20 agosto 2009

Deghettizzare si deve proibire, i «rave party» si può

E' tempo di contemporanee e pubbliche assunzioni di responsabilità
di Francesco D'Agostino
Non si può più negare che i rave party siano occasioni per un uso smodato di stupefacenti e luoghi in cui aumenta a dismisura la possibilità di morire per overdose. Vanno vietati? In Francia l’hanno fatto. E in Italia? Davide Dileo (in arte Boosta, uno dei fondatori dei Subsonica) si schiera apertamente per il no, rispolverando il vecchio e specioso argomento dei libertari: il proibizionismo produce effetti contrari a quelli desiderati. Il che equivale paradossalmente a sostenere che, quanto più li si proibisce, tanto più si moltiplicano i rave party; quanto meno li si proibisce, tanto più gli organizzatori si mordono le mani, perché la presenza di leggi libertarie toglierebbe loro ogni fascino e renderebbe insensato promuoverli. C’è evidentemente in questo ragionamento – utilizzato da tutti i fautori della depenalizzazione dei più vari comportamenti socialmente deplorevoli – qualcosa che non funziona e che va contro il buon senso; il fatto però che l’antiproibizionismo torni continuamente a galla, che venga insistentemente riproposto, è segno di quanto sia profonda oggi la crisi del diritto penale e in particolare la prospettiva funzionalistica oggi dominante tra i penalisti. Bisogna ribadire che la ragione per la quale un comportamento (individuale o collettivo) deve essere proibito dalla legge non è di per sé 'funzionale', non dipende cioè dalla più o meno fondata aspettativa di potere, attraverso la proibizione, ottenere la scomparsa di quel comportamento o almeno la sua riduzione a livelli di irrilevanza statistica. Quelli che così la pensassero, dovrebbero, per coerenza, ritenere insensata la proibizione dei più tipici reati contro il patrimonio (dal furto ai più sofisticati crimini finanziari) e auspicarne la depenalizzazione, dato che nessuna persona di buon senso può illudersi che basti la proibizione legale a farli estinguere come pratiche criminose. La criminalizzazione legale di una pratica sociale è doverosa non perché utile a fini preventivi, ma perché è la doverosa espressione di un giudizio di disvalore sociale, socialmente e ampiamente condiviso. Il cuore della questione è tutto qui: per quanto possa suscitare in noi una legittima inquietudine, il diritto penale non serve a prevenire efficacemente possibili comportamenti delittuosi, ma a sanzionare delitti purtroppo già commessi. Questo non significa che il giudizio di disvalore sociale, che la criminalizzazione di una pratica porta con sé, non serva ad aprire gli occhi a molti e a dissuadere alcuni dal commetterla; ma la pedagogia sociale attivata tramite le leggi penali è inevitabilmente lenta, come lo è in generale qualsiasi pratica pedagogica. È la reazione del diritto contro il delitto che, invece, dovrebbe essere non lenta, ma rapidissima. Dove gli antiproibizionisti hanno ragione da vendere è nell’indicare quali e quante pratiche di politica sociale non penale potrebbero essere efficacemente poste in essere per prevenire delitti e comportamenti di massa devianti. Quello che però i libertari non percepiscono è che tra le mille iniziative di politica sociale, possibili e benemerite, e le diverse, doverose iniziative di politica criminale non c’è alcuna incompatibilità. Aiutare la socializzazione dei giovani deghettizzando le periferie e attivando iniziative loro specificamente dedicate non significa non dover reprimere pratiche vandaliche e violente o lo spaccio indiscriminato di droga. Minacciare sanzioni e non applicarle, individuare comportamenti gravemente antisociali, proibirli formalmente e far poi finta di non vederli, per evitare che scatti la solita assurda accusa di 'repressione' è, questo sì, semplicemente assurdo. Lo Stato si assuma le sue responsabilità; riduca pure al minimo veramente indispensabile l’ ambito del diritto penale; ma una volta che tale ambito sia stato individuato (una volta, per esempio, che si sia presa coscienza dell’impossibilità di non prendere posizione nei confronti di rave party, in cui la droga scorre a fiumi e la gente muore di overdose) intervenga fermamente, con le dovute sanzioni penali nei tempi brevi e con le altrettanto dovute misure di politica sociale, nei tempi medi e lunghi.
«Avvenire» del 19 agosto 2009

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