25 ottobre 2009

Chi più legge poesie come Ungaretti?

di Maurizio Cucchi
Tornare a Ungaretti fa sempre bene. Perché si può ripensare a un grande personaggio, e soprattutto perché si riscopre la vitalità della poesia, perché si riassapora il valore forte della parola. Un evento, dunque, la nuova edizione nei Meridiani Mondadori di «Vita d’un uomo», a cura di Carlo Ossola. È il libro che nella sua prima uscita aveva inaugurato la collana, è il libro che ripropone un autore classico, il poeta che più d’ogni altro si può considerare l’iniziatore della nostra lirica moderna, del nostro Novecento. Si torna a constatarlo, naturalmente, rileggendo «L’Allegria», dove la grande conquista di Ungaretti, della nostra poesia, consiste essenzialmente nell’aver risillabato lentamente la parola di fronte all’enormità del silenzio, nell’averle dato tutto il suo grande, umano peso rallentando la dizione, come lo stesso poeta aveva dimostrato nelle sue pubbliche letture. Già dal «Porto Sepolto», del 1916, Ungaretti mette in evidenza qualcosa di straordinario: la grande ricchezza di virtualità che è nella parola poetica, a differenza della parola usata nel normale discorso ­orale o scritto - della comunicazione. La parola, isolata nel silenzio, acquista un’ampiezza semantica che la frase, poi, inevitabilmente riduce, conservandone però importanti residui e alonature, conferendo di conseguenza al testo ulteriori strati, nuove aperture di senso.
Ungaretti ha così, come è evidente, ridisegnato anche i possibili percorsi metrici. Ha messo in crisi più di altri quelli codificati, ma poi, nel progetto interno alla sua poetica, sarà esplicito e decisivo il suo recupero della tradizione.
Un’avanguardia costruttiva e totale, la sua, e mossa in direzioni diverse. Infatti, il secondo capitolo della sua opera poetica, «Sentimento del tempo», è anche una sorta di grammatica di un’altra avanguardia, non più storica e neppure dichiarata, e cioè quella dell’ermetismo, dove la complessità del senso è affidata ad altre risorse: non più all’asprezza elementare dell’uomo che dalla tragica esperienza della guerra, come nell’«Allegria», deve comunque poter trarre qualche elementare sillaba di sopravvivenza, ma dalla realtà cangiante espressa nell’analogia, dove il senso conserva qualcosa di irriducibile e misterioso. Ungaretti ha inciso moltissimo scrivendo in fondo poco. Questa rinnovata edizione dei suoi versi, arricchita da un’ampia cronologia (curata dallo stesso Ossola e da Giulia Radin) e da una sezione di «Nuove ritrovate», non comprende neppure cinquecento pagine di versi. Sei libri, ognuno dei quali perfettamente legato a un disegno interno, o a un’esperienza precisa di vita, come nelle indimenticabili, emozionanti pagine del «Dolore», dove la potente elementarietà dell’opera d’esordio si riassapora nei termini di una limpida forza diretta capace di comunicare il senso della perdita e della morte. Non per niente Ungaretti stesso diceva che quello era il suo libro che più amava, «il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola». Ma, appunto, Ungaretti fu anche un grande personaggio, una figura che incarnava nel modo più autentico e rigoroso l’idea del poeta e del maestro. Chi ha avuto la fortuna di ascoltare le sue lezioni, mi dice che non può dimenticarle. Così come ci rimangono impresse le sue letture di poesia, dove la parola sembrava quasi masticata, e le sue apparizioni finali, con quegli occhi acuti come spilli, nel sorriso o nell’espressione della sofferenza, come l’austero, nobilissimo candore del suo volto.
«Avvenire» del 23 ottobre 2009

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