17 settembre 2009

Cesare: processo a un dittatore (2)

Superstar per i cristiani
di Franco Cardini
Non è per nulla strano che a Caio Giulio Cesare, oltre duemila anni dopo la sua morte, si continui a dedicare un’attenzione che a pochi altri grandissimi della storia è accordata. E perché? E, soprattutto, fu davvero grandissimo? In che senso, fino a che punto? Qualcuno ha provato a contestarne la figura. Fu un tiranno, è il protagonista di modi di vedere la storia fondati sulla retorica e sul «culto della personalità», è stato il modello di troppi dittatori moderni eccetera. Si è tirata in ballo perfino la sua omosessualità, come se non si trattasse di un costume sessuale che, nell’antica Grecia come a Roma, era almeno in una certa misura considerato un «naturale» aspetto specie della fase adolescenziale dei giovani maschi. Ma il fatto è che si continua a parlare di lui: a Roma ha chiuso i battenti pochi mesi fa una bella mostra dedicata alla sua figura e al suo mito; tra breve, un convegno internazionale ne ripercorrerà la vicende di statista, di scrittore, di riformatore politico, di protagonista primario della storia universale. In che cosa consisté il suo genio? Per rispondere, sarebbe necessario anzitutto tracciare la storia della sua fortuna dopo la morte fino ad oggi. Gli imperatori assunsero il suo nome a titolo onorifico. E non furono solo quelli romani a farlo: sul loro esempio, attraverso una pratica politica bizantina, la parola Caesar divenne sinonimo di sovrano nelle lingue slave, sotto la forma di czar (zar), e addirittura nella lontana Persia, sotto quella di shah (scià). Nel Medioevo, in quanto fondatore dell’impero Cesare divenne un modello sacro: Dante condannò i suoi assassini, nell’Inferno, alla stessa suprema pena del traditore Giuda. Egli entrò anche, insieme con Ettore e Alessandro Magno, nella triade dei Preux (i «valorosi») considerati il paradigma dei sovrani perfetti dell’età antica. Umanesimo prima, illuminismo poi, insorsero contro questa cesarolatria proponendo al contrario i modelli eroici dei «tirannicidi» Bruto e Cassio; ma all’immagine di Cesare legislatore equo e severo si tornò con l’impero napoleonico: e il nipote del Bonaparte, quel principe Luigi Napoleone poi divenuto a sua volta imperatore col nome di Napoleone III, a Giulio Cesare dedicò una biografia molto attenta, informata e attendibile. Ma i tempi nuovi premevano. Il grande storico prussiano Mommsen ne fece una sorta di eroe politico. Ai primi del Novecento uno scrittore tedesco della cerchia nietzscheana ed estetizzante degli allievi di Stefan George, cioè Friedrich Gundolf, redasse una «biografia eroica» di Cesare come Superuomo; ma per Guglielmo Ferrero egli fu principalmente un distruttore.
Al cesarismo eroico e politico del fascismo fece in qualche modo eco la penna di un grande studioso cattolico francese che si sarebbe compromesso con il regime di Pétain, cioè Jérôme Carcopino. Recentemente, un libro come al solito lucido e provocatorio di Luciano Canfora lo ha definito «un dittatore democratico».
Ossimoro? Paradosso? Diciamo subito che le pagine di Canfora sono tra le più limpide che negli ultimi tempi si siano mai scritte sul grande romano. Ma aggiungiamo che Cesare seppe davvero sintetizzare mirabilmente il senso profondo della storia romana e proiettarla in quella universale. E vediamo in che modo. Tutta la storia della Roma repubblicana si svolge all’insegna della contesa tra un’aristocrazia di proprietari terrieri conservatori e un proletariato di soldati­contadini. Cesare, aristocratico di altissimi natali, seppe interpretare splendidamente le ragioni e i bisogni delle folle proletarie.
Ma c’è di più. Mentre la repubblica proseguiva sulla strada delle sue vicende, Roma stava conquistando il «mondo» di allora, cioè il bacino mediterraneo, e si apriva non solo alla Grecia – come troppo spesso si ripete – ma anche e soprattutto all’Oriente con le sue antiche civiltà e le sue istituzioni monarchiche e «dispotiche», ma in grado d’inquadrare politicamente enormi masse umane. Cesare non si assunse soltanto, come cittadino «democratico» – nobile di nascita, ma ostile all’oligarchia senatoriale – l’eredità dei Gracchi e di Caio Mario (e perfino di Catilina).
Egli seppe comprendere appieno le potenzialità dell’incontro tra Roma e l’Oriente, su una via politica e culturale battuta già dal cosiddetto «circolo degli Scipioni»: e alla gens Cornelia, la famiglia degli Scipioni, apparteneva appunto e non a caso la madre dei Gracchi.
Politica democratica, conquiste militari (il nerbo delle quali era la forza proletaria dell’esercito legionario) e apertura alle culture dell’Oriente – specie quella egizia – che si erano già incontrate con quella greca al tempo dei successori di Alessandro dando vita alla cosiddetta civiltà ellenistica, furono i capisaldi della visione politica cesariana fondata sulla sintesi tra le culture e sulla prospettiva universalistica del governo di Roma. In ciò il vero erede di Cesare non fu Ottaviano, bensì Antonio. Cesare fu il fondatore dell’impero in quanto prospettiva di monarchia sacra e in quanto visione di superiore giustizia tra le genti. Un messaggio politico esaurito? A quanto pare, non proprio: anzi, sembra che esso si rinnovi di continuo, sia pure con tutti i rischi di caduta nella retorico o nell’utopia. Cesare rimane un modello unico e ineguagliato.
Non è affatto strano che tutte le generazioni sentano il bisogno di misurarsi sulla sua figura e la sua opera.
«Avvenire» del 17 settembre 2009

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