02 settembre 2009

Il club dei critici snob non conosce la bellezza

I «pezzi grossi» della letteratura contemporanea provocano soltanto delusioni
L'ossessione materialista di Roth: un espediente retorico, lui stesso non ci crede
di Alessandro Piperno
La lezione di Daniel Mendelsohn contro il «nichilismo». Le recensioni Che noia! Il tono pedestre, le pagelle dei promossi e dei bocciati, per non dire dello stile corrivo, dei riferimenti rifritti, dei riassuntini della trama da cui persino l' Iliade uscirebbe a pezzi. Si sono ridotte a uno scrutinio da scuola media
Che noia le recensioni! Il tono pedestre, le pagelle dei promossi e dei bocciati. Per non dire dello stile corrivo, i riferimenti rifritti, i riassuntini della trama da cui persino l' Iliade uscirebbe a pezzi. Forse la ragione per cui la critica non tira più è che è stata ridotta a uno scrutinio da scuola media. Mi ostino a considerarmi un irriducibile adepto del fan club Charles Baudelaire. Lui ti insegna che occorre utilizzare i libri per capire la vita e la vita per capire libri. E bisogna affezionarsi ai capricci della sensibilità, per sua stessa natura, settaria. In fondo, il valore di un manufatto artistico è legato alla sua capacità di farti pensare agli affari tuoi. La fedeltà bovina al testo, ai marchingegni narrativi, alle strutture sociologiche hanno reso la critica tediosa come le trasmissioni calcistiche nelle quali si fa un gran disquisire sulla differenza tra 4-3-3 e 4-3-1-2. Chiedo scusa per il tono sentenzioso e risentito del preambolo. È che sono felice di aver letto questo libretto di Daniel Mendelsohn: Bellezza e fragilità (Neri Pozza), scelta di recensioni scritte nel corso degli anni per la «New York Times Book Review». E di avervi ritrovato il brio e la causticità di cui la conversazione di Mendelsohn diede prova, quando, tempo fa, andai a intervistarlo nel suo studio-rifugio dell'Upper West Side. In Italia era appena uscito Gli scomparsi (Neri Pozza), libro entusiasmante per diverse ragioni: tra le quali la capacità di eludere il sentimentalismo in cui indulgono gli accorati romanzetti sulla Shoah scritti (di solito) dalla mano svenevole di qualche fanciullina israelita di buona famiglia. Negli ultimi anni ho avuto modo di incontrare diversi «pezzi grossi» della letteratura contemporanea, e qualche astro nascente. La maggior parte di questi incontri ha generato in me un'arbasiniana aspettativa messa subito in riga da una proustiana delusione. Ma devo dire che la conversazione di Mendelsohn risultò all'altezza della sua prosa: dottissima, suadente, ipotattica, profumata, piena di impeti e insofferenze. Che piacere ritrovare quella voce in un libro in cui Mendelsohn affronta, con lo stesso slancio privo di snobismo, autori, libri e film tra i più celebrati: da una bestsellerista per cuori semplici come Alice Sebold al sommo Philip Roth, da un polpettone indigesto come Troy a un grande maestro come Pedro Almodóvar. Queste sì che sono recensioni! Frutto di abnegazione, e d' un gusto per il dettaglio mediato da una severa formazione classicista. Capisci subito che lui, prima di mettersi a scrivere, ha fatto ciò che la maggior parte della gente che parla di libri sui giornali ha smesso da tempo di fare: ha studiato i recensiti e si è inventato un paio di suggestive idee. Ma capisci anche che tale encomiabile esuberanza sarebbe inutile se non fosse sostenuta da quella che mi sembra la grande ossessione polemica di Daniel Mendelsohn. Lui ce l'ha con il nichilismo. Lo odia al punto da opporgli un'idea moderna e nient'affatto estetizzante di bellezza. Lui crede nella capacità della bellezza di «dare risonanza e significato a quella minuscola parte dell' universo che è la nostra vita». E per credere a una cosa del genere ci vuole una muscolatura di cui, per esempio, l'autore di questo pezzo si sente sprovvisto. Lo stesso Mendelsohn, per dare conto di quanto estemporanee e intermittenti siano le epifanie di bellezza, cita una frase del grande Tennessee Williams: «Quando ci si trova davanti a un oggetto di vetro splendidamente elaborato, si notano simultaneamente due cose: la sua bellezza e la sua fragilità». A suo tempo, definii Gli scomparsi un capolavoro modernista. Ebbene, la lettura di Bellezza e fragilità mi conferma nell' idea di allora. Mendelsohn trae dai modernisti la smania di illuminare le cose sotto i riflettori dell'arte. Ed ecco perché qua e là, nelle pagine del suo libro, emerge la venerazione per scrittori sommamente raffinati come Henry James e Virginia Woolf. Ma anche un esagerato apprezzamento di opere minori: Brokeback Mountain di Ang Lee, The Hours di Michael Cunningham. Ed ecco perché c'è qualcosa in Everyman di Philip Roth che a Mendelsohn non piace. Lui contesta a Roth l'idea che il consuntivo della vita di un uomo qualunque sia la conta delle sue malattie e il modo grottesco in cui crepa. Per Mendelsohn l'ossessione materialista dell'ultimo Roth è un artificio retorico nel quale Roth è il primo a non credere, un postulato smentito dai suoi libri migliori, che trasudano tenerezza e nostalgia. Ma tale odio per ciò che non ha senso spiega anche perché Mendelsohn non perdoni alla Maria Antonietta di Sofia Coppola l'inconsapevolezza della propria responsabilità storica: «Essere così sventati da voler realizzare un film su Maria Antonietta che ignori il suo ruolo nella storia appare sorprendentemente ingenuo, sul piano intellettuale; è come voler realizzare un film su cosa significhi essere un artista in condizioni di indigenza e scegliere come protagonista il giovane Adolf Hitler». Il paragone è splendido, pieno di senso dell'umorismo. Anche se forse inappropriato. A ben vedere, la peculiarità del personaggio Maria Antonietta (e della corte da lei simboleggiata) è proprio il misto di inconsapevolezza e irresponsabilità che l' avrebbe condotta alla ghigliottina. Laddove, invece, è lecito ipotizzare che il requisito del giovane Adolf Hitler fosse un efferato precoce e lungimirante eccesso di autocoscienza storica. Detto questo, non apparirà strano che la battaglia di Mendelsohn contro il nichilismo contemporaneo trovi il nemico ideale in Quentin Tarantino. Il nocciolo della critica che Mendelsohn gli muove è questa: «Guardare i suoi film - Kill Bill più di qualunque altro - equivale a trovarsi chiusi in una stanza con un autore che, come tanti dei suoi personaggi, non riesce a smettere di parlare delle scene migliori di tutti i film che ha visto: un' esperienza che può rivelarsi divertente se condividete le sue manie, ma che in caso contrario rischia di trasformarsi in un abisso di noia». Così Mendelsohn si fa beffe dei tarantiniani irriducibili. Ma in tal modo, è come se, travolto e fuorviato dalla sua ricerca di senso, Mendelsohn non riuscisse a capire che quella offerta da Tarantino è una delle più immaginifiche favolistiche ironiche e a mio giudizio convincenti visioni del mondo contemporaneo, il quale ogni giorno di più appare un colossale e sconclusionato apocrifo tarantiniano. D'altro canto, è proprio l'idea dell'arte come rivelazione che permette a Mendelsohn di prendere seriamente Le benevole di Littell, libro che in America ha incontrato una triviale ostilità. Il saggio di Mendelsohn su Littell è importante per diverse ragioni: perché mette uno di fronte all' altro gli autori di libri sulla Shoah più significativi degli ultimi anni, i quali (come è stato notato in Francia) sembrano essersi spartiti i compiti: Littell facendo un ritratto del carnefice e Mendelsohn inseguendo le vittime scomparse. Inoltre Mendelsohn sembra la persona giusta per capire i riferimenti alla tragedia greca di cui il libro di Littell è infarcito, e denunciati dallo stesso titolo. Infine, benché Mendelsohn non nasconda alcune perplessità su Le benevole (soprattutto sulla credibilità del protagonista Max Aue), apprezza e comprende il tentativo titanico di Littell di restituirci la spaventosità del genocidio. Il che gli permette di difendere Littell dall' accusa di «pornografia» mossagli da alcuni incauti: «A mio avviso - scrive Mendelsohn - Littell potrebbe voler suggerire che, proprio perché siamo ormai avvezzi a vedere la malvagità nazista rappresentata in Letteratura e al cinema, ha avuto bisogno di violare nuovi tabù per costringerci a riflettere sul male». Insomma, la pornografia di Littell è funzionale alla ricerca di un senso (ancorché depravato), mentre quella di Tarantino è solo autocelebrativa. Per Mendelsohn si tratta di una differenza determinante, che gli consente di distinguere l' arte dall' immondizia. Che importanza ha se io non sono d' accordo? Ciò che conta è che tutto quello che Mendelsohn scrive risulti, alla fine, così interessante, e apra orizzonti così eccitanti.

Bellezza e Fragilità di Daniel Mendelsohn sarà in libreria da giovedì. Tradotto da Luca Briasco, è una raccolta di saggi critici pubblicati negli anni su diverse riviste (Neri Pozza, pp. 266, 22). Critico letterario, teatrale e cinematografico per alcune delle testate Usa più prestigiose, Mendelsohn è autore del caso letterario Gli scomparsi (2006), in cui racconta un viaggio sulle tracce dei suoi antenati uccisi dai nazisti. Il libro, bestseller negli Usa, è edito in Italia da Neri Pozza. Laureato in studi classici all' Università della Virginia e con un Ph.D. a Princeton, Mendelsohn insegna Letteratura al Bard College ed è autore di studi sulla storia della famiglia e dell' identità sessuale (The Elusive Embrace 1999), sulla tragedia greca e sulla letteratura (How Beautiful It Is and How Easily It Can Be Broken, 2008). È traduttore delle opere di Kostantinos Kavafis. Da gennaio 2010 sarà «Critic in residence» presso l' Accademia americana a Roma.
«Corriere della Sera» del 1 settembre 2009

Leggi il commento di R. Mussapi sull'«Avvenire» del 2 settembre 2009

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