24 settembre 2009

4 donne contro i maestri del sospetto

Simone Weil (Francia), Edith Stein (Germania), Maria Zambrano (Spagna), Armida Barelli (Italia): senza di loro non si può fare la storia del ’900
di Giorgio Campanini
Mentre il XXI secolo procede nel suo corso, è venuto il tempo di tracciare un bi­lancio, sia pure provvisorio, del No­vecento, e cioè di un secolo che nel­la storia dell’Occidente è stato, nel tempo della modernità, forse il più inquieto e drammatico.
Se forse per altri secoli è possibile scrivere una storia quasi del tutto «al maschile», questa operazione è palesemente impossibile per il Novecento. Né la letteratura o la musica, né la filosofia o la scienza, né l’economia o la politica po­tranno essere ripercorse dimenti­cando o sottovalutando il ruolo delle donne.
Vi è stato chi ha parlato, a proposi­to della situazione della donna in Occidente, di «parità diseguale», nel senso che il principio dell’ideale e­guaglianza fra i sessi e dunque del­la sostanziale parità è stato da sem­pre riconosciuto in un Occidente permeato, nonostante tutto, dell’e­redità cristiana e con la persistente memoria dell’unica chiamata alla salvezza e del definitivo supera­mento, in una prospettiva di fede, di ogni discriminazione. Ma, storica­mente e praticamente, le disegua­glianze sono restate e non poco tempo è stato necessario perché es­se venissero (e non ancora del tut­to) rimosse. Il Novecento è stato il secolo in cui questa grande « rivoluzione » si è compiuta, segnando una svolta ir­reversibile. Ciò è avvenuto – non è fuori luogo ricordarlo – per la luci­da consapevolezza di non pochi uo­mini ma anche e soprattutto per l’impegno e la fatica di esemplari fi­gure di donne. Si pensi ad esempio a quattro don­ne di altrettanti Paesi europei (per la Francia Simone Weil, di cui ricor­re quest’anno il centenario della na­scita; per la Germania Edith Stein; per la Spagna Maria Zambrano; per l’Italia Armida Barelli). Presenza femminile significativa – anche se forse ancora non del tutto adegua­ta al ruolo nuovo che proprio a par­tire dal Novecento la donna ha co­minciato a svolgere nella storia – e in qualche modo compensatrice dei troppi silenzi che in passato sono calati sul contributo offerto alla sto­ria dell’umanità da quella che è sta­ta definita «l’altra metà del cielo».
Qual è la lezione che si può ricava­re da uno sguardo d’insieme a una rappresentativa carrellata di prota­goniste e protagonisti del Novecen­to? Si tratta, riteniamo, della con­ferma della tenace persistenza in Occidente (e soprattutto nell’Occi­dente cristiano) della tradizione u­manistica che ha fatto grande la cul­tura europea e rischia ora di oscu­rarsi (ma proprio per questo è ne­cessario che la memoria dei prota­gonisti di quella stagione non vada perduta).
Tenacemente, pervicacemente, o­stinatamente, la migliore cultura europea – quella che ha avuto nel­l’Umanesimo cristiano la sua gran­de fonte ispiratrice – ha continuato a difendere l’uomo e la sua imma­gine, attaccata invece, da altre cul­ture, su un triplice fronte: quello del­la riduzione materialistica dell’uo­mo a una fascia di centri nervosi, frutto di una lunga evoluzione ab­bandonata al caso, plasmabile e manipolabile a piacimento; quello del totale assoggettamento ora a u­no Stato onnipotente ora a un si- stema sociale onnipresente e onni­pervasivo; quello della riduzione materialistica dell’uomo a oggetto e soggetto di bisogni e interlocuto­re privilegiato di una società dei consumi orientata esclusivamente alla massimizzazione dei beni ma­teriali, nell’illusoria convinzione che l’illimitato possesso delle cose po­tesse favorire l’incontro con la fra­gile e delicata categoria della «feli­cità ». A questa visione riduttiva della cul­tura la migliore intelligenza umani­stica, e cristiana, ha saputo forte­mente reagire per tutto il corso del Novecento. Basterà ricordare la pas­sione con la quale Simone Weil ha difeso i «bisogni dell’anima»; la te­nacia con la quale Adriano Olivetti si è battuto al fine di umanizzare un lavoro di fabbrica ricorrentemente assoggettato al rischio della merci­ficazione; la profetica denunzia di Giuseppe Capograssi delle possibi­li derive totalitarie, o comunque an­ti- personalistiche, di un apparato burocratico posto al servizio di se stesso... Né, su questo sfondo, può essere dimenticato l’impegno di un Agostino Gemelli e di un’Armida Barelli per il rinnovamento, proprio nella prospettiva di un nuovo uma­nesimo, della cultura cattolica.
Ci si potrebbe domandare se rian­dare a questo insieme di grandi fi­gure del miglior Novecento con­corra effettivamente a rimettere nel circuito della cultura il contenuto di messaggi, tanto al maschile quan­to al femminile, oscurati e aggirati dai grandi mezzi di comunicazione di massa (la «beatificazione» collet­tiva di un onesto mestierante della televisione cui si è recentemente as­sistito è tragicomicamente esem­plare...). Ma chi intende fare auten­ticamente cultura non ha l’imme­diata preoccupazione dell’audien­ce o della «resa»: ciò che caratteriz­za l’autentica cultura è, come ben noto, la sua assoluta «gratuità».
Anche per questo fare cultura è (co­me ebbe a dire, in altro contesto, un noto magistrato) continuare a resi­stere: resistere alla massificazione della cultura, a quello che Giusep­pe Capograssi ha chiamato una vol­ta lo «stordimento» dell’uomo tec­nologico – il cui destino era tutto in­scritto nel «lavorare, andare in au­tomobile, giocare a scacchi e poi morire» – in nome di un Umanesi­mo che, per afferrarsi e persistere, ri­chiede spazi di meditazione, di ri­flessione, ma anche di quel parte­cipe «ascolto» che sempre precede il silenzio: quel silenzio interiore in cui, come ci ricorda la grande tra­dizione agostiniana, alla fine conti­nua ad abitare la Parola.
Troppo spesso il Novecento viene proposto come l’età dei totalitari­smi, dei «maestri del sospetto», de­gli accecamenti dell’uomo tecnolo­gico. Anche questo, certo, il Nove­cento è stato; ma non solo questo. Riandare ad alcuni grandi testimo­ni, riscoprirne e riproporne la le­zione, è un passaggio essenziale per riscoprire quella «verità dell’uomo», così cara a papa Wojtyla, che nono­stante le sue ombre il migliore No­vecento è stato in grado di trasmet­tere a quanti, nel secolo appena i­niziato, dovranno trovare e percor­rere le vie di un rinnovato umanesimo.
«Avvenire» del 23 settembre 2009

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