31 luglio 2009

"Aborto fai da te"

"Si torna ad abbandonare le donne a loro stesse", denuncia la teodem Paola Binetti
Di Giacomo Galeazzi
Medici cattolici: «Dall'Agenzia italiana del farmaco ci attendevamo maggior prudenza»
«Non ne farei una questione di scomunica: non è il modo che cambia la sostanza e l’aborto è sempre sbagliato per un cattolico. Qui si sta andando verso l’aborto fai da te, l’aborto bricolage, che restituisce le donne alla loro solitudine. Si sta riportando l’aborto a una condizione di clandestinità, non legale, ma psicologica, sociale che riconsegna le donne alla solitudine. La casa farmaceutica che produce questa pillola punta alla vendita diretta nelle farmacie». Lo dice la senatrice Pd Paola Binetti, in vista dell’imminente commercializzazione in Italia della pillola Ru486. «Stiamo uscendo da una situazione in cui l’aborto chirurgico è diventato una sorta di aborto sicuro per entrare in un’altra condizione, quella dell’aborto chimico. - denuncia Binetti ad Affaritaliani.it- in cui la sicurezza sembra diventata un optional. Questo tipo di somministrazione prevede che debba avvenire entro la settima settimana, termine al di sotto di quello previsto dall 194. Se però questo termine viene superato si rende necessario un raschiamento e un intervento chirurgico successivo».«La soppressione dell’embrione di fatto è la soppressione di una vita umana: che ha dignità e valore dal concepimento alla fine. E il fatto che assumere una pillola possa essere meno traumatico per una donna non cambia la sostanza: sempre aborto è». Lo afferma mons. Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia della Vita che commenta l’autorizzazione della RU486 sul sito del quotidiano cattolico Avvenire. «Si tratta a tutti gli effetti di una tecnica abortivà e quindi è ovvio che le conseguenze canoniche siano le stesse previste per l’aborto chirurgico», ricorda l’arcivescovo sottolinenando la necessità di «formare la coscienza delle persone, aiutare l’educazione dei giovani, collaborare con la famiglia, la scuola e le istituzioni affinchè le nuove generazioni comprendano il valore fondamentale della vita e quindi il valore dell’affettività, della sessualità e dell’amore nel loro giusto contesto, e non come un capriccio«. Sugli aspetti più teconici sono affrontati sul sito di Avvenire da mons. Elio Sgreccia, presidente emerito del dicastero, il quale ha auspicato »un intervento da parte del governo e dei ministri competenti« a tutela della vita delle madri, perchè «contrariamente a quello che si dice non riduce affatto nè il dolore nè la sofferenza per la donna così come non è vero che non ci sia rischio di vita, come dimostrano le 29 vittime attestate». Si tratta, ha aggiunto, di «una seconda corsia per praticare l’aborto di cui non ci sarebbe bisogno: gli aborti - ha aggiunto - sono già troppi mentre i figli sono pochi e la pillola abortiva grava non solo sulla salute delle donne ma sull’intera società e il suo sviluppo». Il sito del quotidiano cattolico ricorda infine »la posizione della Cei». «Un chiaro no alla pillola abortiva era stato ribadito con forza - scrive - anche dai vescovi nel Consiglio episcopale permanente del gennaio scorso, quando il tema fu sollevato dal presidente, card. Angelo Bagnasco, proprio in apertura dei lavori«. L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII «è in lutto per la morte provocata di 121.000 bambini/e attraverso l’aborto procurato ed è fortemente preoccupata per le loro mamme che pur avendolo formalmente richiesto l’hanno subito». Lo dicono il responsabile generale dell’Associazione, Giovanni Paolo Ramonda, e l’animatore generale del Servizio maternità difficile, Enrico Masini, che commentano poi l’autorizzazione all’uso della pillola RU486, affermando che « questo permetterà la diffusione capillare del primo veleno per bambini, relegando ancor di più mamme e bambini nella solitudine, nella violenza, nell’inganno e nella morte. Come Comunità - aggiungono - vigileremo ora perchè nessuna casa farmaceutica accetti di distribuire questo prodotto agli ospedali». «Sempre più assistiamo ad induzione e costrizione nelle mamme che incontriamo in procinto di abortire», proseguono i vertici della comunità. «Ne è la prova anche il numero sempre maggiore di extracomunitarie che abortiscono, in percentuale molto superiore alle italiane. Tuttavia i dati resi noti l’altro ieri indicano che in Italia per la prima volta dal 1979 i bambini uccisi con l’aborto in un anno sono meno di 130.000. Questo calo non deriva dalla Legge 194, che non ha in sè alcun meccanismo per far ridurre gli aborti. È invece merito di una cultura della vita che in questi ultimi anni - attraverso manifestazioni, campagne, film, pronunciamenti autorevoli - sempre più si sta diffondendo nel nostro Paese facendo prendere coscienza che il bambino nel grembo e la sua mamma non vanno oppressi ma sostenuti e rispettati. I medici, coloro che più dovrebbero tutelare la salute e la vita di questi piccoli, dimostrano oggi di riconoscerne sempre più la dignità dichiarandosi obiettori di coscienza. Purtroppo per aggirare questo fatto l’Aifa ha autorizzato l’uso della RU486».
«La Stampa» del 31 luglio 2009

Battaglie giuste e sparate

La Lega e i dialetti
di Gian Antonio Stella
«Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto», diceva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Gaetano Polverelli, capo ufficio stampa di Mussolini: «L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e servitù». Un ordine insensato. Uno spreco di ricchezze.
Che Luigi Meneghello, autore di libri straordinari e stralunate filastrocche («potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio») avrebbe potuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra all’università di Reading che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’italiano, l’inglese e pure il tedesco» ma che «"l’uccellino" italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’" oseléto" veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». Vale per il dialetto veneto e il siciliano, il sardo e il piemontese. Tutti.
Come dice Ferdinando Camon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putei» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini». Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giusta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di tele- italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata strumentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unitari, per ragioni di bottega. Come è un peccato che un problema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle graduatorie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più rigide e al Sud più elastiche, venga tradotto in un attacco a tutti i docenti meridionali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sembravano) accantonati.
La scuola, come sa chi raggela davanti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Paese in drammatico ritardo (con la luminosa eccezione di alcune regioni settentrionali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terroni »), non ha bisogno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de hoc sec iè car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano care ovunque) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano insegnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italiano... Ha bisogno, insomma, di un salto di qualità. Che recuperando un forte e comune sentire intorno all'idea della Patria, dell'Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all'espressione diretta del cuore».
E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po' più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Jene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell'Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell'America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.
"Corriere della sera" del 30 luglio 2009

Arriva la tv per neonati

Critici esperti e genitori
di Tiziana Lupi
Questa televisione non s’ha da fare. A pochi giorni dall’avvio ufficiale di BabyTv, il grido di allarme si è già levato forte e chiaro. Perché il canale in que­stione, targato Fox e disponibile al numero 620 di Sky da sabato 1 agosto, si rivolge ad una pla­tea a dir poco particolare: quella di neonati e bambini sotto i tre anni. Il lancio del canale ha, per Sky, un valore altamente strategico visto che, in previsione del mancato rinnovo del­l’accordo con RaiSat, BabyTV andrebbe a so­stituire il già disponibile RaiSat Yoyo.
Ma le stra­tegie televisive importano poco a chi, da tem­po, cerca di tutelare i bambini e non è affatto convinto che basti una programmazione «stu­diata da esperti e completamente priva di pub- blicità» a rendere innocuo un progetto che tan­to innocuo non è. Elisabetta Scala, presidente nazionale del Moi­ge ieri ha chiesto che Sky blocchi il lancio di BabyTv e che «le Istituzioni prendano idonei provvedimenti». Per la Scala «non si discute sui contenuti che andranno in onda.
Però voglia­mo richiamare l’attenzione sui gravi rischi i­nerenti la crescita fisica e psicologica di neo­nati e bambini fino ai 36 mesi». Non a caso, ri­ferisce ancora la Scala, a fronte di studi sui «danni che può provocare in bambini così pic­coli l’esposizione alla televisione», l’Autorità per le Comunicazioni francese ha imposto il se­guente messaggio: «Guardare la televisione può frenare lo sviluppo dei bambini minori di tre anni, causare ritardi psicomotori, incorag­giare la passività, causare sovreccitazione e tur­be del sonno». Ma cos’è BabyTv? Il canale è nato nel 2003 in Israele, è già presente in oltre cento Paesi del mondo e, come spiega il comunicato stampa, «offre una programmazione innovativa che u­tilizza il mezzo televisivo per favorire nel bam­bino l’apprendimento e la consapevolezza di sé». Inoltre, «BabyTv è anche un sito internet con giochi formativi da fare insieme, come quiz, puzzle e attività interattive».
È questo, forse, che fa dire ad Antonio Marziale, presi­dente dell’osservatorio sui diritti dei Minori e consulente della commissione parlamentare per l’infanzia : «Non sono contrario a Baby Tv, ma è fondamentale che i contenuti siano mi­nuziosamente controllati da esperti prima del­la messa in onda». Come e più di lui, la socio­loga Marina D’Amato, componente del Con­siglio Nazionale degli Utenti (che però è asso­lutamente contrario al progetto BabyTv), per la quale il canale «si pone come un accompa­gnamento alla crescita, stimolando curiosità e interesse da parte dei piccoli. Uno svago non passivo e senza pubblicità».
A difendere BabyTV, naturalmente, c’è anche Sherin Salvetti di Fox Channels Italy che però, mentre assicura che «l’obiettivo di BabyTV non è quello diventare una baby sitter ma quello di offrire un nuovo spunto di interazione tra ge­nitori e figli», dimentica di citare le ultime ri­ghe del comunicato stampa. Che recitano te­stualmente: «Come in altri Paesi, anche in Ita­lia il marchio BabyTV sarà presto presente nei negozi specializzati proponendo prodotti per l’infanzia». Insomma, come sempre, da picco­li spettatori a piccoli (grandi) consumatori.
"Avvenire" del 29 luglio 2009

30 luglio 2009

L’epica della terra sacra

Il nuovo romanzo di Michael D. O’Brien, autore del bestseller «Il Nemico», sulle sofferenze della Croazia, da Tito ai nostri giorni
Di Fabrizio Rossi
Tre anni di ricerche. Un an­no per scriverlo. C’è un lungo lavoro alle spalle de L’isola del mondo, il nuovo ro­manzo di Michael D. O’Brien, lo scrittore e pittore canadese au­tore dei bestseller Il Nemico e Il Libraio. Pubblicato in questi giorni dalla San Paolo, nella tra­duzione di Edoardo Rialti, L’isola del mondo ( pp. 848, euro 26) rac­conta l’avventurosa vita del poe­ta croato Josip Lasta. Un viaggio fisico e spirituale, dal vecchio continente al nuovo mondo.
Dall’armonia del villaggio in cui Josip nasce nel 1933, educato al­la fede cattolica da genitori e­semplari, al caos della seconda guerra mondiale e dell’avvento al potere di Tito. Scampato per miracolo alla violenza delle ban­de partigiane, che in poche ore gli strappano tutto ciò che ha di più caro, Josip inizia un lungo pellegrinaggio che lo porterà ol­treoceano, per poi tornare a casa e ritrovare quello che sembrava perduto. Fino a scoprire che, an­che nel male più estremo, c’è sempre la possibilità di conser­vare il proprio volto.
Davanti a una tazza di caffè a­mericano, l’autore stesso ci pre­senta il suo romanzo.
Perché ha scelto di raccontare le sofferenze del popolo croato?
« Per la loro dimensione profeti­ca. Questo popolo cattolico ha ricevuto attacchi in ogni epoca e ha dovuto difendere la sua iden­tità. Riuscendo a preservare la propria fede anche nelle situa­zioni più ostili, come il regime comunista di Tito. In questo senso rappresenta la battaglia che riguarda ogni cre­dente contro la forza del­l’ideologia in tutti i tem­pi » .
Ricostruire le vicende dell’ultimo secolo in questa regione non deve essere stato semplice…
« Da subito, mi sono scontrato con diverse memorie in lotta tra loro: la versione comunista, quella dei nazionalisti serbi, quella degli storici cattolici croati. È stato un lavoro minuzioso e corale: un grosso aiuto m’è venuto dalle te­stimonianze di sopravvissuti ser­bi e croati emigrati in Canada, che m’hanno confermato molti fatti negati dalla versione ufficia­le. Anche perché, vista l’impor­tanza strategica dei Balcani dal punto di vista politico, economi­co e religioso, è ancora in corso una guerra di propaganda. Dove, a farne le spese, è la dignità delle persone e il loro diritto di scopri­re la verità » .
Come può un popolo conserva­re la sua identità, contro tutte le forze che cercano di cancellarla?
« È la questione urgente che ho cercato di esplorare. Andando al cuore del romanzo, potremmo tradurla così: come può una per­sona restare tale, preservando la sua dignità, in circostanze radi­calmente disumane? Credo che l’unico modo sia approfondire la propria identità spirituale in Cri­sto. È Lui a dirci chi siamo dav­vero e quanto valiamo, e solo la Chiesa può comunicarcelo. L’i­deologia, al contrario, in nome dell’umanità distrugge il singo­lo » .
Come ricorda Benedetto XVI nell’ultima enciclica: « L’umane­simo che esclude Dio è un uma­nesimo disumano » …
« La creazione di una società giu­sta può solo venire dal rispetto per la dignità e il valore di ogni vita. Anche quando questa di­gnità è calpestata, l’uomo deve tenere davanti agli occhi la visio­ne che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio. È ciò che permette di restare uomini in qualunque situazione» .
È quel che emerge nei capitoli ambientati a Goli Otok, l’ « Isola Calva » della Croazia trasforma­ta da Tito in campo di concen­tramento.
« Il male e le ideologie feriscono l’umanità. Il cuore di ogni ideo­logia è sempre antropologico, contiene una concezione del­l’uomo. L’ideologia materialisti­ca, qualunque forma assuma, nega il significato intero della persona, riducendola al compo­nente di un meccanismo. Pur non esistendo più i regimi del Novecento, quest’ideologia è an­cora viva » .
In che forma?
« Pensi al nostro Occidente mate­rialista, dove s’introducono a­borto e eutanasia con il pretesto di difendere la libertà dell’uomo. Ecco la frattura: si difende l’u­manità, ma al tempo stesso si condanna una parte di essa ad una morte ingiusta. E lo si fa in nome dell’umanesimo. È un nuovo totalitarismo: molto soft, senza lager, ma estremamente potente. Davanti a tutto ciò noi cristiani non possiamo scendere a compromessi: siamo chiamati ad essere, come Gesù stesso, un segno di contraddizione. Un se­gno di verità e carità davanti al male. È l’unica via per resistere alle forze disumanizzanti del­l’ordine mondiale».
Certe pagine del suo romanzo riecheggiano Solzenicyn, quan­do nel discorso ad Harvard nel 1978 metteva in guardia l’Occi­dente da un’ideologia ancor più subdola di quella al potere in Urss…
«Non è un caso. Solzenicyn at­taccava la debolezza dell’Occi­dente davanti all’espansionismo sovietico. Ma la sua critica scen­deva più in profondità: era rivol­ta contro la perdita di carattere morale dell’Occidente. Ecco il problema. Per questo, davanti alle sfide della nostra epoca, dobbiamo riscoprire le nostre radici. È una rivoluzione interio­re, che coinvolge l’anima e il cuore di ciascuno. Dove l’arma che abbiamo, come per Josip, è una sola: il desiderio di conosce­re il vero».
"Avvenire" del 22 luglio 2009

La tradizione ci salverà dal nichilismo

Per il filosofo torinese Giuseppe Riconda la rivelazione cristiana è l’unica risposta all’odierno relativismo etico che ha contagiato le nostre società
Di Francesco Tomatis
«Oggi per la prima volta sappiamo che la fine dell’uomo è possibile: le catastrofi ecologiche, la possibilità di guerre atomiche... , i pericoli della biotecnica legati alla diffusione sempre più invadente del pensiero strumentale la rendono certamente tale». A sostenerlo è Giuseppe Riconda, filosofo cattolico torinese, cresciuto alla scuola di Augusto Guzzo e Carlo Mazzantini, erede assieme di Augusto Del Noce e Luigi Pareyson, con i quali l’amicizia e il dialogo filosofico furono assidui e continui. Non a caso Riconda è stato presidente sia del Centro Studi Filosofico­religiosi Luigi Pareyson di Torino, sia della Fondazione-Centro Studi Augusto Del Noce di Savigliano, depositarie degli archivi dei due grandi pensatori cattolici italiani.
In questo ponderoso volume, Riconda non solo denuncia gli esiti ultimi dell’ateismo, del nichilismo e del relativismo, ma elabora anche un pensiero religioso o tradizionale capace di essere una risposta profonda, radicale al pensiero strumentale il quale non può che condurre alla scomparsa dell’uomo. La proposta filosofica di Riconda è precisamente quella di un «personalismo ontologico, antinomico ed escatologico», elaborata attraverso un costante confronto con autori come Del Noce e Pareyson, ma anche con Rosmini e Dostoevskij, Šestov e Grossman, Guzzo e Mazzantini, Schelling e Lequier. Parlando di personalismo ontologico Riconda intende sintetizzare in uno le prospettive di Pareyson e di Del Noce. La filosofia di Pareyson è stata infatti essenzialmente un personalismo, cioè incentrata sulla persona intesa come esercizio di libertà. Tuttavia, a differenza di certi esistenzialismi atei o certe ermeneutiche relativistiche, la prospettiva pareysoniana, come sottolinea Riconda, è veritativa e ontologica. La persona esercita la propria autonoma libertà solo in quanto consapevole di essere aperta all’essere, incarnazione della verità, posta dalla trascendenza, creata libera da Dio.
L’affermazione atea di libertà di fatto è una pseudo­autoaffermazione egoistica, la quale non salva neppure se stessa, non comprendendo l’origine altra, trascendente, teonoma, della propria stessa proclamata libertà e autonomia. Dalla prospettiva di Del Noce, invece, Riconda fa emergere l’ontologismo, il riconoscimento del primato dell’essere, innato all’uomo anche se non necessaristicamente qualificato, rivelativo della presenza di Dio nel mondo umano benché scevro da panteismo nel riconoscimento del peccato originale caratterizzante la situazione storica. Peccato originale che anziché condannare assolutisticamente il finito alla morte e al nulla ne spiega piuttosto l’origine della caducità rivelandone anche la possibile redenzione ed eterna salvazione.
Inoltre Riconda caratterizza il proprio personalismo ontologico inoltre come antinomico ed escatologico. Infatti il rapporto fra persona ed essere, essendo sempre storico, collocato in un divenire fatto di situazioni finite, non può non comportare una continua scelta e lotta del bene rispetto al male, dell’essere in contrasto con il non-essere, caratterizzando quindi il personalismo ontologico anche come tragico o antinomico.
Questo è il vero senso di tradizione approfondito da Riconda. La tradizione non consiste in una conservazione o restaurazione di valori del passato, cristallizzati in istituzioni o forme storico­culturali trascorse, in ciò legati quindi alla mera storicità.
Tradizione significa piuttosto attingere in ogni presente storico, orizzonte personale sempre in divenire, ai valori metastorici, inesauribili nella loro verità eppure incarnabili nelle incessanti interpretazioni di essi che le singole persone e comunità si sforzino di essere, con fatica, nel dialogo e anche nella lotta, in un continuo esercizio di libertà. Per questo motivo il pensiero tradizionale non solo è antinomico, ma anche escatologico, aperto alla vita oltremondana, nella quale soltanto ogni contraddizione fra bene e male, verità e vita, storia ed eternità, finitezza e infinità sarà superata, come solo l’esperienza religiosa, nella speranza, sa rivelativamente indicarci. Per questa consapevolezza che l’uomo stia nella storia ma aperto all’escatologia, il pensiero tradizionale, ispirato alla rivelazione cristiana tramandata dalla Chiesa cattolica, è secondo Riconda la migliore risposta al totalitarismo tecnocratico della globalizzazione, ultima forma di nichilismo ateo e relativistico.
Infatti proprio tale pensiero religioso cristiano contempla in sé l’ateismo stesso, sapendolo affrontare e vincere come proprio momento interno. Il pensiero religioso stesso comporta la laicità stessa in sé, dal momento che la verità da esso attinta non è imposta ideologicamente, ma affidata alla libertà di scelta personale di ciascun singolo, che può scegliere il vero e il bene solo nel raffronto e nel confronto con l’errore e il male, realizzare l’essere soltanto di fronte alla possibilità del nulla. Per il pensiero religioso o tradizionale, proprio perché Dio lo ha creato, l’uomo è libero. Dio stesso attende la libertà dell’uomo e l’uomo non è veramente libero se non comprende la verità dell’esser stato creato libero da un altro: che tale altro lo si creda Dio, come per i credenti, o che non lo si qualifichi, pur ammettendolo nella sua trascendenza, come per i non credenti. Comunque, solo tale idea di Dio o di trascendenza, è l’unica idea di qualcosa di superiore all’uomo che non si risolva in oppressione o soppressione dell’uomo.

Giuseppe Riconda, Tradizione e pensiero, Edizioni dell'Orso, pp. 408, € 25,00
"Avvenire" del 25 luglio 2009

La profezia di Heine: bruciare un’opera è eliminare un uomo

di Alessandro Zaccuri
Nel web 2.0 dei vecchi Book Bürners non rimane più traccia. Alla metà degli anni Novanta, però, avevano il loro bravo sito, fondale nero e tutte le 'u' con la Umlaut, in perfetto stile 'nazisti dell’Illinois'. Della California, anzi, perché l’idea era venuta a un drappello di goliardi fra Los Angeles e dintorni. Si davano appuntamento davanti a un braciere da barbecue e lì ardevano i libri sgraditi.
Best seller ultracommerciali e obbligatorie letture scolastiche, di preferenza. Ci tenevano a precisare che la prima vittima di questi falò consumati in camiciola hawaiana era stato Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, e cioè il romanzo che più di ogni altro mette in guardia contro la pratica di bruciare libri.
La trovata sarà anche parsa divertente, ma per la cronaca di quegli anni la distruzione dei libri era un argomento tutt’altro che umoristico. Il 14 febbraio 1989 c’era stata la fatwah dell’ayatollah Khomeini contro I versi satanici di Salman Rushdie, con conseguente pubblica combustione di intere tirature del romanzo in numerosi Paesi islamici. Il 25 agosto del 1992, poi, le milizie serbe avevano preso d’assalto la Biblioteca nazionale di Sarajevo: l’azione, protrattasi per tre giorni, aveva portato alla distruzione di quasi due milioni tra volumi, manoscritti e materiali d’archivio. A rendere ancora più drammatica la situazione interveniva la circostanza segnalata dal sociologo della letteratura Leo Löwenthal nella sua celebre conferenza sui «libri di Calibano» (il riferimento è al passo della Tempesta shakespeariana in cui il selvaggio progetta di distruggere i codici di Prospero, così da privare il mago dei suoi poteri): i roghi di libri non hanno storia, non producono bibliografia, sono una questione troppo imbarazzante per essere affrontata in modo compiuto.
L’intervento di Löwenthal era del 1983, cinquantesimo anniversario della distruzione delle opere di «letteratura degenerata» organizzata dal ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, il 10 maggio 1933 nella Opernplatz di Berlino e in molte altre città tedesche. Si tratta del più noto ed emblematico tra i roghi susseguitisi nella modernità, inutilmente messo in parodia dai Book Bürners californiani e adesso ricostruito dal critico tedesco Volker Weidermann in Das Buch der verbrannten Bücher («Il libro dei libri bruciati», edito a Colonia da Kiepenheuer & Witsch). Tra i molti meriti della ricerca di Weidermann spicca l’aver individuato l’estensore dell’elenco in base al quale furono scelti i volumi da distruggere: si chiamava Wolfgang Hermann, aveva 25 anni ed era convinto di poter infondere nella professione di bibliotecario tutto lo zelo derivante dalle sue convinzioni nazionalsocialiste. Poco dopo il 10 maggio, però, lo stesso Hermann fu messo sotto accusa per una recensione non esattamente entusiastica del Mein Kampf hitleriano. Arruolatosi nella Wehrmacht, morì in combattimento nel 1945. Come lui, quasi tutti gli autori mandati al rogo nel 1933 non sopravvissero alla Seconda guerra mondiale. Erano 131 in tutto, meno della metà ebrei. Fra di loro figurava perfino qualche simpatizzante del Terzo Reich. Molti dei titoli condannati dal nazismo, osserva Weidermann, furono successivamente messi al bando nella Repubblica democratica tedesca.
Opposti estremisti, dunque. E identiche persecuzioni.
«Sotto Beria, i roghi dei libri avvenivano regolarmente e senza alcuna pubblicità», ricordava lo scrittore russo Varlam Šalamov, che con i Racconti della Kolyma ha fornito una delle più intense testimonianze sugli orrori dello stalinismo. Ancora diffuso negli anni Duemila (si pensi al saccheggio di cui sono state oggetto nel 2003 la Biblioteca nazionale irachena e la Biblioteca islamica di Baghdad, ma anche alle notizie più recenti, che riferiscono della selettiva macerazione di molte opere «controrivoluzionarie» nel Venezuela del presidente Chávez), l’accanimento contro la pagina scritta non è un’invenzione del Secolo Breve.
Lo sapevamo già, ma possiamo dirlo con certezza ora che l’auspicio di Löwenthal ha trovato realizzazione. Duplice realizzazione, sarebbe meglio dire, perché nel medesimo anno, il 2004, sono stati pubblicati Libri al rogo del francese Lucien X. Polastron (l’edizione italiana è uscita da Sylvestre Bonnard nel 2006) e la Storia universale della distruzione dei libri del venezuelano Fernando Báez (la traduzione è apparsa da Viella nel 2007). Entrambe le opere prendono in esame gli episodi più conosciuti, come la complessa vicenda della Biblioteca di Alessandria – ricostruita qui a fianco da Franco Cardini – o l’eliminazione degli scritti di Confucio ordinata attorno al 220 a.C. dall’imperatore cinese Shi Huangdi, costruttore della Grande Muraglia. Ed entrambi gli studiosi non nascondono la rilevanza che la distruzione di testi teologici ha rivestito nei primi secoli della storia della Chiesa, durante l’Inquisizione e nel pieno della Riforma, quando gli stessi protestanti non disdegnavano di mandare al rogo le opere «papiste».
Báez è forse più attento alla contemporaneità e si spinge a registrare le pire in cui sono finite centinaia di copie dei romanzi di Harry Potter. L’iniziativa, in questo caso, è stata presa da alcune congregazioni fondamentaliste statunitensi che, basandosi su un’interpretazione letterale del capitolo 19 degli Atti degli Apostoli (i convertiti gettano nel rogo le raccolte di incantesimi pagani), pretendono di accreditare come «autenticamente cristiana» la pratica del book burning . Polastron, da parte sua, dimostra un atteggiamento più smaliziatamente letterario quando passa in rassegna le esortazioni alla biblioclastia (è il termine tecnico per la distruzione dei libri) pronunciate da molti intellettuali insospettabili, primo fra tutti l’illuminista Louis Sébastian Mercier, che nell’utopico L’Anno 2440 immagina una Parigi in cui si leggono soltanto i classici. Per il resto c’è il fuoco, appunto. Qualcosa, tuttavia, sfugge sia a Báez sia a Polastron. Per esempio che la prima raccolta parigina di testi in Braille, allestita dallo stesso inventore agli inizi dell’Ottocento, fu data alle fiamme nel timore che i ciechi potessero sviluppare un’eccessiva indipendenza.
Ma la storia dei roghi continua, purtroppo. Nello stesso 2004 in cui vengono pubblicati gli studi di Polastron e Báez, a Weimar un incendio distrugge la biblioteca della duchessa Anna Amalia, di cui fu direttore Goethe. E poi ci sono gli episodi in apparenza minori, che però ci ricordano come, secondo la profezia di Heinrich Heine, bruciare un libro somigli a uccidere una persona. Siamo a Erba, in provincia di Como, la sera dell’11 dicembre 2006. La sera della strage. Gli assassini ammazzano tre donne e un bambino e, per cancellare ogni indizio, appiccano il fuoco a una pila di libri trovati nella casa delle vittime. Non è il rogo di Alessandria, ma anche questa è la fine di un mondo.
"Avvenire" del 26 luglio 2009

Inciviltà che deforma la giustizia

Pene torturanti
di Giuseppe Anzani
Teoria virtuosa della pena, certezza della pena, tragedia della pena con­creta, certezza della tragedia. Rileggete adagio questa sequenza, respirando do­po ogni virgola: è il percorso sapienziale- demenziale del nostro sistema puni­tivo. Tra le più ricorrenti professioni di fede civica, tra le più condivise espres­sioni di etica retributiva, campeggia da qualche tempo la «certezza della pena». E non si fatica a capire il perché, per chi pensa che la devianza dipende dalla «sterilizzazione degli elementi infetti». Ma non ci si dà più cura di capire da do­ve è entrato il virus, e quant’è pandemi­co, e come si guarisce, e se quanto si fa lo sconfigge o lo rafforza.
Certezza della pena, ma sì, è diventato ormai un motto da convocazione di massa in piazza, alla bisogna. Da bravi, servono catene, pietre aguzze, staffili? O basterà plaudire, da cittadini che ten­gon nette le mani, al lavoro degli addet­ti? Sta di fatto che serpeggia un umore che pare un volontariato da ausiliari del­la pena, se si potesse. Certezza si vuole, ma certezza di che cosa, infine? Che co­s’è la pena, verbalizzata nei codici e nel­le sentenze; e che cos’è la pena scodel­lata sulla pelle dei reclusi delle carceri i­taliane? Anche i giudici non lo sanno. Non glielo fanno sapere, tengono inuti­le che lo sappiano. I giudici quando de­vono condannare alla galera dicono «vi­sti gli articoli» e certamente gli articoli li hanno visti e li sanno a memoria e san­no che dicono proprio così, e quando dicono «reclusione» è reclusione. Ma i giudici che cos’è la reclusione non l’han­no mai vista. E invece quelli che l’han­no vista, nell’Italia civilissima di Verri e Beccaria, non possono tenerla oggi più civile delle scudisciate sulla pubblica piazza, ma peggior barbarie prolungata se è divenuta tortura quotidiana di am­masso di corpi in scatole blindate.
Alla breve: leggiamo dalle statistiche ag­giornate che oggi ci sono 63mila dete­nuti, e che si trovano rinchiusi nello spa­zio di 43mila posti. Dunque sono spin­ti a forza, in spazi inesistenti, compres­si, condivisi. Spazi godibili 'a turno', se­condo quanto ci vanno informando le cronache dei turni di passaggio a terra e dei turni di riposo in branda, fra loro non compatibili. Spazi coatti esposti alla coa­zione aggressiva, spazi rinchiusi alla condivisione di una promiscuità assur­da, spazi di bestie nei quali il profilo u­mano finisce in fioca invocazione, com­patibile a stento con la voglia di vita.
Io non cerco neppure più di leggere 'vi­ta' (gioia di vita, o persino patimento che tende alla vita come doloroso tra­guardo di una gioia da raggiungere) di fronte alla obliqua imprecazione della morte che nei primi mesi di quest’anno ha eguagliato tutti i suicidi in carcere dell’anno scorso.
Torna dunque il soprassalto della con­cretezza, insieme con il fremito della co­scienza scossa. E chiede di rimeditare anzitutto la proporzione fra condanna (o solo accusa, per metà gente) e pri­gione così, proprio per la sua tragica se­rietà. Metà dei carcerati è affetta da e­patite, il 30% è tossicodipendente, il 10% malata di mente e il 5% ha l’Hiv. Il rap­porto fra la pena torturante per questi in­felici, e la loro infelicità raddoppiata nel­la crudeltà dell’attuale caienna dice che questa non è giustizia. Per un canile, gli animalisti chiederebbero riforme. Non è un sistema penitenziario questo, è u­na inciviltà.
"Avvenire" del 26 luglio 2009

Sempre più consapevoli del dramma aborto

I numeri, le comparazioni, il pressing per la RU486
di Francesco Ognibene
Parlare di buone notizie quando si enumerano le vittime dell’aborto è sempre difficile. Si può definire 'buona notizia' il fatto che in Italia nel 2008 siano stati praticati più di 121 mila aborti? Spegnere la vita quand’è più fragile – quale che sia il motivo di questa scelta – è una tragedia in sé e una ferita incancellabile nella vita di una donna. Ma proprio per questo occorre non rinunciare mai alla forza della ragione, alimentandola con informazioni complete che ci pongano al riparo dall’alluvione dei luoghi comuni.
Abbiamo imparato che quando si ragiona di bioetica lo sguardo del quale è indispensabile dotarsi dev’essere più largo del singolo frammento informativo. Ed è uno sguardo consapevole e maturo, se solo si ha la pazienza e la saggezza di incrociare i dati che contano. L’annuale relazione sullo stato di attuazione della legge 194 che il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha consegnato ieri al Parlamento porta infatti qualche 'buona notizia' mescolata alla consueta tragica contabilità degli aborti, mettendoci in mano una documentazione comparata molto eloquente. È vero che le interruzioni di gravidanza nel 2008 si sono attestate a quota 121.406, ma rispetto all’anno precedente il calo è del 4,1% che equivale quasi a un dimezzamento rispetto al 1982, l’anno del record di aborti in Italia.
Un trend di continua decrescita che non si giustifica con la diffusione dei metodi anticoncezionali: nei Paesi dove si è deciso di combattere gli aborti con imponenti campagne pubbliche per la contraccezione si è sortito l’effetto opposto a quello sperato. L’Inghilterra, dove condom e pillole del giorno dopo si trovano persino a scuola e la tv manda in onda spot per informare le teen ager sulla libertà di fermare una gravidanza indesiderata, gli aborti sono fuori controllo, con dati che per le minorenni sono più del triplo di quelli italiani (oltre il doppio in Francia e in Svezia, per intenderci). E nemmeno si deve invocare il numero crescente di medici obiettori, arrivati a superare il 70% del totale. Se, infatti, la relazione ministeriale ha finalmente completato una raccolta dati sinora sempre lacunosa, le nude cifre attestano che l’attesa tra il rilascio del certificato e l’intervento s’è complessivamente ridotta. Dunque, nessuno scoraggiante intoppo per chi decide di abortire. Le ragioni del fatto che gli aborti continuino a diminuire e che tra le giovanissime non vi sia alcun aumento delle interruzioni di gravidanza – come invece si osserva altrove in Occidente – vuol forse dire che c’è un dato che sfugge alle statistiche e che attiene allo stato di salute profondo del Paese, a quel tessuto di valori e di relazioni che impedisce di guardare all’aborto come a una 'scelta di libertà', e lo mostra così com’è. Forse i dati di quest’anno ci dicono che il vero diritto cui si riprende a guardare e che si vuole veder rispettato, al di là della facile polemica mediatica e politica, è quello di poter far nascere tutti i figli desiderati, con ogni aiuto necessario. Abortire non è affatto percepito come una scelta priva di conseguenze. Non si può ignorare che – tabelle alla mano – le donne italiane ripetono l’esperienza dell’aborto assai meno delle inglesi, delle spagnole o delle americane. Visto poi che a incidere sulla cifra complessiva delle Ivg contribuisce in misura crescente la drammatica facilità con la quale le donne straniere (in particolare dell’Est europeo) ricorrono all’intervento, va notato che il dato sugli aborti delle italiane segna un calo di oltre un terzo in soli dieci anni, con un tasso di abortività (ovvero il numero di aborti per mille donne in età feconda) che globalmente è sceso a 8,7, in continuo e vistoso calo da 25 anni. È il segno che l’aborto in Italia non viene diffusamente percepito come metodo contraccettivo, e lo si vede e sente sempre più per ciò che è.
Proprio per questo è grave che ci sia chi ha spinto e spinge l’Agenzia del farmaco ad approvare già nel suo vertice di oggi l’adozione ufficiale della pillola abortiva Ru486 negli ospedali italiani. Il Consiglio d’amministrazione dell’organismo tecnico ha di fronte a sé una scelta che comporta una responsabilità enorme, e giustamente sta soppesando con estrema cautela un farmaco che in ven’anni ha fatto 29 vittime, secondo quanto ha ammesso la stessa azienda produttrice. Non vogliamo credere che, mentre la piaga dolorosa dell’aborto in Italia va lentamente riducendosi, si voglia aprire un nuovo squarcio facendo credere che per liberarsi di un figlio basta una pillola, nemmeno fosse un mal di testa.
"Avvenire" del 30 luglio 2009

28 luglio 2009

Educare all’amore non al «porre rimedio»

Studio inglese sul flop delle campagne pro-contraccettivi
di Giacomo Samek Lodovici
L’agenzia Aceprensa ha riferito i dati di uno studio, pubblicato dalla rivista scientifica British Medical Journal, circa l’impatto delle politiche inglesi per la riduzione del numero delle gravidanze e degli aborti tra le adolescenti. Questi dati mostrano l’inefficacia della strategia adottata, incentrata sull’incentivazione dell’uso dei contraccettivi. L’effetto ottenuto, infatti, è stato opposto a quello sperato: tra le ragazze di 13­15 anni monitorate per 18 mesi dalla ricerca, quelle che hanno seguito tale programma 'educativo' ha intrattenuto relazioni sessuali precoci nel 58% dei casi, e il 16% di esse ha cominciato una gravidanza; quelle che non lo hanno seguito hanno invece avuto relazioni precoci nel 33% dei casi, e il 6% di esse ha cominciato una gravidanza.
Ovviamente ci saranno diverse cause di questo fallimento. Per esempio, non di rado, queste politiche associano ai contraccettivi un’idea erronea di 'sesso sicuro', quando invece la sua efficacia anticoncezionale non è totale e la difesa nei confronti dell’Aids è tutt’altro che assoluta. Avvenire, del resto, ha già riferito nei mesi scorsi di altri studi scientifici che mostrano come le politiche anti-Aids focalizzate sui preservativi non ne arrestino la diffusione che, anzi, a volte, aumenta: se si trasmette l’idea secondo cui essi danno una protezione assoluta, il risultato (lo ha scritto anche Lancet, un’autorevole rivista scientifica) è l’incentivazione dei rapporti sessuali precoci e disimpegnati, talvolta promiscui, seriali e consumistici.
Ma soprattutto – ecco il punto che ci preme sottolineare – in queste politiche emerge una concezione rinunciataria dell’educazione all’amore e all’affettività, che quasi (e talvolta totalmente) la riduce a mera istruzione sui mezzi per evitare gravidanze e infezioni. Così, molto raramente si insegna che l’amore è progetto, donazione, responsabilità, fedeltà e – in certi casi – rinuncia.
Non solo per il bene altrui, ma anche per il proprio. In questi programmi l’amore è descritto quasi come mera attrazione e/o impulso sessuale irresistibili – e la diffusione di questa idea è un’altra causa della precocità e del degradarsi dei rapporti sessuali stessi –, di cui si possono solo 'contrastare' le conseguenze.
Manca quasi sempre una visione integrale dell’educazione, quella per cui essa deve accompagnare l’interlocutore verso la sua fioritura.
La vera educazione è infatti maieutica, fa appello alla volontà altrui per aiutarla a fortificarsi e per educarla alla libertà, addita l’ideale di una signoria su stessi, sui propri desideri e impulsi, anche (ma non solo) sessuali, non per reprimerli, bensì per assecondarli in modo conforme al bene integrale della persona. Manca, in definitiva, l’idea classica di virtù, parola che oggi suona negativa, perché la si associa a un’autorepressione, quando invece la vera virtù assume le energie delle emozioni, degli affetti e delle passioni, realizza una sintesi con la ragione e con la volontà, porta tutti gli aspetti dell’essere umano a convivere armoniosamente tra di loro. Così, grazie a tale unità delle sue dimensioni, che cooperano verso il suo bene complessivo, l’uomo virtuoso è interiormente forte.
Non è vero che una tale educazione è inefficace. Infatti, programmi educativi di questo tipo sono stati adottati con successo in vari Paesi.
Per esempio negli Stati Uniti: nei luoghi dove sono stati applicati, il numero delle gravidanze precoci è calato del 38 % e quello degli aborti è sceso del 50%. O in Uganda, dove il tasso di infezione dell’Aids è sceso dal 21% al 6%.
«Avvenire» del 28 luglio 2009

Mozione della Provincia di Roma per istallare distributori di preservativi nelle scuole

Campagna d'informazione ed educazione sessuale nelle scuole
È stata approvata dal Consiglio della Provincia di Roma la mozione per favorire iniziative di sensibilizzazione sulle malattie sessuali e sulla distribuzione di preservativi nelle scuole. La mozione impegna il presidente Zingaretti e l'assessore competente a "sostenere campagne d' informazione ed iniziative nelle scuole per sensibilizzare i ragazzi sulle malattie sessualmente trasmettibili e sull' uso del preservativo. Impegna inoltre ad installare distributori automatici di preservativi nei licei e nelle universita'".
"La mozione approvata oggi dal Consiglio – ha affermato il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti – impegna l’Amministrazione provinciale a promuovere campagne per la prevenzione dell' Aids e opportunità per gli istituti, che volessero avvalersene, di progetti per l' informazione sessuale. Rientra in questo ambito il sostegno, agli istituti superiori e alle Università che ne faranno richiesta, di installare distributori di preservativi".
"Si tratta – ha aggiunto Zingaretti – di un' altra scelta di innovazione dell' amministrazione provinciale: il prossimo anno, dunque, gli studenti del territorio avranno questa opportunità, oltre a corsi sulla legalità,, sulla memoria, sulla creatività e sull' educazione ambientale, promossi dalla Provincia di Roma in collaborazione con diverse associazione".
"Credo quindi – ha concluso il presidente Zingaretti –che l’iniziativa del Consiglio provinciale sia positiva e che si inserisca in un quadro di rafforzamento di un intervento più generale a sostegno delle scuole. Nell' invitare tutti a leggere con attenzione il contenuto della mozione, mi fa piacere che questa iniziativa abbia ricevuto apprezzamento da esponenti di tutte le forze politiche".

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MOZIONE
Oggetto: Sostegno a campagne di informazione e prevenzione, mirate a sensibilizzare i giovani del territorio provinciale in relazione alle malattie sessualmente trasmississibili
Premesso che
uno stato laico, nell'affrontare malattie come l'AIDS o altre malattie sessualmente trasmissibili, deve impegnarsi a garantire tutte le politiche a tutela della salute dei cittadini e, in particolare, delle fasce economicamente o culturalmente più deboli;
in Italia, a fronte della presa di coscienza che l'epidemia si diffondeva al di fuori dei gruppi che inizialmente presentavano la maggior parte dei casi di AIDS, si era scelto non di fornire gli strumenti per limitare la possibilità di contagio bensì di indicare come unico mezzo di prevenzione l'eliminazione dei comportamenti a rischio, e che solo in un secondo tempo, ad opera prima di Associazioni di volontariato e in seguito di Enti locali particolarmente illuminati, sull'esempio di altre nazioni, si è intrapresa un’ opera di informazione ed educazione sanitaria, la distribuzione di siringhe monouso e profilattici;
nel corso degli ultimi anni però si è assistito ad un nuovo innalzamento nel numero dei contagi, statisticamente accertato dall'Osservatorio Nazionale AIDS, e che se inizialmente, in Italia, la via preferenziale di inoculazione erano le siringhe utilizzate dai tossicodipendenti, ora la trasmissione per via sessuale, e soprattutto eterosessuale, è la principale causa di contagio;
l'AIDS inizialmente veniva relegata a malattia di categoria e che l'informazione e le campagne di prevenzione vennero modellate su questa errata valutazione il cui principale risultato fu da una parte la colpevolizzazione e l’emarginazione di una fetta di popolazione, e dall'altro, la creazione di una falsa aurea d’immunità nella rimanente parte;
considerato che
una delle fasce di popolazione maggiormente esposta è quella dei giovani tra i quali, la naturale scoperta della sessualità non è accompagnata praticamente da nessuna forma di educazione sessuale né da parte delle famiglie né da parte delle istituzioni;
il problema principalmente riscontrato in diversi studi sulla popolazione, sia giovane che adulta, per l'uso dei profilattici è la relativa difficoltà di reperimento nonché il loro alto costo;
l'importanza di educare all'uso dei profilattici, facilitandone il reperimento e abbattendo le barriere culturali che ancora lo fanno considerare una sorta di tabù, garantire la qualità del prodotto e, non ultimo, fornire una adeguata informazione sia sull'uso corretto che sulla effettiva utilità nella prevenzione, significa fornire non solo uno strumento di prevenzione, ma una reale possibilità di scelta
consapevole;
il Consiglio Provinciale di Roma impegna il Presidente e l’Assessore competente
a sostenere nel territorio della PROVINCIA DI ROMA le campagne di informazione, prevenzione e sostegno alla ricerca nella lotta contro il diffondersi del virus Hiv e le altre malattie a trasmissione sessuale;
ad aderire alla campagna “Consapevolezza e Libertà”, programma di sostegno all’insegnamento dell'educazione sessuale negli istituti superiori e di installazione di distributori di preservativi nei licei e nelle università;
a sviluppare un programma completo - destinato ai giovani che vivono o studiano nel nostro territorio - per sostenere una corretta informazione sessuale, precisando che tale programma debba comprendere, tra gli altri progetti e iniziative, l'installazione nei locali o nei pressi delle scuole di istruzione secondaria superiore, in accordo con gli organi di direzione delle stesse, di distributori automatici di anticoncezionali (preservativi).
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A questa mozione sono correlati i seguenti commenti:

L’altro mondo (terza e ultima parte)

Che cosa dicono gli adolescenti “marziani”, quelli che non vivono il sesso “come una tessera di accumulo-punti”, e dei loro coetanei “confusi” si chiedono “che adulti saranno?”
di Marianna Rizzini
Poi ci sono i marziani. I marziani, rispetto a molti loro coetanei adolescenti, sembrano usciti da un passato in cui l’adolescenza non era ancora un’anticamera scomoda da divorare e accorciare con un sesso ansioso, accumulato a caso, ma uno scivolo lento fatto di cotte pazzesche, delusioni feroci, amori impossibili, pulsioni violente e non conosciute, piacere solitario, dipendenza dai primi baci, scoperte fisiche imbranate, felicità minuscole e tempi morti. Per contrasto con l’accelerazione delle vite dei loro compagni di scuola, ossessionati dal sesso e già stufi del sesso a quindici anni, i marziani sembrano presi per sbaglio non solo dalle adolescenze più lente dei loro fratelli maggiori, ma addirittura da quelle lentissime dei nonni e dei bisnonni. Sembrano allo stesso tempo “antichi” e troppo moderni, venuti in visita da un futuro in cui sono già dei quasi-adulti, più o meno affettivamente maturi. I marziani non sono casti (e se lo sono non hanno l’ansia di obliterare la verginità). Non sono frustrati, non sono isolati. Escono, si pettinano, si vestono, si truccano, guardano le ragazze, guardano i ragazzi, chattano su Facebook, hanno prime e seconde esperienze. Ma non vedono il sesso come un’attività seriale, da praticare con chi capita dove capita, magari perché non ci si può tirare indietro (pena il sentirsi esclusi, soli, abbandonati, derisi, senza mèta). Come gran parte dei loro coetanei, molti marziani hanno avuto presto le prime esperienze, e spesso senza troppa consapevolezza, ma dicono: ora cerco anche altro. Sono quelli per cui il sesso fa parte, grosso modo, della categoria “amore”, e se amore è una parola troppo grande o prematura lo chiamano “trasporto”, “voler bene”, “coinvolgimento emotivo” – illusorio o reale, duraturo o no, ma è comunque qualcosa che rende diversa dalle altre la persona con cui si fa l’amore o con cui si pensa che si farà l’amore. I marziani non nascondono la timidezza o la sofferenza, non anelano alla collezione di conquiste, si permettono momenti di noia non riempita da una tresca, e non si sentono inadeguati se non bevono quattro cocktail a stomaco vuoto per far diventare gli altri una massa indistinta di persone “bombabili” o “scopabili”.

I loro professori si domandano se sia giusto o sbagliato che da settembre, nelle scuole di Roma, vengano installati distributori di preservativi e se sia giusto o sbagliato che in quelle di Milano, con moto contrario, vengano eliminate, per i minori di sedici anni, le lezioni di educazione sessuale della Asl, giudicate troppo “crude” da alcuni genitori e insegnanti. I marziani intanto osservano da fuori se stessi e i destinatari di questi provvedimenti. Chiedono attenzione e parole per chi “non capisce”. Mattia, sedici anni, non sa “che adulti saranno quelli che alla mia età non capiscono neanche perché stanno ogni sabato con uno o una diversa, in dieci minuti, senza provare niente o soffocando quello che provano per non essere scaricati”.
Roberto, sedici anni anche lui, soffre “come un cane” per una ragazza che l’ha lasciato. Non ha voglia di guardarne altre, ora, mentre con gli amici va nei parchi di notte, nell’estate un po’ noiosa della sua città, nell’afa del nord-est. Si sente diverso da quelli “sempre insoddisfatti che pensano di stare meglio cercando una donna nuova ogni giorno, in giro e su Internet”. Si sente diverso pure dalla sua migliore amica, “che cambia un ragazzo a settimana, e dice ‘voglio il principe azzurro’ ma poi non lo cerca”. Alla fine Roberto sospira: “Sarà che i maschi tendono ad attaccarsi”. Alberto, invece, riusciva ad avvicinare le ragazze soltanto nel paesino sull’Adriatico dove andava con i suoi in agosto, “perché lì si creava una condizione in cui si parlava senza tirarsela”. Con una delle sedicenni “che non se la tiravano” ha avuto la sua prima esperienza. Sua madre si era accorta che quell’estate il figlio “aveva successo con le donne” e gli diceva: “Ricordati che non esiste solo il sesso”. Lui pensava “una cosa è l’amore, un’altra è il sesso”. Oggi vorrebbe “una con cui poter anche parlare, possibilmente”.
Maria ha sedici anni e conta i tredici mesi passati con il suo ragazzo. Trova “deprimente per le donne” l’andare a letto “ossessivamente” con chiunque e dovunque. Quando ha conosciuto il ragazzo, Maria era “in un periodo di passaggio”. “Lui, un po’ più grande di me, faceva politica nella scuola che ho cambiato dopo la bocciatura che mi ha fatta stare malissimo. La mia prima storia era finita. Ed era finito anche il periodo in cui mi sentivo single e provavo a uscire con qualcuno. Ci siamo messi insieme e siamo ancora insieme”.

Maria vuole tenere i piani separati: amici di qua, lui di là. “Con gli amici mi comporto in modo diverso che con lui, forse più scherzoso. Ho sedici anni e voglio crescere anche come persona, a parte la coppia”. Dalle sue amiche Maria ha sentito raccontare esperienze di due tipi: la storia estiva, “da non rimpiangere ma finita lì”, e la storia più lunga con il primo con cui hanno fatto l’amore. A scuola, invece, e nelle piazze del suo quartiere, al capolinea del metrò di Milano, Maria ne ha viste e sentite tante, di “ragazze che a quattordici anni fanno sesso con uno per moda. Non usano precauzioni. Sanno che esiste la pillola, il cerotto, ma non vanno al consultorio. E non c’è questo grande uso del preservativo”. Secondo Maria chi, a quindici anni, ha una vita sessuale “confusa”, e magari “per farsi coraggio si porta la bottiglia di vodka da casa e la scola tutta prima di entrare in un locale, così risparmia pure”, lo fa “per ribellione verso i genitori”. O “perché non sa che cosa fare e magari nessuno in casa ha mai parlato davvero con lei o con lui, né ha mai detto ‘leggi questo libro’”. Quest’estate Maria andrà qualche giorno in una città straniera con il ragazzo, pagandosi la vacanza con un lavoretto fatto per sua madre.
Adriana è medico ginecologo. Non sarebbe d’accordo con Sara sulla questione “dialogo in casa”. Secondo Adriana non è che in casa non si parla, ma in generale si parla “male”, scambiando la confidenza per la presenza. Adriana è “arrabbiata con le madri” che portano le figlie di tredici-quattordici anni in ambulatorio per poter dire “così non ci pensiamo più”: “Le prescriva la pillola così siamo più tranquilli, mi dicono. Come fossero gatte che si portano dal veterinario per farle sterilizzare. Dicono anche ‘tanto mi racconta tutto’, ‘tanto c’è un buon rapporto’. Le mamme si fanno raccontare tutto, ma forse perché sono nostalgiche del loro passato. O forse si fa fatica a insegnare un minimo di cultura degli affetti. Venisse una ragazzina a chiedermi la pillola perché pervasa da una passione, sarei anche contenta, sarebbe evidente il suo desiderio. Ma di ragazzine travolte da passione non ne ho viste”.

Chi aveva l’età di Sara tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta non poteva tanto facilmente partire con il ragazzo o la ragazza, e avere una vita “adulta” da adolescente. Doveva magari passare dalla trafila delle vacanze studio in Inghilterra, prima, e delle vacanze della maturità con gli amici, poi. Durante le vacanze studio era praticamente impossibile che un adolescente facesse l’amore con qualcuno, ammesso che davvero ci pensasse e non lo dicesse solo per darsi le arie – “stasera mi faccio quella”. La sorveglianza era strettissima: ragazzi in un’ala del college, ragazze nell’altra. Si facevano fulminee corse nel buio, con i cartoni di pizza gommosa in mano, per raggiungere l’altra ala prima che il vigilante di turno si accorgesse dei transfughi, ma la trasgressione consisteva nel fumare sigarette, chiacchierare fino alle tre di notte abbracciati, al massimo appartarsi per qualche bacio sotto un albero, nel gelo dell’estate britannica. Si vociferava, a volte, di qualche spagnolo temerario che “aveva dormito con la francese” o di qualche ammiratissima svedese “che era andata di sopra con il tedesco”, ma erano notizie talmente rare da sembrare leggende metropolitane. I più erano ancora in fase “primo bacio” oppure, ingolfati di hamburger e patatine, erano paghi dei giochi elettronici e delle prime manie musicali. Durante il viaggio di maturità le “prime volte” erano frequenti, ma i ragazzi e le ragazze erano (in media) più grandi e, a diciotto o diciannove anni, ormai più attrezzati psicologicamente. Molti sognavano e non realizzavano l’accumulo di conquiste, molti aspiravano a un generico amore estivo che potesse rendere meno angosciante l’inverno desiderato e terribile del passaggio dalla scuola al “nulla”: l’università o il lavoro, questi sconosciuti. Le isole greche parevano luna park con traghetti pieni di olandesi biondissimi e tedesche bellissime, e le mandrie di soli maschi cercavano i gruppi di ragazze sole con cui creare coppie: a te piace quella, a me l’altra, abbordiamole in spiaggia per stasera.

Parevano mirabilia le prime cene “da grandi”, a lume di candela sul porticciolo, con il ragazzo che versava il vino, bevanda fino ad allora schifata come una medicina. In assenza di cellulari, ci si augurava che il vino non ottundesse il barlume di lucidità rimasto per andare a recuperare l’amica dopo cena, un po’ perché sennò quella restava sola, un po’ perché non era scontato il voler far succedere qualcosa immediatamente, con uno conosciuto il giorno prima. All’alba, nelle stanzette affittate in extremis sui tetti, posto letto senza acqua calda, nugoli di amiche viaggiatrici si raccontavano la prima quasi-notte con quello della cena, in spiaggia ad aspettare il sorgere del sole. C’era chi faceva l’amore per la prima volta, chi non lo faceva per niente, chi aveva avuto un primo ragazzo in città, alla vigilia della partenza, e non pensava che a lui. I ragazzi dicevano “hello” appena passava una ragazza con i tacchi, ma poi bisognava ingegnarsi per abbordarla in modo da non apparire bisonti. Non era detto che il fare l’amore fosse la tappa finale, e tutto quello che arrivava era una specie di lotteria vinta. C’erano quelli che ci provavano subito, scansati come la peste, quelli troppo timidi, tollerati come un male necessario, e quelli che ci sapevano fare e si divertivano a mettere in piedi una bella serata. E a vedere, oggi, le orde di quattordici-quindicenni che non vedono l’ora di dirsi “non vergini” per togliersi il peso e poi “scopare a ripetizione senza capire perché e con chi” (per dirla con le parole del sedicenne Mattia, quello che si chiede anche “che adulti saranno?”), a molti ex adolescenti degli anni Ottanta-Novanta viene da dire “peccato”. Peccato che ben pochi ragazzi abbiano voglia di inventarsi una bella serata. Peccato che ben poche ragazze se la aspettino.

Camilla, in modo ancor più “marziano” di Maria, frequenta un ragazzo da un po’ ma non è ancora successo niente. Si vedono, vanno in centro con gli amici a bere una birra, chiacchierano e hanno capito di piacersi. Camilla dice: “Cerco di conoscerlo meglio prima di lasciarmi andare. E non è perché sono religiosa, cioè sono religiosa ma non bigotta, al sesso fatto solo dopo il matrimonio non so se ci credo. Voglio solo che la ragione mi aiuti a capire chi ho davanti, prima che l’emozione mi faccia prendere una cantonata per uno che magari neanche mi piace fino in fondo. Non voglio avere una storia in cui mi prendo in giro”. Camilla dice “che non ci sono più i genitori di una volta” e che “bisogna saper decidere da soli che cosa è giusto fare”. Giulio è “preoccupato” quando sente di “ragazzine quattordicenni che, per fare le maliarde, appena escono con uno gli dicono: ‘Tiralo fuori, fammi vedere’”. Ragazze che “orecchiano dalle amiche qualcosa sul sesso e lo mettono in pratica per sentirsi accettate, e giudicano sfigati quelli timidi”. Giulio ora vuole “una con cui andare d’accordo, oltre alla passione fisica”. Un paio di anni fa non era così, dice. Racconta di aver “quasi distrutto una famiglia” per aver “portato a letto due cugine, nel paese dove andavo in vacanza in Sicilia con i miei. Mi divertivo a tenere in braccio una e a mandare i bacetti all’altra, e quando sono stato con l’altra facevo il contrario. Ho fatto soffrire tutte e due. Con la prima sono stato la notte di Ferragosto, ma il giorno dopo già pensavo a sua cugina e l’ho lasciata. Un pomeriggio sua cugina mi ha accompagnato a casa dopo una partita di calcetto. Ho fatto la doccia, e dopo lei era ancora lì. L’ho fatta salire in camera e ci sono stato. Adesso non lo farei. Non mi rendevo conto”.

Angelo ha diciotto anni, ha avuto una ragazza. Ma si sentiva a disagio, “c’era qualcosa che non quadrava”. Dice di aver “scoperto di essere gay”. Non vuole “andare per locali e seguire uno a caso nel bagno”. Vorrebbe “un ragazzo a cui telefonare la sera, non uno per una notte e basta. Uno con cui andare al cinema o fare un viaggio”. Federico, diciassette anni, non ne può più degli amici con cui esce: “Devono per forza trattare male le ragazze, portarsele a letto e poi cancellarle, farle piangere dicendo ‘non ti amo e neanche mi piaci tanto’, farle innamorare e poi buttarle via. Secondo me hanno paura di fare qualche errore e di perdere una persona a cui vogliono bene, oppure non vogliono arrivare a vedere che cosa succede quando fai l’amore sempre con la stessa ragazza, quella con cui vai anche a fare una passeggiata”.
Adele ha ottantasette anni. Si considera “moderna” ma dice che, a guardare “i quindici-sedicenni di oggi che hanno già fatto tutto”, le viene in mente suo marito Giuseppe. Giuseppe, nei primi mesi di matrimonio, la prendeva in giro: “Calma, non puoi consumare la passione tutta in una volta”. Adele dice che oggi nessuno “si concede il lusso di una passione vissuta giorno per giorno, con una persona. Non è detto che, come una volta, debba essere l’unica persona per tutta la vita, ma quello che vedo mi sembra triste”. Adele ha conosciuto Giuseppe a sedici anni. Lui ci ha messo un anno a dichiararsi. Lei aveva il batticuore ogni volta che lo vedeva alle prove dell’operetta, e faceva finta di svenire sul palco della compagnia del paese, dove entrambi recitavano per diletto. Tutti avevano capito che Giuseppe voleva chiedere la mano di Adele, ma Adele si sentiva insicura perché lui già aveva avuto qualche donna.

Un giorno Giuseppe ha lasciato un guanto a casa di Adele, dove andava a trovarla per il té, in presenza dei genitori di lei. Come nei libri che Adele leggeva con sua sorella, innamorata di un marinaio, ogni volta Giuseppe diceva “sono venuto a riprendere il guanto” e ogni volta lo lasciava lì. L’ultima volta Giuseppe ha chiesto al padre di Adele se poteva sposarla. Come il giovane Mattia, Adele si chiede che adulti saranno gli adolescenti che oggi “con gli occhi vuoti, vivono il sesso come una tessera di accumulo-punti”. Li vede “girare nel nulla” e si chiede che cosa succederà quando un giorno si troveranno faccia a faccia con “un se stesso che non conoscono”.
"Il Foglio" del 13 luglio 2009

Sesso, un dente da togliere (seconda parte)

Storie di adolescenti che vivono come trentenni un po’ annoiati e a quindici anni non hanno più niente da scoprire, da sognare, da conquistare, da promettere e da trasgredire
di Marianna Rizzini
Il nonno di Chiara ha saputo che una compagna di scuola di Chiara, a quattordici anni, ha mandato via sms, ai ragazzi della sua classe, una foto in cui appare nuda. Il nonno di Chiara è preoccupato per il futuro della nipote, una che per ora le sembra “responsabile” ma che non le pare così diversa, per interessi e abitudini, dall’amica della foto. Forse per risollevarsi, ma senza convinzione, il nonno di Chiara ricorda che, quando era molto giovane, “c’erano delle ragazze che entravano nelle prime cabine di foto automatiche per strada, tiravano la tendina e si fotografavano a seno scoperto”. A chi mandassero quelle foto non si sa. Forse a un amore lontano in busta chiusa. Forse le tenevano nel portafoglio per ricordare com’era bello il loro seno a diciott’anni. Per quanto si sforzi, il nonno di Chiara non riesce ad alzare le spalle e non è convinto quando dice: “E’ come una volta, è solo cambiato il mezzo, è il segno dei tempi”. Ci ripensa e dice “forse la colpa è dei genitori assenti”, e però non sa “quanti tra i genitori presenti abbiano gli strumenti culturali e la sensibilità per sostenere e guidare un figlio che alle medie può già fare sesso con chiunque, con la massima libertà fisica e in assenza della minima maturità emotiva”.
Sara e Alessia, entrambe quindicenni, dicono che la storia delle foto “gira da tempo, lo fanno in tante”. Secondo Sara è perché “così si sentono belle”, secondo Alessia è “perché si sentono escluse”. Dopo la foto, invece, “gli altri parleranno di loro”. Il guaio, dice Alessia, è che “dopo che hai mandato la foto a uno, non puoi fare la figura di quella che non ci sta”. Alessia può dirlo perché sei mesi fa ha mandato “una foto spogliata”, così la chiama, a due amici del suo ex. Lui l’ha tradita con una di vent’anni “dopo tre mesi di sms con scritto ‘ti amo Alessia’”. La foto Alessia l’ha mandata così, per rappresaglia – una rappresaglia autolesionista, solo che non sembra rendersene conto. Non le importava che uno dei due amici del suo ex avesse preso l’invio della foto per un’avance: “Ero troppo arrabbiata e ci sono dovuta stare”. “Dovuta stare” perché tirarsi indietro “è peggio, poi quello a cui hai detto no si vendica e manda la foto ad altri dicendo che stai con tutti”. Alessia si sente “così”. Così cioè male, ma “male” non lo dice. “Adesso ne trovo un altro e appena ci scopo mando la foto al mio ex”. La vendetta a mezzo “foto spogliata” tappa il dolore, la rabbia, forse la vergogna. Solo che lei non vuole dire “sto male”.

Non si può dire, come fosse quella la vera vergogna. Di sera Alessia chatta con gli amici su Msn e pensa “al futuro”. Il futuro è quest’estate a Ischia a casa del papà di Sara, “magari incontriamo ragazzi nuovi, così dimentico quello stronzo”. Per ora Sara e Alessia si vedono tutti i pomeriggi in città. Scendono in motorino da Posillipo e vanno in centro a guardare le vetrine: negozio di scarpe, bancarella di occhiali, negozio di mutande, negozio di bikini, negozio di bikini e mutande con lo stand di asciugamani coordinati. Il giorno della foto Alessia si è fotografata in un camerino, col cellulare. Sara era fuori e quando l’amica le ha fatto vedere la foto ha detto “che sei scema?”, però poi ha pensato “quasi quasi lo faccio pure io e mi faccio pagare”. Sara dice che l’ha pensato “per scherzo”, ma sa che c’è chi lo fa davvero per soldi: “Nella mia scuola una ragazza ha messo le foto a cinque euro l’una. Alla fine ne ha fatti quasi cinquanta”. Alessia dice che quello che le ha ispirato la vendetta con “foto spogliata” era il suo “primo amore” ma non il primo con cui ha fatto l’amore: “Prima ci sono stati quelli con cui si fa esperienza, alle feste di classe”.
Esperienza. Il termine fa venire in mente un annuncio di lavoro: cercasi dattilografa esperienziata, cercasi portiere esperienziato. Qualcosa di asettico. Meccanico. Più fai esperienza più sei bravo. Punto. Come fare la scuola di sci e prendere le stellette. Alessia non appare né contenta né scontenta di quel fare sesso per accumulare bollini-esperienza (dai tredici ai quindici anni). Appare profondamente annoiata. Come se il sesso fosse un pedaggio da pagare. Una cosa che prima te la togli meglio è. Sara dice che “quando tutte le altre sono già andate a letto con qualcuno e tu no, senti che devi fare qualcosa. E’ come se nessuno ti vedesse davvero, a quel punto, finché non sei tra loro, quelli che fanno sesso. Sai che esistono altre cose nella vita, ma non te ne importa niente. Che mi importa di studiare e di trovare lavoro se sono l’unica condannata a non avere un ragazzo? Nessuno vuole stare con una che a sedici anni è ancora vergine. Ti devi sbrigare. Sennò perdi energie, non fai niente, pensi solo ‘tu sei diversa’. Il sesso è il via, dopo puoi trovare uno freddo o uno con cui parlare. Io bevevo, alle feste, e mi mettevo a ballare sul tavolo, così alla fine uno c’ha provato”. Sara dice che a essere l’unica rimasta vergine “ti viene l’angoscia. Ti senti sola. Senti che perderai pure le amiche che ormai hanno un’altra vita.

Io mi sentivo isolata. Sfortunata. Stavo a casa a chattare su Msn e facevo finta di aver già avuto un ragazzo. Quello con cui l’ho fatto, alla festa in cui ballavo sul tavolo, era vergine anche lui, per fortuna. Poi ci siamo messi insieme e ci siamo presentati alle famiglie”. Facevano una vita da coppia adulta: pranzo e cena in una casa o nell’altra, visita alle famiglie una domenica sì e una no, a turno, e un pezzo di vacanza tutti insieme. Poi si sono lasciati. Ora Sara porta a casa il secondo ragazzo, con lo stesso copione: pranzo la domenica, weekend a Ischia con mamma e papà: “Ci lasciano dormire nella stessa stanza, tanto lo sanno che scopiamo”. Se dovessero lasciarsi, sia Sara sia l’ex ragazzo, dice Sara, porterebbero a casa e in vacanza il ragazzo e la ragazza successiva: uguale, tutti uguali, tutti intercambiabili. Pure per i genitori è uguale. Forse anche loro dicono che “i ragazzi così fanno esperienza”. Forse lo pensano davvero, forse non se la sentono di opporsi, forse credono che indagare su come stiano davvero quelle coppie giovanissime e seriali sia inutile. Forse si sono distratti un attimo e risvegliati in un mondo in cui stare dietro a un figlio non può più passare dal controllo, seppur vago, delle frequentazioni. E-mail e telefonini sono terreno privato, nessuno chiama più a casa, nessuno deve più dire, imbarazzato, “buongiorno signora sono Giovanni, c’è Alessia per favore?” o, peggio, lasciare un messaggio in segreteria, incubo dei timidi di vent’anni fa. Forse serve una nuova attenzione, un nuovo occhio, un nuovo lessico, ai genitori di Sara e Alessia.

I genitori di Sara e Alessia, dal racconto delle figlie, sembrano però del tipo “mio figlio ha già la ragazza, mia figlia ha già il ragazzo”. Dicono così agli amici, sollevati, anche se magari il ragazzo, la ragazza, il figlio e la figlia hanno dodici anni, forse pensando che se i figli hanno il ragazzo o la ragazza sono al sicuro, e almeno non fanno di peggio. Chissà se sono quelli che in spiaggia mettono il costume a due pezzi e le ciabatte con il tacchetto a bambine di tre anni – che magari per altri otto potrebbero sentirsi bambine uguali ai bambini, e non già “donnine”, cloni delle donne grandi. Chissà se gli amici di Sara hanno avuto genitori e parenti che all’asilo già chiedevano “hai la ragazza?”. Sia come sia, la vita adolescente di Sara e Alessia ha un’aria (insostenibilmente) trentenne. Anzi, un’aria da vita di trentenne arrivato, demotivato e stufo delle troppe avventure: nessuna pausa, nessuna curiosità, nessun progetto emerso dalla noia forzata dei pomeriggi nella cameretta (che ora non è neppure cameretta solitaria, perché la sera su Messenger è come stare in piazza). Nessuna intenzione di mantenere un proposito, se non una promessa, nessuna pressione per farlo mantenere, nessun desiderio che vada oltre oggi, nessuna pulsione non conosciuta, niente da prevedere, niente da immaginare, tutto già visto e già vissuto. A dispetto dei quindici anni, Sara e Alessia non si permettono di sognare. Volano basso.
Alle “feste di classe” di cui parla Alessia, quelle in cui si fa “esperienza di sesso”, forse non c’è mai stato un equivalente del vecchio gioco del semaforo. Il gioco del batticuore e della faccia che diventava di fuoco, e non si sapeva come fare a nascondere la faccia e il fuoco. Era la scusa che permetteva di ballare abbracciati, in coppie diverse a ogni canzone, mentre uno a turno faceva il semaforo. Se “il semaforo” spegneva la musica e diceva “verde” era bacio sulla guancia, se diceva “giallo” era bacio sulle labbra, se diceva “rosso” era il fantomatico – per i tredicenni d’epoca semaforo – “bacio con la lingua” (ma ci si poteva rifiutare, e si rifiutava un po’ sdegnati il più delle volte).

Di fatto il gioco serviva a non più di un ragazzo alla volta per farsi avanti con una ragazza già a lungo corteggiata – con la complicità dell’amico “semaforo”, ovviamente, che aspettava di vedere il compare ballare con la prescelta per dire “rosso”, lasciando agli altri la possibilità di defilarsi con un “no, vabbè” e aspettare con ansia il loro rosso preferito, alla prossima festa.
Arrabbiata con l’ex traditore, e annoiata da un anno di “sesso per esperienza”, Alessia dice: “Ho fatto tutto. Sesso di vario tipo, insomma”. Una volta uno le ha chiesto se prendeva la pillola. Alessia ha parlato con una dottoressa amica di sua zia giovane e la dottoressa gliel’ha prescritta, ma Alessia non la vuole prendere: “La prenderò quando avrò il ragazzo fisso”. Nessuno dei ragazzi con cui è stata usava il preservativo, né lei l’ha chiesto: “I ragazzi non lo vogliono usare e a me non va di chiederlo. Perché devo restare incinta proprio io? Tanto se non stanno attenti ci vanno di mezzo pure loro. Se resto incinta però lo tengo. Nella mia famiglia non credono nell’aborto. Io ci credo ma non voglio dare questo dispiacere a mia madre”. Alessia dice “credo nell’aborto” come se si trattasse di una lontana teoria esoterica, come se non stesse parlando di sé e di un suo eventuale bambino. Sembra che parli di un’altra. Scollata, distaccata, assente. All’interlocutore viene in mente un’altra ragazza, incontrata in un altro luogo, Lisa.
Lisa ha quindici anni e mezzo e un bambino di un anno. E’ figlia di immigrati inseritissimi, scuole in Italia, italiano perfetto, amici italiani. A tredici anni Lisa è rimasta incinta per la prima volta. Sua madre e suo padre “non si erano accorti di niente”, cioè non si erano accorti che lei frequentava dei ragazzi. Sapevano che lei scendeva per strada, come gli altri coetanei del quartiere, e stava tutto il pomeriggio in giro. Pensavano giocasse e chiacchierasse, non davano un significato all’accenno di trucco e alla camminata ammiccante. Lisa guardava le ragazze grandi e pensava fossero tutte “felici, con il marito e il passeggino”. Non sapeva niente della vita, niente degli uomini. Viveva su due piani paralleli: una Lisa bambina giocava ancora con le amiche mentre una seconda Lisa andava a letto con i ragazzi, sentendosi adulta. Alla notizia della gravidanza i genitori volevano che Lisa abortisse per “continuare a studiare”, visto che “avevano fatto tanti sforzi per non farla essere una madre bambina come sua nonna, nel nostro paese”, diceva suo padre. Lisa voleva tenere il bambino “e stare con lui e il mio ragazzo in una casa per noi”.

La mamma di Lisa piangeva, il padre stava zitto. La madre aveva poi parlato con la signora da cui lavorava come colf, chiedendole di parlare a sua volta con Lisa per “farla ragionare”. La signora aveva detto a Lisa che “doveva prima costruirsi un futuro da persona matura e responsabile”, “che i figli sono persone e non un capriccio”, che sembrava “una bambina che punta i piedi dicendo ‘voglio quello’ e non una bambina spaventata che aspetta un bambino”. Lisa stava sul divano, davanti ai suoi e alla signora, ripetendo “voglio stare con lui e il bambino”. Il ginecologo della signora aveva consigliato a Lisa di andare ad abortire da un suo collega all’estero e le aveva prescritto la pillola. Lisa ha abortito, non ha mai preso la pillola ed è rimasta incinta di nuovo, ma di un altro ragazzo. Ha tenuto il bambino. Il ragazzo intanto si è messo con la sua migliore amica. La madre di Lisa ha paura che la figlia, “immatura e con un figlio piccolo, faccia altri disastri”.
“Esiste solo oggi. Domani uno può pure essere morto. Se oggi non stai con me, domani per me sei morta”. Così diceva Edoardo, quindici anni, per “conquistare” Livia, quattordici – conquistare cioè “portare a letto”, dice Edoardo, e mentre Edoardo racconta l’interlocutore si chiede dove abbia preso quel mix di parole sull’oggi, il domani e la morte, roba da poeta maledetto un po’ scaduto. Edoardo dice che “ha funzionato: Livia c’è stata subito. Sono due anni che stiamo insieme” (dai tredici ai quindici). Edoardo vuole “stare solo con Livia e andare a vivere con lei a Londra”. Si veste di nero ma non è un Emo, un ragazzo con la ciocca spiovente sulla fronte che aspira a tagliarsi i polsi, spesso per posa e a volte, purtroppo, per reale disperazione. E’ un ragazzo “innamorato”, dice. I due non prendono precauzioni e sperano che “San Gennaro ce la mandi buona”.

Silvia, la migliore amica di Edoardo, quindicenne, pensa che Edoardo sia “un guappo di cartone, un tonto”. Dice che “un’uscita con uno è un’uscita, una cosa seria è una cosa seria. Io preferisco l’uscita”. Durante l’uscita può “capitare” di fare l’amore come di non farlo, “perché non puoi dire ‘no’ a uno che vuole farlo, e se non l’hai mai fatto tanto vale, così non ci pensi più”. Riecco il sesso come peso tolto, pensa l’interlocutore. Dopo un’uscita ci si saluta: “Gli dici ‘ci vediamo’, al massimo lo risaluti su Facebook”. Se c’è una seconda uscita “allora è una cosa seria e lui ti dice che non puoi uscire senza di lui, al limite solo con tua madre, e diventa un inferno. Il ragazzo di una mia amica menava la mia amica se usciva con le altre ragazze, e lo diceva a tutti quelli dei quartieri spagnoli. Lei pur di uscire lo seguiva quando lui andava a strappare rami degli alberi di Natale alla galleria Umberto, per la gara di appiccia-fuoco: vince chi ruba più rami in giro per Napoli e fa il falò più alto”. L’uscita si rimedia nella piazza davanti al liceo più famoso della città – pure se si è in terza media o si frequenta un altro istituto. Ci si siede a gruppetti, ragazze di qua, ragazzi di là. Uno dei ragazzi comincia a fare “i cerchi” col motorino, gira intorno, gira intorno, gira intorno. Poi inchioda davanti alle ragazze, si presenta a tutte ma si siede vicino a una soltanto, e “se sei bravo da lì è fatta”.
Il segreto è andare bene a scuola. Erica, terza media alle spalle, ha capito che se studia può uscire quando le pare. Sua madre la fa uscire con un’amica ogni pomeriggio. Erica e l’amica poi si separano e ognuna esce con un ragazzo. A quattordici anni, Erica non ha ancora fatto l’amore e si sente “una rarità” nel gruppo. Non ha “il complesso”, dice, “ma non vede l’ora di “levarsi il problema”. Chissà che cosa direbbero le nonne che negli anni Sessanta sognavano la rivoluzione sessuale, a vedere che la rivoluzione sessuale è diventata un dente da togliere in fretta.
"Il Foglio" del 13 luglio 2009

Preservativo a chi? (Prima parte)

Confessioni sul sesso liberamente estorte ad adolescenti sparsi di vario ceto, età, ambiente e provenienza (nell’estate in cui si discute di distributori a scuola e circolari Asl)
di Marianna Rizzini
Senti, funziona così: noi i preservativi non li usiamo, non vogliamo usarli e nessuna ragazza ti chiede di usarli. Quindi a me fa ridere mio padre che dice ‘devi usare il preservativo quando vai con le ragazze’ e mi mette di nascosto la scatola di preservativi nel sacchetto del bagnoschiuma quando parto per la gita scolastica, come l’anno scorso”. Tommaso ha quindici anni e da un po’ sta parlando dell’argomento “io e il sesso” con un giornalista. Racconta della prima volta, della seconda volta, di altre volte, del modello di riferimento tradito dalla realtà (i film porno visti a casa del cugino). Il giornalista sta facendo un’inchiesta sugli adolescenti e il sesso intervistando ragazzi e ragazze di varie età, ambienti e quartieri (presi a caso in strade, bar, muretti, negozi a Roma, Napoli e Milano oppure pescati a caso, dal vivo e al telefono, tra fratellini, cugini piccoli, figli, nipoti, alunni di amici, conoscenti, parenti e colleghi). Il giornalista non riesce a capire perché Tommaso parli del sesso con gran distacco scientifico. Come si parla del tempo in televisione: c’è questa perturbazione, la perturbazione se ne va. E’ come se raccontare il sé quindicenne e il sesso facesse parte di un resoconto delle attività della giornata: compro un disco, sto con quella. Il preservativo Tommaso non lo usa, ma è come se ne avesse uno mentale che ricopre qualsiasi traccia di moto profondo. Non si capisce se sotto c’è eccitazione, trasporto, amore, tenerezza, euforia, curiosità, paura, angoscia, repulsione. Non si capisce dov’è, e se c’è, quel grumo indistinto di ansia, emozione, ingenuità, perentorio senso del possesso, confessato o inconfessato bisogno di fusione che tormenta l’adolescente nel ricordo di chi è stato adolescente.
Tommaso non sa nulla di ciò che accadrà a Roma e a Milano. C’è infatti un futuro modello Roma: da settembre distributori automatici di preservativi nelle scuole superiori, su mozione della provincia. E c’è un futuro (e opposto) modello Milano: da settembre stop all’educazione sessuale impartita dagli operatori Asl ai ragazzi minori di sedici anni.

E’ una circolare della stessa Asl a stabilirlo, dopo mesi di dibattito attorno a un articolo del settimanale Tempi, area Cl, in cui si raccontava lo sconcerto di molti genitori e professori rispetto al linguaggio e ai modi delle lezioni di educazione sessuale firmate dall’azienda sanitaria locale, considerate troppo precoci e troppo esplicite. La tesi dell’articolo, si legge su Tempi, era che le lezioni Asl di “educazione all’affettività insegnano tutto tranne che l’affettività”. Poi ci sono loro. I destinatari delle lezioni sul sesso (da una parte) e delle preoccupazioni sul sesso (dall’altra).
Quando Alessandro, amico di Tommaso, anche lui quindicenne, interrompe la conversazione per dire “noi non usiamo i preservativi ma dovremmo farlo, cazzo se dovremmo farlo, e se poi una resta incinta?”, Tommaso sbotta: “Devi essere un demente se lei rimane incinta, che non sai controllarti?”. Tommaso dice che per lui “è come quel film dove corrono sul tetto del treno: fai una cosa che ti diverte, che ti fa sentire bene, sei lì che ti baci con quella che ti piace e lei ti guarda e capisci che ci sta, cominci a toccarla e lo sai che se vai avanti senza preservativo è pericoloso perché lei può restare incinta, ma pure questo fa parte del sesso, e mio cugino me l’ha detto: a controllarsi si impara”. Alessandro dice che Tommaso “è incosciente e se ne frega pure dell’Aids” e che “tanta gente non sa delle malattie”. Con le ragazze, però, non usa niente. Dice che “le malattie non si prendono qui in Italia, ma all’estero. E dipende se la ragazza è stata con altri o no”. E’ normale, piatto, punto. Nel mondo di Tommaso e Alessandro sembra tutto bidimensionale: io ragazzo, tu ragazza, mi piaci, stiamo insieme, forse ci rivedremo, se resti incinta è uno scherzo del destino, per ora ciao. Impossibile chiedere: Tommaso, ma non ti viene mai voglia di pensare, per te e per la ragazza che sta con te, qualcosa al di là del brivido da treno in corsa? Impossibile perché Tommaso parla, e molto, ma resta sul piano robotico. L’interlocutore lì per lì pensa che sia un caso, il caso di Tommaso, e passa oltre.

Oltre ci sono persone di tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette anni. A diciotto-diciannove “sei fuori e capisci tutto”. Carlo, uno che è fuori e ha capito tutto, dice che “solo dopo qualche anno che fai sesso puoi dire che fai sesso davvero, prima lo fai con l’ansia di essere giudicato: le ragazze parlano tra loro, vanno sui forum di Internet e sanno che esiste questo e quello, cioè sanno che noi abbiamo la fissa del sesso orale. Che poi abbiamo la fissa, all’inizio, perché gli amici che l’hanno provato dicono che è il massimo ma uno che ne sa”. Uno non lo sa, dice Carlo, “lo immagina ma poi prova ed è vero”. Le ragazze che conosce Carlo a tredici anni sono “preparate”: “Sanno che il ragazzo chiederà quello. Molte fanno le gradasse, vanno in giro con il perizoma in vista e si aspettano uno che ci sappia fare. Pure tu pensi ‘lei ci sa fare’, anche se vedi che è piccola. E ti viene quell’ansia tremenda e pensi: chissà che vuole fare questa. Ti angosci e magari non ci esci nemmeno, con quella che ti piace: meglio stare a casa che ciccare”. Ciccare, cioè non farcela. Carlo ha avuto molta paura di ciccare: “Poi mi sono detto cicco la prima, cicco la seconda, cicco la terza, alla fine ce la farò. E ce la fai”. Dopo sono venute altre ragazze con cui non ha ciccato. Ora è “innamorato”, dice. Innamorato vuol dire: “Se incontro un’altra che mi piace ci vado, però la mia ragazza è la mia ragazza”. Viene voglia di intervistare la ragazza, ma purtroppo non c’è. Matteo, amico di Carlo, la prima volta, due anni fa, l’ha fatto “per provare. Non c’erano i miei e mi sono detto: ora o mai più. Poi capisci com’è e allora dici: ma perché devo farlo con una sola se posso averle tutte?”. Non è che tutti stanno con tutti, è che se capita va bene, va così. Che cosa succeda nella testa dei tutti che stanno con tutte è un mistero che per il momento Tommaso, Alessandro e Matteo non hanno voglia di indagare. Normale, piatto.

E uno può anche chiedere: ma queste tutte e questi tutti non sono gelosi, non si sentono traditi, non soffrono, non sperano, non hanno pensato qualcosa che si avvicinasse a un sogno se non di amore almeno di vicinanza? E però la risposta non arriva, o arriva sotto forma di “se ti va bene così è così, sennò niente”. Sotto il sesso dei tutti con tutte c’è un sentimento non pervenuto.
Era il 14 settembre 1977 e sul giornale “La città futura” si scrivevano frasi che oggi scrivono tutti: “Gli adolescenti vivono in un clima di liberalizzazione mai vissuto dai coetanei nella storia moderna. Hanno uno sviluppo sessuale precoce, più della metà dei ragazzi di quindici anni ha esperienze sessuali complete. Usano con disinvoltura la pillola e gli altri metodi contraccettivi… i quindicenni sono perfettamente consci del loro sviluppo sessuale, anche perché gli adulti hanno loro concesso, almeno in gran parte, il diritto al sesso”. L’unica cosa che tradisce l’età dell’articolo è la frase “usano con disinvoltura i metodi contraccettivi”. I genitori di chi ha quindici anni oggi avevano più o meno quindici anni allora, e magari hanno detto al figlio e alla figlia di usare pillola e preservativo. Solo che poi molti figli, dopo aver preso l’informazione, e dopo averla condivisa in teoria, nella pratica hanno fatto una pernacchia, pensando “meglio senza”.
“Mamma mi ha spiegato tutto”, dice Giovanna, quattordici anni e mezzo. “Mamma dice che aveva delle amiche femministe e si vedevano per parlare di sesso tutte assieme e io so che la contraccezione è importante”. Quando ha fatto l’amore per la prima volta, pochi mesi fa, Giovanna non ha usato nulla. Oggi dice “forse ho rischiato e mi sono sentita in colpa verso mamma, ma come facevo a dire a lui ‘metti il preservativo, per favore’. Era un bel momento, non mi andava di rovinarlo”. Giovanna ha avuto un primo ragazzo “al mare, a dodici anni, ma ci siamo dati solo un bacio. Tra la prima e la seconda media cambia tutto, ti senti che piaci ai ragazzi, allora cominci a guardarli quando si sta in spiaggia ai tavolini o sotto l’ombrellone più lontano dai genitori, e cammi con la testa alta e pure i ragazzi ti guardano.

La mia migliore amica aveva già baciato uno e io mi sentivo inferiore. Forse ero stupida perché quello del bacio non mi piaceva e allora gliel’ho detto: senti, per me finisce qui”. Giovanna dice di non capire se il sesso le piace o se le piace perché sta bene con il suo ragazzo, che però non è proprio il suo ragazzo: “Ci vediamo e non sempre stiamo insieme”. Dalla prima volta a una festa di Carnevale nella casa di un’amica – “c’erano delle stanze libere, lo sapevo che sarebbe successo” – Giovanna e il ragazzo sono stati insieme altre volte, “più o meno una o due volte al mese, non tante, perché io ho paura che torni mia madre a casa quando ci vediamo, anche se mia madre è una tranquilla”. In sé il sesso le sembra “un po’ faticoso, ma anche una cosa naturale. Non sono imbarazzata per niente a spogliarmi davanti a un ragazzo. Mi piace la passione, e la passione c’è solo con il sesso”. Giovanna dice che è “innamorata”: “Appena lui mi vede facciamo l’amore”. Dice che il suo ragazzo “è uno che va con altre, mi sa”, ma “se quando facciamo l’amore stiamo bene non importa”. Non è una coppia aperta in senso Sartre-De Beauvoir, in cui il dirsi tutto era collante (e tormento). Se lui va con altre Giovanna non vuole saperlo, se lei va con altri lui vorrebbe saperlo ma non è geloso, dice lei, che però non è mai andata con altri. “Mi piace il fatto che abbiamo dei segreti, la passione dura di più”, dice Giovanna, “ma dopo che facciamo l’amore mi viene un po’ di gelosia”. Quando le viene un po’ di gelosia Giovanna non fa niente: “Passa”. L’interlocutore si chiede quale sarà l’effetto di non avere (e non poter avere), a quattordici anni, l’ideale quattordicenne di uno che ami solo te, il sogno o l’illusione di un “noi” in qualche modo esclusivo e pieno di promesse. Chissà se Giovanna sarà più indipendente dagli uomini, non vedendoli come principi azzurri, come sperava sua madre negli anni Settanta, o più dipendente, come sembra ora. Non sembra infatti indipendenza o felicità il suo non arrabbiarsi, a quattordici anni, col ragazzo “che va con le altre”. O forse, dopo anni di assuefazione al “tutti con tutte”, sarà più vulnerabile a chiunque le prometta un qualsiasi “solo noi”. Giovanna, a quattordici anni, dice “mi piace la passione” ma non prova o soffoca quello che la prima passione portava ai quattordicenni (più tardivi) di vent’anni fa: desiderio di un mondo a due e di un “per sempre” – almeno fino alla prima disperante rottura. Giovanna non fa e non riceve promesse, e qualcosa di robotico riappare (sotto forma di non-angoscia?).

Nel 1988 Isabella, oggi più che trentenne, aveva l’età di Giovanna. A quattordici anni e mezzo aveva dato il primo bacio a un ragazzo di nome Luca, bagnino quindicenne. Lui puliva le barche del porto, un amico di entrambi aveva una barca ormeggiata dove i coetanei del gruppo passavano meravigliosi pomeriggi di noia. Una sera di festa, dopo due mesi di corteggiamento, lui l’ha baciata. Isabella oggi si chiede se le ragazze di quattordici anni che a quattordici anni hanno già fatto l’amore con due o più ragazzi abbiano avuto, prima di fare l’amore, infinite estati di fine-infanzia a undici, dodici e tredici anni. Estati di canzoni-tormentone, pile di libri di Agatha Christie, bugie dette al nonno che metteva orari troppo rigidi, comunella con l’amica per guardare da lontano, ridacchiando, il bello della sala giochi. Estati che facevano dimenticare gli altrettanto infiniti inverni di invaghimento per i Duran Duran. Isabella si chiede se le quattordicenni di oggi abbiano avuto quei bellissimi tempi morti, tempo per loro e basta, tempo per essere ragazzine informi, adoranti e non già esseri sessuati. Tempo per sviluppare una personalità a monte del primo amore, della prima passione, della prima volta.
Tommaso, il quindicenne che rideva del padre che forniva i preservativi per la gita, dice che il sesso “non è sta cosa da delirio come nei film porno che ho visto alle feste a casa di Giulio, mio cugino: le ragazze dei film porno si muovono un sacco, chiudono gli occhi, si piegano in avanti, fanno vedere che si stanno divertendo con te e che le fai impazzire e fanno tutto quello che vuoi. Dici girati e si girano. La ragazza con cui sono stato io la prima volta stava immobile, pareva terrorizzata, le ho detto girati e lei si è offesa. Diteglielo a quelli dei film porno: non è così che si fa sesso”. Tommaso dice “fare sesso” e non “fare l’amore”: “Non c’è differenza: l’amore viene con il sesso, perché poi ci si conosce meglio”. Dice invece “scopare” quando racconta “della ragazza del mio amico, una che scopa da dio. Lei gli dice ‘ho voglia di stare con te’ e poi fa tutto lei. A me invece è capitata un’imbranata assurda che sembrava una che ci sapeva fare. Io le ho detto: che si fa? Nel nostro giro quando dici a una ‘che si fa’ lei è libera di dirti: no, non è cosa. Poi tu sei libero di rivederla o no. Lei magari ci ripensa, dopo, o fa la superiore apposta. Quella con cui sono stato io quella volta ha detto sì. A me piaceva. Poi però si vergognava, non potevo neanche guardarla mentre si spogliava.

E io non sapevo che cosa fare anche se mio cugino mi aveva parlato di quello che si chiama ‘know how’: rilassati sennò crolla tutto, mi ha detto, non andare troppo in fissa sennò finisci subito. E allora mi sono incazzato”.
A Rebecca non è mai capitato uno come Tommaso, anche se ha conosciuto tanti ragazzi del genere che lei chiama “ciao, sono Luca, tirati giù le mutande”. Rebecca vuole “una storia seria”, però dice che le è capitato “un ragazzo esagerato nell’altro senso”. L’ex ragazzo di Rebecca all’inizio sembrava “speciale, preciso, uno carino che mi portava a mangiare la pizza e mi scriveva frasi sul pontile di Ostia. Ci siamo innamorati”. Rapporti fisici “nulla, al massimo qualcosa in più di un bacio, e mi pareva strano”. Un giorno lui l’ha chiamata e le ha detto “sono cristiano evangelico”. Le ha spiegato che non potevano più stare insieme perché lui doveva stare con la donna che avrebbe sposato, e solo con quella avrebbe potuto avere rapporti. Questa donna non poteva essere Rebecca perché, dice lei, “i pastori evangelici e la madre di lui non volevano”. Poi un’amica comune ha detto a Rebecca che “lui ha una specie di doppia vita e gli piacciono anche altre ragazze: fa una cosa davanti ai pastori, ma fuori fa quello che gli pare”. La comunità ha fatto un’inchiesta sul fidanzamento precoce del suo ex “perché le persone non devono stare insieme solo per attrazione fisica”. Rebecca dice che “avrebbe aspettato” e che, pur essendo “un po’ giovane” per sposarsi, avrebbe detto sì, “se per lui era importante sposarsi”. Lui però l’ha lasciata e Rebecca piange, sdraiata sul letto da giorni. Si arrabbia, si dispera, telefona alle amiche, fa insomma tutte le cose non robotiche che si fanno quando, da giovani e da vecchi, si viene lasciati – che si sia fatto o no l’amore con il lasciante.

A settembre nelle scuole superiori romane, su mozione della provincia, potranno essere installati distributori di preservativi. Da settembre, per circolare della Asl, nelle scuole di Milano non potranno più essere impartite lezioni di educazione sessuale firmate Asl a minori di sedici anni, in seguito alle polemiche nate attorno al linguaggio delle lezioni stesse, che alcuni genitori e professori giudicavano troppo crudo. Sesso, contraccezione, sesso precoce, sesso promiscuo e non promiscuo, amore, matrimonio, maternità, aborto, malattie sessualmente trasmesse: come vivono il sesso e che cosa pensano di tutto questo gli adolescenti? Marianna Rizzini è andata a intervistarne un po’ di varie età, ambienti e provenienza, pescati a caso nelle strade, nei negozi e nei bar di Roma, Milano e Napoli o tra figli, fratelli e alunni di amici, conoscenti e colleghi.
"Il Foglio" del 13 luglio 2009