22 novembre 2009

Capitalismo: quale democrazia economica?

«Siamo certi che una concezione dell’economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è vero che proprio un sistema fondato su questi presupposti ha consentito le degenerazioni del 'supercapitalismo'?» «Il capitalismo trova il suo humus originario nella Riforma protestante, nell’idea della ricchezza come grazia, ossia nell’idea che i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna siano un segno della benedizione divina, un premio. Ma è giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico continui a ispirarsi a questo ethos di stampo calvinista e weberiano»
di Giovanni Bazoli
La visione liberale dominante, anche se afferma comunemente che vanno rispettati i principi di solidarietà e di sussidiarietà, ammettendo anche l’idea di una «democrazia economica», in realtà esclude che l’equità e l’uguaglianza rientrino tra gli obiettivi dell’attività economica, essendo questa rivolta a realizzare il profitto, con l’unico limite rappresentato dal rispetto dei vincoli posti dalle regole
La crisi, insieme economica e finanziaria, che si è prodotta a partire dalla seconda metà del 2007, è stata innescata da alcune cause prossime: una carenza normativa, dovuta non solo alla generale 'deregulation', ma anche ad alcune specifiche lacune legislative (basterà sottolineare che una serie di operatori finanziari – le banche di investimento, gli hedge fund , le assicurazioni – non erano tenuti a rispettare la rigida disciplina prevista per le banche commerciali); il conflitto di interessi, tra analisti e gestori all’interno delle banche d’investimento, e tra aziende e società di rating; l’uso spregiudicato della leva finanziaria (Lehman Brothers aveva un totale dell’attivo che arrivava a quasi trenta volte il proprio capitale); le modalità di retribuzione dei top manager, che spiegano condotte gestionali concentrate sui risultati di breve, talvolta di brevissimo, periodo.
Ma le cause ultime della crisi sono: 1) la finalizzazione dell’attività economica all’obiettivo esclusivo e assorbente del profitto; 2) l’asservimento del fattore lavoro alle esigenze stringenti del profitto; 3) il fatto che la crescita quantitativa della ricchezza stia avvenendo al prezzo di un’alterazione dell’ambiente naturale e di una compromissione delle sue risorse; 4) il rischio di alterazione della dialettica democratica, derivante dal controllo che i poteri economici possono esercitare sui gangli più delicati della formazione della volontà politica.
Se ci chiediamo infatti come abbia potuto presentarsi una tale concomitanza di fattori negativi, la risposta va data risalendo alla logica e alle caratteristiche del sistema, orientato alla massimizzazione del profitto nel breve periodo.
Nel corso del Novecento, prima del crollo del sistema sovietico, il magistero della Chiesa cattolica aveva richiamato con continuità alcuni principi fondamentali: la tutela del lavoro, il primato della persona umana rispetto alle esigenze della produzione, il dovere di ridurre le disuguaglianze economiche e sociali.
Dall’affermazione di questi principi era derivata una presa di distanza, espressa con accenti parimenti critici, sia dal sistema capitalistico sia da quello collettivistico.
Con l’enciclica Centesimus annus, caduto il sistema comunista, veniva riconosciuta l’efficienza dimostrata dal modello di libera economia di mercato e ricevevano pertanto piena legittimazione, oltre alla libertà d’iniziativa economica individuale, il ruolo del mercato e della concorrenza. Si apriva in tal modo la strada a una possibile riflessione critica sul sistema di mercato condotta, per così dire, al suo interno e quindi costruttivamente indirizzata alla sua correzione, più che alla sua confutazione.
Ora, con la nuova enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate , vengono puntualmente individuate le insufficienze e le criticità del modello di sviluppo economico adottato negli ultimi decenni. La nuova enciclica richiama, a distanza di circa trent’anni, la Populorum progressio e riprende l’approccio storico-umano dell’insegnamento sociale di Paolo VI, che anticipava una visione globale del processo economico.
I punti più importanti di quest’ultimo documento, che dimostrano come il Papa rilanci con la sua massima autorità le osservazioni critiche che abbiamo prima esposto, sono, a mio avviso, i seguenti: a) la denuncia dei limiti di un’economia globale totalmente asservita all’imperativo dell’incremento del profitto. Sul punto l’enciclica si esprime inequivocabilmente: «bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e cada nella tentazione di ricercare solo il profitto a breve termine». Occorre guardare alla «sostenibilità dell’impresa a lungo termine» e al suo «puntuale servizio all’economia reale». È il tema quanto mai attuale, seppure abusato e talvolta male interpretato, della responsabilità sociale dell’impresa: un punto chiave poiché pone l’accento sull’esigenza di una ispirazione morale dell’attività economica; b) l’affermazione che l’impresa deve soddisfare gli interessi non solo degli azionisti e dei manager, ma di tutti gli stakeholder, e anche della comunità in cui opera. «La gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento»; c) la dichiarazione che i canoni della giustizia devono essere rispettati durante lo svolgimento del processo economico e non solo dopo o lateralmente. «La giustizia – si sostiene nel documento – riguarda tutte le fasi dell’attività economica, perché questa ha sempre a che fare con l’uomo e con le sue esigenze. Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altri fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale». Ciò è condizione perché si realizzi «un’economia pienamente umana». Si tratta in definitiva di dar vita – così è detto esplicitamente – ad una «forma concreta e profonda di democrazia economica»; d) l’enunciazione del principio dello sviluppo sostenibile, dove la sostenibilità è esplicitamente intesa come dovere di rispetto dell’ambiente naturale. «Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera»; e) la richiesta di una nuova riflessione sulla connessione inscindibile tra diritti e doveri. I diritti individuali svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono.
Tutti i punti qui richiamati conducono il Pontefice a formulare un’esortazione. È l’invito a «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo».
Quale ascolto troveranno questi rilievi dell’enciclica, così aderenti alle problematiche e alle emergenze della situazione che viviamo? E soprattutto quale seguito potrà avere l’invito che il Papa rivolge a tutti gli uomini di pensiero per una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini?
Le interpretazioni che gli economisti hanno dato della crisi – da pochissimi di loro prevista – possono essere ricondotte a due schemi di lettura.
Secondo il primo, si tratterebbe di una fase fisiologica di natura ciclica, destinata come altre verificatesi in passato a risolversi da sola. Il sistema avrebbe in sé stesso la capacità di riassorbirla. Non occorrerebbero quindi interventi correttivi, se non marginali.
La seconda e prevalente interpretazione è quella che riconosce invece la gravità eccezionale della crisi e sostiene che per farvi fronte si debba intervenire con un drastico ampliamento e rafforzamento delle regole.
Io credo, per contro, che nessun intervento sulle regole rappresenterà un rimedio adeguato, se non sarà accompagnato – come appunto l’enciclica suggerisce – da un ripensamento profondo sul ruolo e sulle stesse finalità dell’economia di mercato: ossia sul modo di dar vita a una vera democrazia economica.
La concezione dominante, di impronta liberale, distingue la fase della creazione della ricchezza da quella successiva della sua distribuzione.
All’economia spetterebbe il compito di produrre la ricchezza, alla politica il compito di riequilibrare la società – con misure fiscali, assistenziali, ecc. – secondo principi di equità e solidarietà. Da una parte, dunque, ci sarebbe l’economia, intesa come territorio riservato al dispiegarsi di iniziative indirizzate alla crescita e all’arricchimento (prima di tutto individuale e, di riflesso, generale); dall’altra, la politica, indirizzata a realizzare gli obiettivi della democrazia: socialità, solidarietà, uguaglianza.
Un autore americano ha suggestivamente proposto di tradurre questa visione nella dimensione personale e individuale di ogni uomo, giustapponendo nella stessa persona l’homo oeconomicus (investitore e consumatore) al cittadino e denunciando il pericolo che finisca per prevalere l’ homo oeconomicus (Robert B. Reich, Supercapitalismo, Fazi, 2008). In tal modo si corre il rischio che la politica e la democrazia vengano sacrificate alle ragioni dell’economia, in qualunque modo questa sia regolata.
Elemento cardine di ogni sistema democratico è il principio dell’uguaglianza: da intendere, ovviamente, non come presupposto, bensì come scopo da perseguire. «Non è che gli uomini siano uguali. L’uguaglianza è un punto d’arrivo: è un dovere da compiere» (Norberto Bobbio, Quale democrazia?, Morcelliana, 2009).
Ma a questo punto c’è da chiedersi se il compito di perseguire l’uguaglianza – che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d’essere della democrazia – spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l’attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l’efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell’equità e della giustizia.
È intorno a questo cruciale quesito che si impone un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. Appartiene alla migliore scuola di pensiero liberale la posizione di chi propugna il principio dell’uguaglianza dei «punti di partenza», ossia la legittimità di interventi pubblici volti a perseguire tale uguaglianza, considerata come il necessario presupposto per un corretto dispiegarsi della competizione economica e della logica di mercato. (Ed è molto significativo che la traduzione giuridica più rispondente a questa visione dell’economia si trovi nella Costituzione italiana, che all’articolo 3 attribuisce al legislatore il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»).
Tuttavia, la visione liberale dominante, anche se afferma comunemente che vanno rispettati i principi di solidarietà e di sussidiarietà, ammettendo anche l’idea di una «democrazia economica», in realtà esclude che l’equità e l’uguaglianza rientrino tra gli obiettivi dell’attività economica, essendo questa rivolta a realizzare il profitto, con l’unico limite rappresentato dal rispetto dei vincoli posti dalle regole.
Io penso invece che l’economia abbia indubbiamente come fine primario quello della creazione della ricchezza e del miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, ma debba farsi carico anche delle ragioni dell’equità e dell’uguaglianza. Questo è il Rubicone da attraversare.
«I canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente»: sono le esatte parole dell’enciclica che abbiamo prima richiamato. Ne deriva che le regole devono servire a garantire anche nello svolgimento dell’attività economica entrambi i fondamentali valori da cui dipende la vita democratica di una società: la libertà e l’uguaglianza. Questo dev’essere riconosciuto come «un principio 'strutturante' della convivenza umana anche in ambito economico» (Ernst-Wolfgang Böckenförde, L’uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati, in «Il Regno», 10/2009).
La libertà di iniziativa economica, come il diritto di proprietà, appartiene alla sfera dei diritti inviolabili della persona umana. Ma il primato della libertà sull’uguaglianza non può essere assoluto, neppure nell’ambito economico. Si profila altrimenti, come inevitabile, quella deriva utilitaristica, orientata alla ricerca esclusiva del profitto e dell’arricchimento individuale o aziendale, che nessun intervento successivo può essere in grado di riequilibrare. Il grande problema che le regole dell’economia devono risolvere è dunque quello di contemperare la tutela della libertà con quella dell’uguaglianza. Si tratta di una condizione imprescindibile perché si instauri davvero una «democrazia economica».
Nuove regole sono necessarie. Ma, a parte la considerazione che nell’economia globalizzata nuove regole esigono assolutamente nuovi modelli di 'governance globale' (tema di cui non mi posso qui occupare), la correzione dei difetti e delle distorsioni del capitalismo, evidenziati dalla crisi che stiamo vivendo, non può esaurirsi in una questione di regole, perché queste ultime rimandano necessariamente a una nuova antropologia.
Nel 1985 il cardinale Ratzinger, in una conferenza intitolata Chiesa ed economia. Responsabilità per il futuro dell’economia mondiale, affermava: «Per la divisione avvenuta nell’era moderna tra il mondo soggettivo e quello oggettivo, sembra che le due sfere non possano toccarsi. Eppure bisognerebbe proprio arrivare a farle toccare, a far sì che tutte e due si incontrino senza mescolanza e senza divisione» (testo riportato da Avvenire il 28.12.2008).
Non basta ricercare le soluzioni tecnicamente e giuridicamente più appropriate, se nello stesso tempo non si procede a formare una coscienza degli uomini d’impresa, dei manager. Ed è stato giustamente osservato che non si vedono tanti investimenti nella costruzione delle coscienze, nello sviluppo dell’antropologia.
La grande sfida da affrontare, in definitiva, è quella di superare la supposta neutralità dell’economia. Alla base del sistema capitalistico che ha dominato la scena negli ultimi decenni si trova l’assunto teorico che ogni uomo, quando opera come homo oeconomicus, è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l’interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme. Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra homo oeconomicus e homo politicus che risulta in evidente contraddizione con l’inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell’agire economico. L’integralità dell’uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società.
Non è quindi sufficiente ridurre, con l’adozione di nuove regole, gli spazi di libertà dell’agire umano. Occorre che l’operatore economico avverta, anche nell’esercizio della libertà e dei diritti che gli competono, la propria responsabilità di 'cittadino', cioè di membro e protagonista della comunità democratica. La realizzazione dell’interesse particolare (personale o aziendale che sia) va coniugata con quella dell’interesse generale. In altre parole, l’interesse generale – che può anche essere definito 'bene comune' – dev’essere sempre l’orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uomini d’impresa compiono anche nella sfera di libertà individuale che è loro riconosciuta.
Qui entra in gioco l’ethos religioso. Il linguaggio religioso ha infatti la capacità di custodire ed esprimere delle 'ragioni' che il discorso pubblico non può ignorare. In uno Stato liberal­democratico è giusto «che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile» (Joseph Ratzinger - Jürgen Habermas, Etica, religione e stato liberale, Morcelliana, 2008). Ed è proprio a questo proposito, cioè nell’ambito di una riflessione su quelle che sono le radici culturali e religiose del sistema liberale e capitalistico, che si pone, a mio avviso, un ultimo interrogativo.
Il capitalismo, com’è ampiamente noto, trova il suo 'humus' originario nella Riforma protestante, nell’idea della ricchezza come grazia, ossia nell’idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio. Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano.
Certamente l’ipotesi di un’economia affrancata dall’egoismo risulterebbe astratta e utopica, perché la motivazione dell’agire economico è sempre data dall’interesse individuale al miglioramento delle proprie condizioni di vita, cioè al proprio arricchimento. La storia dimostra che i sistemi economici che mortificano l’incentivazione personale sono destinati a fallire. E d’altronde nessuno può negare che si tratti di tendenze e aspirazioni individuali che sono scritte nel Dna umano. Come nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori. È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione. Siamo certi che una concezione etica dell’economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici?
Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che proprio un sistema fondato su questi presupposti ha consentito le degenerazioni del 'supercapitalismo'?
Ripeto: la meritocrazia rappresenta certamente un fattore imprescindibile di promozione della comunità civile: un valore da contrapporre al disvalore dell’assistenzialismo. Purché il sistema non sia costruito attorno all’idea che i più bravi, i più forti, i più capaci meritino di essere premiati illimitatamente. È altrettanto certo che la concorrenza e la ricerca di efficienza sono regole inderogabili da seguire per la crescita economica e civile della società. Purché non diventino il metro adottato per valutare ogni attività umana. Il problema è dunque quello dei correttivi da introdurre, per evitare che il primato del merito e il principio del confronto competitivo finiscano per legittimare una radicalizzazione delle disuguaglianze.
Nei Vangeli, che manifestano una predilezione divina verso i soggetti più fragili e indifesi, il tema della tutela dell’uguale dignità di ogni uomo ha una priorità assoluta. Da questo discende l’impegno ad affrontare – il che non vuol dire pretendere di eliminare, ma almeno di attenuare – le condizioni di disuguaglianza esistenti nel mondo: anche di quelle 'naturali'.
Questo mi pare un punto chiave e per certi aspetti nuovo su cui desidero richiamare, in conclusione, l’attenzione. Le disuguaglianze nei 'punti di partenza' non riguardano soltanto i beni materiali, ma anche i talenti individuali (intesi come qualità di intelligenza, condizioni di salute, di famiglia, ecc.): talenti che sono distribuiti dalla natura in modo disuguale.
È per questo motivo, a mio avviso, che una visione antropologica direttamente ispirata ai Vangeli impone anche nei rapporti economici una maggiore attenzione alle condizioni che rendono gli uomini disuguali nelle cosiddette 'posizioni di partenza'. Una grande responsabilità viene quindi posta in capo agli operatori economici che intendano testimoniare maggiore coerenza e fedeltà alle prescrizioni evangeliche. Ma tutto ciò non dovrebbe valere solo per i credenti, perché l’ethos strutturale delle democrazie moderne include il riconoscimento nell’ambito politico e sociale del prossimo come persona e conseguentemente sancisce l’inscindibile correlazione tra diritti di libertà e doveri di solidarietà.
Il diritto di far valere i propri talenti deve dunque accompagnarsi inscindibilmente, anche in ambito economico, a inderogabili doveri di solidarietà: intesi in modo peculiare come doveri di rispetto, di tutela e di valorizzazione dei soggetti più deboli e svantaggiati. E questo è un principio che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori.
«Avvenire» del 22 novembre 2009

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