29 settembre 2009

Il fascino del colore e la scultura «bianca»

Il cromatismo dell’impero contraddice Winckelmann e gli affreschi nelle case esprimono un’idea di eternità
di Maurizio Cecchetti
Il merito di questa mostra che si è a­perta nei giorni scorsi alle Scuderie del Quirinale sta quasi tutto in un’in­tuizione riguardo al modo di esporre la pittura della Roma imperiale come se si trattasse di pittura contemporanea. A volte la semplicità ha qualcosa di rivo­luzionario, cambia il modo di guardare ciò che, in fondo, è sempre stato sotto i nostri occhi. Gran parte delle opere e­sposte vengono dall’Archeologico di Na­poli, da Pompei, dai Musei Vaticani, dal Museo nazionale romano, dall’Anti­quarium, luoghi dove si può supporre che chi ama questo tipo di pittura si sia recato almeno una volta in passato e quindi possieda una memoria di cose 'già viste'. Ed ecco che allora il vederle insieme fa la differenza: soprattutto, la fa il modo di metterle l’una accanto al­l’altra. Va apprezzato il principio, oggi poco praticato da chi organizza mostre di studio, di esporre i materiali con un tono non elitario, anzi con quell’inten­to 'divulgativo' che nelle mostre più commerciali si affida a richiami sempre un po’ sopra le righe, gridati. Qui, ciò che grida, e grida di bellezza indicibile, è il cromatismo di molte opere, l’ele­ganza sublime della decorazione a cui il tempo ha conferito un fascino im­pressionistico, facendo di ogni opera un frammento di qualcosa che, come giu­stamente sottolinea nel catalogo (Skira) il curatore Eugenio La Rocca, ci è giun­to in dosi avare e spesso incomplete.
Va da sé che presentando le ragioni di questa mostra, vengano messe in cam­po questioni che non costituiscono più una novità negli sviluppi delle ricerche archeologiche e storiche sulla pittura ro­mana. Il primo luogo comune sfatato ormai da tempo è quello che poggiava su un errore di comprensione di Winckelmann, ovvero che la scultura classica, quella greca e poi quella ro­mana, fosse un’arte del bianco puro, te­ma fondamentale della poetica neo­classicista. In realtà, l’arte classica era policroma, non era un’arte soltanto ce­rebrale, ma anche sensuale. L’altro ste­reotipo, anche questo inflazionato da tempo, dell’imitazione e dell’assimila­zione dei modelli greci nella pittura ro­mana, e l’importanza di questa nel la­sciarci indirettamente traccia di qual­cosa che è scomparso quasi del tutto dalla faccia della terra. Anche questo luogo comune è stato ampiamente smontato e rimontato, e oggi si può di­re che l’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana avviene con un’au­tonomia 'semantica' che corrisponde, per certi versi, alla mutazione del signi­ficato che l’arte cristiana apporterà ai modelli e ai temi classici rielaborando­li dentro un’iconografia variata.
Il salto concettuale è quello che passa tra una cultura dove l’arte si specchia nel­l’idea di cosmos e una cultura che ha co­me punto di riferimento l’impero; ov­vero, la differenza fra trascendente e im­manente. Questo è un dato di fatto che gli stessi curatori anticipano già nel ti­tolo della mostra: Roma. La pittura di un impero. L’impero è una istituzione che racchiude una vasta e molteplice giurisdizione sotto l’autorità di una so­la figura, l’imperatore, che rappresenta al tempo stesso l’individuale e l’univer­sale, l’umano e il divino.
Ma quanto si guarda la pittura romana non si può fare a meno di pensare quan­to fosse elevata e quale ruolo avesse la committenza in questo processo 'poli­tico'. Perché è evidente che oltre il de­cus si coglie in quest’arte anche un’'estetica politica', categoria che ap­partiene piuttosto al linguaggio critico segnato dai totalitarismi, e nell’arte ro­mana ha ovviamente un significato completamente diverso da quello che diamo oggi a questa espressione. È da te­ner presente che molte opere che ve­diamo in mostra sono affreschi stacca­ti da muri di case patrizie, e la loro bel­lezza testimonia un’altissima conside­razione della casa, dell’abitare, ovvero l’idea di uno status, un grado di civiltà, che precede, sostanzialmente, i signifi­cati impliciti e simbolici dell’immagine. Straordinari gli affreschi sulle pareti del colombario di Villa Doria Pamphili, fat­ti di niente, qualche uccello e natura morta, evanescenti paesaggi, poche fi­gure mitologiche per un luogo funebre dove, in fondo, ci si trova proiettati in un orizzonte biancastro che sembra vo­ler negare alla notte il suo dominio. Cer­ti paesaggi sono quasi sogni, apparizio­ni, e posseggono una modernità e una vicinanza col nostro sentire che talvolta non si avverte nella più grande pittu­ra rinascimentale e barocca, troppo ca­rica di retropensieri. Così come gli af­freschi della Villa della Farnesina, quel­li dell’ambulacro e del triclinio che reg­gono ancora il contrappunto del bian­co e del nero, sono dipinti con colori ca­paci di esprimere dal proprio interno toni lattei, riflessi che competono con quelli dei marmi più preziosi e raffina­ti; osserviamo ornamenti filiformi e di misurata eleganza, quel poco che basta a ricordarci che la bellezza non è mai fa­ticosa, è minimale, e vive sul registro di elementari ma costanti rapporti di for­ma e di toni, di segni e di spazi. E que­sto diventa chiaro passando dalle gran­di decorazioni della Farnesina al picco­lo affresco delle Menadi danzanti su fon­do nero, si avverte insomma che, nono­stante il cambio di stile, esiste una com­pattezza nella visione estetica romana, che dice tuttavia quanto fosse chiara ai romani la 'funzionalità' della pittura nel collaborare a rendere l’immagine pubblica di Roma anche quando la sfe­ra d’azione del dipinto è strettamente privata. Essere impero significa questo, in fondo: un principio universale che tiene insieme le diverse parti, armoniz­zandole dentro un’immagine di gran­dezza e di eternità fondata sulla durata nel tempo e sul riconoscersi parte di un orizzonte di destino (la pittura ne di­venta, in un certo senso, il sipario). Quando si parla di imitazione e assimi­lazione di modelli greci, appare tuttavia chiaro che lungo i seco­li dell’impero le imagines maio­rum testimoniano (per quanto riguarda la scultura) l’evoluzione dal ritratto 'greco', cioè astratto e universale, al ritratto via via più realistico e fisiognomico, ma in definitiva concepito secondo ti­pologie espressive che lo rendo­no ancora assoluto pur apparte­nendo a un individuo preciso; infine, si approda ai ritratti del Fayyum, la regio­ne dell’Egitto bonificata dai tolomei dal­la quale sono riemersi durante gli scavi decine di ritratti funebri il cui elemen­to comune è la vitalità dello sguardo, co­me se l’oraziano «non omnis moriar» fosse già diventato, sotto l’influenza del cristianesimo, una promessa di resur­rezione. Ed è in quel momento che la grande pittura romana comincia a per­dere la sua valenza decorativa e va ver­so l’'individuazione', la ricerca dell’e­lemento particolare che sottrae le realtà singole, quelle umane in primis, all’o­rizzonte di finitudine pagana che aveva trovato nel culto degli avi la sua massi­ma estensione trascendente.
Roma. Scuderie del Quirinale: «ROMA: LA PITTURA DI UN IMPERO» (fino al 17 gennaio 2010)
«Avvenire» del 29 settembre 2009

Nessun commento: