamente gli oracoli, con un tono dogmatico e perentorio, per appoggiarvi le più piccole affermazioni e per autorizzare ogni minimo gesto. Nessuno ha abusato a tal punto del ruolo di profeta, d’interprete infallibile del pensiero e della volontà di Dio. Ha regnato attraverso il terrore religioso» (9).
Secondo gli storici Pierre Jourda (1898-1978) ed Edouard de Moreau S.J. (1879-1952) «c’è qualcosa di duro nel suo carattere [...]. Di qui l’orgogliosa certezza che egli ebbe, fin dal 1536, di essere in possesso della verità, ed anche le sue collere, i suoi rifiuti di scendere a discussioni, il disprezzo per i suoi avversari, la facilità a coprirli di ingiurie spesso grossolane, quando poi non si trattava di odio e dei rigori ch’esso trae seco» (10).
La pretesa di riformare evangelicamente la Chiesa è originata da un inconcepibile atteggiamento: secoli di storia del dogma, insegnamento costante del Magistero, sensibilità religiosa della pietà popolare vengono spazzati via in nome del verbo calvinista, che rappresenta un travisamento e un tradimento del Vangelo stesso. «E si resta confusi, aggiungeremmo noi, dall’audacia orgogliosa di quest’uomo che si sostituisce così tranquillamente e senza rimorsi a una Chiesa plurisecolare, ai Padri, ai concili, ai papi, e che, in nome della sua autorità recente, condanna, uccide, scatena la guerra, rendendola inevitabile, e infine muore facendosi testimone di se stesso dinnanzi ai ministri riuniti. Ecco ciò che sicuramente è più grave di un’avventura scabrosa o di un gusto troppo pronunciato per il buon vino. Calvino ebbe l’animo di un settario più che di un apostolo» (11).
L’implacabilità con la quale Calvino impone la riforma nasce dalla convinzione di essere un «unto», in possesso della pienezza della verità, coincidente con le sue idee. Di qui l’odio settario e la prevaricazione adoperata per perseguire le sue finalità. «Egli non è un riformista, ma un rivoluzionario. È di un radicalismo terribile, nutrito, sul piano emotivo, dalla sua irritabilità e dalla sua violenza appassionata, e, sul piano intellettuale, da un temperamento dialettico e deduttivo ulteriormente affinato nel corso degli studi. Analizza e deduce implacabilmente. Segue il suo pensiero in modo lineare, rifiutandosi e non pensando affatto a comporlo con altri aspetti della realtà. In ogni cosa ricerca atteggiamenti onnicomprensivi: questo è il comune denominatore di tutte le sue lotte di Ginevra» (12). Si tratta di una convinzione pericolosa.
E infatti le comunità riformate furono caratterizzate da un ostile e rabbioso livore anticattolico. I martiri cattolici torturati e giustiziati durante le persecuzioni perpetrate dai calvinisti costituiscono una pagina cospicua del martirologio e inducono a una silenziosa riflessione in questo quinto centenario della nascita di Calvino. I calvinisti olandesi e gli «ugonotti» francesi si macchiano di crimini efferati contro quanti desiderano conservare la fede dei loro padri. Le cronache riportano episodi raccapriccianti: preti crocifissi, sventrati per poi riempire il cadavere di avena data in pasto agli animali, esecrabili mutilazioni del corpo. Orrori, questi, associati alla dissacrazione di chiese, d’immagini venerate e persino delle realtà più sante: si diede pure il caso dell’Eucaristia data in pasto a una bestia (13). I germi infettivi di questo anticattolicesimo animato da tanto odio e poi espresso in efferata violenza sono radicati nel pensiero e nell’esperienza religiosa di Calvino.
Ecco una sintesi del pensiero del riformatore piccardo sulla Chiesa Cattolica. «È una “consorteria di preti perversa e fatta di menzogne” che pratica, al posto della Cena “un sacrificio abominevole” e che si compiace di “superstizioni infinite”: le sue “riunioni pubbliche sono come scuole d’idolatria ed empietà”. Ci si può separare da essa senza scrupolo né timore. “È più un’immagine di Babilonia che la Città santa di Dio”. Ora, se è cosa notoria che vi regna l’Anticristo, dobbiamo da ciò inferire che sono Chiese di Dio dal momento che la Scrittura predice ch’egli sarà assiso nel santuario di Dio. Ma bisogna intendere che esse sono chiese contaminate e profanate dalle proprie abominazioni» (14).
I provvedimenti che lo zelo riformatore di Calvino introduce sono ispirati da una furia iconoclasta tesa a far scomparire ogni traccia della spiritualità e della pietà cattolica per rimpiazzarla con una fede espressa in forme irrispettose della ricchezza di un’autentica antropologia che sapeva valorizzare la sensibilità, le emozioni, la corporeità, insomma «[...] caro salutis est cardo», «[...] la carne è cardine della salvezza» (15). «Calvino ha cura di sopprimere tutto ciò che potrebbe, sia pure lontanamente, ricordare l’idolatria romana: il culto cattolico è scomparso totalmente; le immagini vengono distrutte; i nomi che si impongono ai bambini nel giorno del Battesimo sono tratti dall’Antico Testamento e non più dall’elen-co dei santi. Sono citati in giudizio tutti quelli che nella foga della conversazione si lasciano sfuggire anche la più breve formula che ricordi le antiche abitudini, come capita ad esempio ai mendicanti che chiedono in nome della Vergine che si dia loro un po’ di minestra. Ma non è tutto: chi vende rosari o “candele” (ceri) si vede comminare una multa di dieci soldi. È vietata la vendita di incensieri, di calici, di croci, di ornamenti; è vietato portar ceri a benedire nel giorno della candelora, commemorare le feste segnate sul calendario cattolico, recitare le preghiere in latino e le formule di ringraziamento dopo i pasti o pregare per i morti, “che è cosa terribile e detestabile”. È proibito onorare la Vergine e i santi: verrà espunta la salutazione angelica da tutti i libri di pietà stampati a Ginevra; sarà processata una donna colpevole d’aver pregato San Felice. È proibito osservare il digiuno e l’astinenza, attribuire un qualsiasi merito alle buone opere, contrarre matrimoni misti» (16).

3. Travisamento del Vangelo
Il cristianesimo presentato da Calvino è ancora cristianesimo? A fatica la risposta può essere positiva. Al cuore della sua proposta vi è infatti la dottrina della doppia predestinazione, secondo la quale, essendo tutta l’umanità massa dannata a causa del peccato originale, per un imperscrutabile giudizio divino alcuni soggetti sono destinati all’inferno e altri alla salvezza eterna. Si tratta di una deformazione radicale del Vangelo che pregiudica l’universalità della Redenzione di Cristo, annulla l’annuncio liberante della predicazione apostolica secondo la quale «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi» (1 Tim. 2, 4), immiserisce la speranza cristiana. Questo si legge nella magna charta del calvinismo, la Christianae Religionis Institutio, del 1536: «Noi intendiamo per predestinazione l’eterna disposizione di Dio, in virtù della quale egli ha deciso tra sé ciò che deve accadere, conformemente alla sua volontà, di ogni singolo uomo. Gli uomini non sono infatti tutti creati con lo stesso destino, ma agli uni viene assegnata la vita eterna e agli altri l’eterna dannazione. Or quindi, come il singolo è creato per l’uno o per l’altro fine, così noi diciamo: egli è predestinato alla vita o alla morte» (17).
«Calvino trova magnifica questa concezione di un Dio che crea esseri capaci di pensare, di volere e di amare, avidi di felicità eterna, e che freddamente fa la sua scelta fra di loro, senza alcun riguardo per i loro sforzi, per i loro meriti o demeriti, senza alcuna considerazione per lo sviluppo ulteriore della loro vita, che destina gli uni al cielo — e di conseguenza garantisce loro la fede, la giustificazione, la certezza della salvezza — e gli altri agl’inferi, distribuendo fra loro i vizi, le tenebre dello spirito, la perversione del cuore, per poterli accusare nel momento stesso in cui li condanna! Consacra tutto il capitolo XII a stabilire questo dogma sulla base dei testi di san Paolo e dei commenti di Agostino [Aurelio (354-430)]. Si sforza di provare che la gloria di Dio esige la dannazione di molti» (18).
Insomma, l’intero edificio teologico del cristianesimo viene rovinosa-mente distrutto per far prevalere un’immagine irragionevole di Dio, il cui volontarismo è sinonimo di arbitrarietà se non proprio di malvagità. Scrive Calvino nel libro terzo della sua Institutio: «Non possiamo quindi addurre che un’unica motivazione del fatto che egli procura misericordia ai suoi eletti: perché così gli piace; ma anche per la riprovazione di altri, noi non abbiamo ugualmente alcun’altra ragione che la sua volontà» (19).
Il calvinismo è una religione molto lontana dal Vangelo. Sono gli stessi teologi riformati a rendersi conto dell’assurdità delle credenze di Calvino: «Il calvinismo fu ben presto messo in difficoltà dalla teodicea del riformatore. Il suo Dio era, senza dubbio, una straordinaria mescolanza di nozioni giudaiche di Geova e di pretese concezioni metafisiche sulla sua Prescienza e Provvidenza. In epoca contemporanea, il pastore W[ilfred]. Monod [1894-1940] si è accanito contro questo Dio di Calvino, “Essere arbitrario e capriccioso, crudele e vendicativo”, una sorta di despota dell’antico Oriente, che s’impone con la paura attraverso il cieco esercizio della sua autorità assoluta e che è lontano mille miglia dal Dio del Vangelo […]. M. Vallotton concorda sul fatto che il calvinismo moderno deve rigettare la dottrina del riformatore identificata con la prescienza e la predestinazione, in virtù delle quali Dio ha tutto previsto e voluto, poiché questa formulazione falsamente scolastica fa di Dio l’autore del male» (20).
Difficilmente si possono rintracciare «radici cristiane» nella teologia calvinista.
«Leggendolo, si prova l’impressione ch’egli obbedisca al Dio terribile della Bibbia, al giustiziere geloso, a Jehovah, più che seguire il Salvatore e ispirarsi alla misericordia e all’amore predicati nel Vangelo. Egli oppone in una terribile antitesi il Dio onnipotente, volontà immutabile, eterna, somma e sempre attiva — perché con la sua misteriosa, inintelligibile provvidenza dirige il mondo fin nelle sue più piccole cose — all’uomo-niente, privato della libertà dalla caduta dei suoi progenitori, corrotto dai richiami della carne, schiavo cieco delle sue passioni, spoglio, malgrado il suo folle orgoglio, di ogni merito» (21).
Secondo monsignor Cristiani, «il Dio di Calvino, scrive Henri Bois [1862-1924], professore alla Facoltà di teologia protestante di Montauban, non è altro che un grande egoista. Si preoccupa molto poco delle sue creature. Le loro sofferenze presenti ed eterne non gl’interessano punto. Gl’interessa solo la sua gloria. Se condanna una moltitudine alla perdizione eterna, la loro deplorevole sorte non lo tocca: che importa, se essa vale a mettere in luce la sua giustizia? E se ne destina alcuni al cielo, non è perché semplicemente li ama, senza alcun retropensiero, ma perché a lui ne verrà onore. Sempre la sua gloria. La gloria del suo nome! Non un sentimento disinteressato! Il Dio del Vangelo, il Padre di Gesù, non è un Dio di questo tipo (La Prédestination d’après Calvin, in R[evue]. de métaphysique et de morale, 1918, p. 682)» (22).
Il Vangelo di Cristo propone un comportamento etico fondato sulla libera adesione e non sull’uniformità forzata, che fu esattamente la degene-razione morale provocata dall’imposizione del governo teocratico ginevrino teorizzata negli scritti dottrinali di Calvino. Che cosa rimane del «si vis», «se vuoi», evangelico (Mt. 19, 21) nella Ginevra soggiogata al verbo calvinista? «Ginevra vive sotto il segno della sanzione o della scomunica. Il cittadino è sottoposto alla regola comune e non potrebbe sfuggirvi: costumi, abitudini, divertimenti, pasti, libri, tutto è sorvegliato da vicino. La scuola forma i fanciulli secondo le direttive del capo; la chiesa li guida nel cammino della virtù quando si son fatti adulti — la chiesa, vale a dire Calvino. L’assistenza al culto è obbligatoria e controllata: case e strade devono restar vuote e silenziose nell’ora della predica e della Cena; la polizia svolge al riguardo una stretta sorveglianza. Ma non basta recarsi al tempio: bisogna comportarsi bene e partecipare alla Cena nei giorni fissati dal regolamento. Così bisogna subire le investigazioni del magistrato — vere visite a domicilio — e i suoi interrogatori, subire la sorveglianza di tutti e di ciascuno, genitori, figli, domestici, amici o vicini, sempre pronti a segnalare la più lieve mancanza alla regola. Si è virtuosi, a Ginevra, per convinzione sincera o per forza, perché non si può far diversamente, se non si vuole essere molestati. Unità morale, imposta dalla legge — e dalla polizia —; trionfo della disciplina: impossibilità per chiunque di sottrarvisi» (23).
Il clima di «caccia alle streghe», che come naturale conseguenza rattrista la Ginevra calvinista e la spiritualità puritana ispirata a Calvino, snatura la gioia evangelica e il godimento della creazione, mai del tutto corrotta dal peccato e rinnovata dall’opera della Redenzione. L’anti-vangelo calvinista si sposa e si spiega con la personalità di Calvino, triste e solitario. «Non sapremmo immaginarlo che col viso grave, i tratti austeri, appena animati, in qualche attimo fuggevole, da una nota di ironia sarcastica o di collera, mai da un sorriso spontaneo. [...] È questa tristezza di cui furono segnati i suoi giorni che ha dato alla sua dottrina quel pessimismo aspro e totale che nulla mai poté attenuare» (24).
La Bibbia di Calvino cessa di essere il grande codice teologico e antropologico che ha forgiato la civiltà europea. Si riduce a un codice di leggi. Ammettiamo pure in Calvino sentimenti religiosi di riconoscimento della grandezza di Dio e di sottomissione ai suoi imperscrutabili disegni. È però assente in lui il gaudio dell’abbandono fiducioso in Dio, testimoniato e rivelato da Cristo, la paternità che ama e che chiede amore filiale, che libera e redime. L’Europa contemporanea, smarrita nella sua incapacità di ancorarsi alle radici cristiane che hanno forgiato la grande civiltà umanistico-cristiana, ha bisogno di altri maestri e di altri riferimenti storici e non di un «riformatore» che ha lasciato dietro di sé una triste eredità: fanatica intolleranza, ambiziosa presunzione e tradimento del Vangelo.

NOTE

1) Cfr. l’editoriale Lutero visto dai cattolici ieri e oggi, in La Civiltà Cattolica, anno 134, fasc. 3204, Roma 17-12-1983, pp. 521-538. L’autore sintetizza la posizione assunta da alcuni teologi cattolici in questi termini: «In conclusione, per certi “ecumenici cattolici” non ci sarebbe più contrasto radicale tra la Chiesa Cattolica e Lutero. Il luteranesimo altro non sarebbe che un’espressione di pluralismo teologico all’interno della Chiesa» (ibid., p. 531). Inevitabile la reazione di molti all’interno della Chiesa Cattolica: «Da queste affermazioni, alcuni cattolici traggono motivi di stupore e anche di scandalo. Allora — essi dicono — la Chiesa si è sbagliata quando ha scomunicato Lutero e ha condannato come eretiche le sue dottrine! Oppure la Chiesa si sta protestantizzando, facendo oggi di Lutero — fino a ieri considerato un eretico — un “maestro nella fede”?» (ibid., p. 523).

2) Già nel 1966, poco dopo il IV centenario della sua morte, un orientamento «ecume-nicamente» molto positivo nei confronti di Calvino veniva espresso dal teologo e scrit-tore di origine ungherese Alexandre Ganoczy, Calvino nel giudizio dei cattolici di oggi, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, anno II, n. 2, Brescia marzo-aprile 1966, pp. 48-56. Ispirato da una certa benevolenza verso Calvino è pure don Joseph Dedieu (1878-1960), Calvin et Calvinisme, in Dictionnaire de spiritualité: ascetique et mystique, doctrine et histoire, diretto da Marcel Viller (1880-1952), Ferdinand Cavallera (1875-1944) e Joseph de Guibert S.J. (1877-1942), proseguito sotto la direzione di Charles Baumgartner S.J., vol. II, tomo II, Beauchesne, Paris 1953, coll. 23-50.

3) Alcuni studiosi tentano di mitigare la triste fama della Ginevra calvinista: cfr. Steven Ozment, The Age of Reform 1250-1550. An intellectual and religious history of Late Medieval and Reformation Europe, Yale University Press, New Haven and London 1980, pp. 365-372; Ozment, però, presentando gli avvenimenti che ebbero luogo a Ginevra negli anni in cui Calvino ne fu incontrastato monarca, finisce per smentire sé stesso.

4) Karl Bihlmeyer (1874-1942) e don Hermann Tüchle (1874-1942), Storia della Chiesa, vol. III, L’epoca delle riforme, trad. it., a cura di Igino Rogger, con Prefazione di Vincenzo Monachino, Morcelliana, Brescia 2001, p. 272.

5) Cfr. il documento, redatto nel francese del secolo XVI, in Léon Cristiani (1879-1971), Réforme. V. Calvin et le Protestantisme à Genève, in Adhémar D’Alès S.J. (1861-1938) (a cura di), Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, vol. IV, Beauchesne, Parigi 1928, coll. 622-647 (col. 641).

6) Cit. ibid., col. 643.

7) Ibidem.

8) Alfred Baudrillart (1859-1942), Calvin, in don Jeanmichel-Alfred Vacant (1852-1901), don Eugene Mangenot (1856-1922) e monsignor Émile Amann (1880-1948), Dictionnaire de Théologie catholique, vol. 2, Letouzey et Anê, Parigi 1909, coll. 1377-1398 (col. 1395).

9) L. Cristiani, art. cit., col. 645.

10) Pierre Jourda ed Edouard de Moreau S.J., Calvino e il Calvinismo, in Augustin Fliche (1884-1951) e Victor Martin (1886-1945) (iniziatori), Storia della Chiesa, trad. it., a cura di Aldo Stella (1923-2007), vol. XVI, La crisi religiosa del secolo XVI, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, pp. 225-415 (p. 326).

11) Card. A. Baudrillart, op. cit., col. 1396.

12) Card. Yves Congar O.P. (1904-1995), Calvin, in don Gabriel Jacquemet (1901-1977) (a cura di), Catholicisme. Hier aujourd’hui demain, vol. II, Letouzey et Ané, Parigi 1949, coll. 405-421 (col. 412).

13) Cfr. un riferimento documentario dettagliato ad alcuni degli episodi più tristi della violenza anticattolica scatenata dai calvinisti, in Paul Allard (1841-1916), Martyre. V. Le martyre à l’époque de la Réforme, in A. D’Alès (a cura di), op. cit., coll. 331-492, specialmente coll. 397-402.

14) P. Jourda ed E. de Moreau S.J., art. cit., p. 268.

15) Quinto Settimio Florente Tertulliano (160 ca.-220 ca.), La resurrezione della carne, VIII, a cura di Pietro Podolak, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 56-57.

16) P. Jourda ed E. de Moreau S.J., art. cit., pp. 304-305.

17) Cit. in Erwin Iserloh (1915-1996), L’Europa dominata dal pluralismo delle confessioni, in Hubert Jedin S.J. (1900-1980) (sotto la direzione di), Storia della Chiesa,.vol. VI, Riforma e Controriforma. Crisi-consolidamento-diffusione missionaria (XVI-XVII sec.), trad. it., Jaca Book, Milano 1975, pp. 361-515 (p. 450).

18) L. Cristiani, art. cit., coll. 644-645.

19) Cit. in E. Iserloh, art. cit., p. 450.

20) J. Dedieu, art. cit., col. 44

21) P. Jourda ed E. de Moreau S.J., art. cit., p. 288.

22) Monsignor L. Cristiani, art. cit., col. 645.

23) P. Jourda ed E. de Moreau S.J., art. cit., p. 307.

24) Ibid., p. 326.

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