19 settembre 2009

Stampa-show alla deriva

Parla il filosofo Adriano Fabris: «La serie degli attacchi personali mina alle basi la credibilità dell’intera informazione»
di Edoardo Castagna
« È la sindrome del 'muoia Sansone con tutti i Filistei'. Con Boffo si è cercato consapevolmente di minare alla base la credibilità di un giornalista: ma questo conduce alla guerra di tutti contro tutti, con direttori di giornali impegnati non a cercare la verità, ma a scovare i re­troscena – veri o presunti – della vita dei colleghi. Così è l’intera categoria a perdere credibilità; l’informazione diventa spettacolo e ognuno recita la sua parte nel gran teatro. È la morte del vero giornalismo». Secon­do Adriano Fabris, docente di Filo­sofia morale all’Università di Pisa e autore, tra l’altro, del saggio Etica della comunicazione, la deriva 'bar­barica' della stampa italiana negli ultimi mesi è la logica conseguenza di due premesse in azione già da tempo: «La prima è la sempre mag­giore spettacolarizzazione del­l’informazione, che 'funziona' sol­tanto se colpisce l’attenzione dando – appunto – spettacolo. Ma ogni spettacolo, per reggere, deve incu­riosire: e ciò che incuriosisce il gran­de pubblico è purtroppo ciò che sol­letica gli istinti più bassi».
E la seconda?
«La crescente trasformazione del­l’informazione da fine in sé a qual­cosa di strumentale ad altro. Ecco allora che viene meno la dignità stessa del giornalista, della sua fun­zione e della sua importanza. Oggi è questo ciò che l’Italia rischia di gio­carsi. La credibilità del giornalista è quella di una persona che non solo dice la verità – naturalmente letta dal suo punto di vista –, ma che si dimostra anche verace, che nel suo mestiere ci mette la faccia».
Quindi, cercare di fargli 'perdere la faccia'...
«...significa cercare di annullare la credibilità di ciò che dice, indipen­dentemente da ogni contenuto. Il calo delle vendi­te registrato dai giornali negli ul­timi anni dipen­de anche da questa deriva, anche se non è l’unico fattore».
Che cos’altro in­fluisce?
«La concorrenza di internet, che offre la possibi­lità di avere un’informazione più partecipata e interattiva».
Ma non c’è un problema di credibi­lità anche nella Rete, dove non si conoscono mai le reali credenziali di chi scrive?
«Certo. In effetti la situazione in cui ci troviamo è molto complessa. Ora, io non credo che sia imminente la pubblicazione dell’ultima copia car­tacea del New York Times, come pro­fetizza qualcuno, perché la storia della comunicazione cammina per aggiunte e non per sostituzioni. Tut­tavia anche l’informazione offerta dalla Rete non è esente da problemi. L’internet di prima generazione of­friva effettivamente al lettore la pos­sibilità di trovare anche notizie soli­tamente trascurate dalle agende tra­dizionali del giornalismo – per e­sempio quel che accade in Africa, cui soltanto Avvenire, tra i grandi quotidiani italiani, dà spazio. La Re­te ha svolto un certo ruolo di sup­plenza, ma al prezzo di delegare la selezione delle informazioni al navi­gatore. Con il web 2.0 le cose si sono ulteriormente complicate, proprio a causa dell’interattività che ha intro­dotto. È sempre più difficile effet­tuare il necessario controllo incro­ciato delle notizie, il vaglio delle fon­ti: cioè il lavoro proprio del giornali­sta, quello fatto andando diretta­mente sul luogo ad accertare i fatti».
Invece, le fonti usate nelle campa­gne degli ultimi mesi sono state spesso tutt’altre: lettere anonime, dicerie, pettegolezzi...
«Oggi siamo sommersi dalle notizie; ce ne sono troppe, vivia­mo un’over­dose di infor­mazione. Tut­ta messa sul­lo stesso pia­no: notizie vere e notizie false, notizie mezze vere e notizie che contengono appena un barlume di verità... Orientarsi è diffi­cile, anche per il giornalista, che tut­tavia spesso indulge a dar più peso alla propria lettura che al fatto origi­nario. L’interpretazione rischia di a­vere il sopravvento sulla verità per­ché – specie se costruita ad arte – nel supermercato dell’informazione di oggi facilmente prende il posto della notizia».
C’è chi pensa che sia a rischio la stessa libertà di stampa...
«Io temo che nel nostro tempo si giochi troppo con la parola 'li­bertà', stiracchiandola, frainten­dendola, riem­piendola con tutta la molte­plicità di signi­ficati che può assumere. No, non credo che la libertà di stampa sia in pericolo: o al­meno, non nel senso di avere la più ampia possibi­lità di scelta nel supermercato del­l’informazione. Un pericolo c’è, ma non è di quantità o di varietà: è di e­tica. Questa è oggi la cosa più im­portante da fare: rilanciare e rifon­dare con forza un’etica del giornali­smo. È una responsabilità comune: per questo stiamo lavorando al pro­getto di un Manifesto di etica del giornalismo, che speriamo di pre­sentare ufficialmente quest’autun­no in occasione dell’anniversario della fondazione dell’Ucsi, l’Unione cattolica stampa italiana».
Invece, non le sembra che si sia per­sa ogni distinzione di genere, con stampa scandalistica e quotidiani d’informazione che si rincorrono nello spiare dai buchi della serratu­ra?
«Sì, è anche di questo che si tratta oggi. Infotainment, informazione e spettacolo mescolati fino a essere indistinguibili, fino a perdere ogni distinzione tra verità e interpreta­zione, tra notizia e spettacolo. Certo, per rendere gradevole una notizia bisogna anche scriverla bene, con a­bilità retorica: ma la notizia, di per sé, non può essere occasione di in­trattenimento. Invece siamo ormai abituati alla spettacolarizzazione di processi e fatti di sangue... ritornano stranamente d’attualità le pagine di sant’Agostino sui giochi circensi».
«Avvenire» dell'11 settembre 2009

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