30 agosto 2009

Ma l’Italia era «unita» prima di Garibaldi

Rispetto ad altri Paesi, lo Stato italiano ha realizzato tardi l’unità politica. Ma ciò non cancella quella tradizione culturale, religiosa, civile che per secoli ha plasmato la nostra identità. Così come non si può liquidare il Risorgimento senza considerare quali asprezze hanno pagato le altre nazioni pur di ottenere l’indipendenza
di Carlo Cardia
Una delle cose più importanti, in vista delle celebrazioni unitarie, sarebbe quella di non separare Stato e nazione, non esaltare il primo come unico referente della seconda, perché soprattutto in Italia costituiscono entrambi l’orizzonte di convivenza delle nostre popolazioni. Rispetto ad altri Paesi, lo Stato ha realizzato tardi l’unità politica italiana, ma ciò non cancella la tradizione culturale, religiosa, civile, che per secoli ha formato e plasmato la nostra identità, e per questo rientra appieno nella nostra memoria storica, nei programmi di studio, in quella profondità che riemerge di continuo come un fiume carsico. Uno degli aspetti mento convincenti delle discussioni sulle celebrazioni unitarie è veder rigettati sull’unità realizzata nell’Ottocento i problemi successivi e quelli di oggi. Come se le vicende, anche dolorose, di Paesi di nuova indipendenza possano addebitarsi all’indipendenza stessa, anziché agli sviluppi storici e ai problemi della modernità. Anche la denuncia della povertà e inconsistenza dei protagonisti del Risorgimento, che avrebbero poi agito da conquistatori, oltre che ingenerosa, ignora che alternative storiche realistiche sono del tutto improponibili. In ogni caso, pur con qualche verità, restano tesi anguste che riflettono un provincialismo autolesionista, facente parte anch’esso delle nostre (meno nobili) tradizioni. Se si guardasse ad altre esperienze si scorgerebbero facilmente il travaglio che ha accompagnato la formazione di Stati unitari più antichi e solidi del nostro, le asprezze e le tragedie di cui le loro storie sono costellate. Basti pensare ai fatti e misfatti delle case regnanti in Inghilterra, a delitti e faide tra esponenti dinastici, alcuni regolarmente registrati nella Torre di Londra, anche se vittime e mandanti regali sono stati magari sepolti nella stessa cattedrale con una pietas che ha cementato l’unità; o al prezzo di violenza e dominazione che ha dovuto pagare l’Irlanda, vittima secolare del consolidamento dell’identità inglese. Oppure ricordare la spietatezza di guerre e lotte intestine che la Francia ha subito nel suo emergere come Stato nazionale, e poi nella seconda sanguinosa identità rivoluzionaria nel 1789-94. Degli esiti totalitari della Germania del XX secolo si sa quasi tutto, compreso il ruolo svolto dalla cultura ottocentesca osannante lo spirito del popolo (Volkgeist) che escludeva gli altri.
Dunque, altrove lo Stato ha in qualche modo plasmato l’identità nazionale, ma l’ha fatto con la durezza rapportabile all’epoca in cui si realizzava l’unità. Se misurate su queste realtà, certe sottintese invidie di casa nostra (quasi un complesso di inferiorità) per la grandezza di altri Stati, si rivelerebbero prive di ogni consistenza. Da noi è avvenuto il contrario, perché l’unità politica è giunta dopo la nazione, nel momento in cui un’Italia divisa sarebbe stata assurdo anacronismo nell’Europa degli Stati. Ma proprio perché una identità italiana esisteva già, essa resta più profonda, possiamo vantarcene stando attenti a non scambiare particolarismi e localismi (nostro retaggio storico) con la fine dello Stato o della nazione. Stando attenti a non cancellare dalla nostra identità tutto quanto ha preceduto l’Italia unitaria, che appartiene ad una storia più grande di cui siamo stati protagonisti ricevendone eredità preziose. La nazione italiana, prima ancora di divenire entità statale ha prodotto storia, cultura, spiritualità, che noi studiamo senza nemmeno star lì a pensare che santa Caterina era di Siena e non italiana, o che Dante e Machiavelli siano frutti esclusivi della cultura fiorentina, che Galileo sia di Pisa, Beccaria di Milano. Per questa ragione, e senza alcuna retorica, la nostra identità è indissociabile dalla romanità e dalla sua civiltà, ancor più dal cristianesimo e dalla Chiesa, come realtà che hanno plasmato in senso universalistico la cultura e la coscienza degli italiani. La Chiesa appartiene al mondo intero, eppure senza di essa la storia italiana non sarebbe immaginabile. La funzione di tutela svolta dal papato è stata ininterrotta nei secoli a cominciare dal fatto che i pontefici hanno difeso l’Italia dagli infiniti tentativi di conquista che venivano da ogni parte del Mediterraneo, o dai ripetuti tentativi medievali di germanizzazione degli imperatori, regolarmente (sia detto rispettando il profilo religioso) scomunicati e condannati da quasi tutti i papi teocratici. Pochi ricordano che la sconfitta definitiva del Barbarossa passa attraverso la battaglia di Legnano e l’alleanza tra i comuni, Venezia e papa Alessandro III, e si conclude nella pace di Venezia con l’abbandono delle mire egemoniche di Federico di Hohenstaufen. La stessa storia del pensiero religioso produce nelle nostre terre un effetto unificante che coinvolge ogni campo dell’arte e della cultura, assicurando una identità diversa, più profonda di quella che poteva dare l’una o l’altra casa regnante. Da Benedetto ad Anselmo, da Ambrogio a Gregorio, da Tommaso d’Aquino a Francesco, uomini di preghiera, di pensiero e di azione (o tutte le cose insieme) entrano nella memoria storica dell’Italia unita con una naturalità impensabile in altri Paesi. Anche nelle scorrerie che i grandi Stati facevano nella penisola per stabilirvi una provvisoria egemonia non è vai venuto meno il comune senso di appartenenza delle popolazioni che hanno vissuto da protagoniste altri grandi movimenti storici, laici o religiosi, come il Rinascimento, la riscoperta della classicità, la tutela dell’unità religiosa, costruendo una lingua che si è formata letterariamente ed è divenuta una delle più musicali d’Europa.
Nell’intrecciarsi di letteratura, sapienza giuridica, perfezioni artistiche ineguagliabili, l’identità italiana è apparsa a volte più chiara agli altri di quanto non fosse a noi stessi proprio per la mancanza dello Stato. Oggi è noto che spesso gli studenti non sanno quando si è realizzata l’Unità d’Italia, e questo è il frutto di una scuola disastrata.
Ma nessuno studente, anche il più povero di conoscenza storica, dubita che la nazione italiana esistesse già prima di quella data che non ricorda, e non dubita pur nella confusione di epoche che c’è nella sua testa che Leopardi, Foscolo, Ariosto o Tasso, Petrarca e altri ancora abbiano costruito la nostra identità.
La storia secolare ha immesso nella nostra sensibilità una radice universalista che non si è mai esaurita, ed ha attivato virtù sconosciute ad altri. La tendenza a scartare soluzioni estreme e feroci, di cui è piena la storia europea, una certa moderazione (tendente a saggi compromessi) di cui ha fruito anche lo Stato unitario, la capacità di collegarsi a movimenti internazionali senza piaggeria, l’istinto di accoglienza verso altre popolazioni di cui parliamo in questi giorni. Si tratta di elementi che dovremmo valorizzare con giusto orgoglio, consapevoli che il rapporto tra Stato e nazione è da noi peculiare, in qualche modo rovesciato rispetto ad altri paesi, con conseguenti debolezze e preziosi vantaggi. In questo orizzonte, è vero che un nodo irrisolto della nostra identità è l’oscillazione tra universalismo e particolarismo, con cadute improvvise nelle paludi dei piccoli egoismi nazionali o regionali.
Anche per questa ragione, un omaggio autentico alla nostra tradizione sarebbe quello di non perdere la visione generale dei problemi senza tornare a dividere Nord e Sud, e di farla finita con una politica verso gli immigrati miope e schizofrenica, realizzando con le leggi e con i fatti una accoglienza capace di integrare gli altri anziché respingerli. Questi, però, sono problemi che la modernità ci pone oggi, e che dobbiamo risolvere con gli occhi del realismo e della solidarietà, senza retoriche recriminazioni verso un passato costruito a tavolino. Anche così si recherebbe un contributo utile alle celebrazioni unitarie.
«Avvenire» del 27 agosto 2009

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