22 novembre 2009

C'è destra e destra

L'analisi poco morale, moralista e molto pasoliniana di Langone
di Camillo Langone
C’è destra e destra. C’è la destra grattacielara di Roberto Formigoni e Letizia Moratti, la destra in Chanel di Stefania Prestigiacomo, la destra alla moda omosessualista di Mara Carfagna, la destra opportunista e nichilista di Gianfranco Fini, la destra che entra negli antichi borghi in Suv neri e lunghi come carri funebri, sul sedile posteriore il labrador da pubblicità e il bambino con gli occhi azzurri pure quello da pubblicità, magari comprato nei laboratori della fecondazione eterologa o strappato dall’utero di una nuova schiava con due figli piccoli e il marito scappato con un’altra, la destra ingioiellata che invoca leggi severe contro scippatori e rapinatori ma a sentir parlare di pena di morte si ritrae come una lumaca nel guscio, perché l’Europa non vuole, la destra spaventata dai maomettani in preghiera in piazza Duomo a Milano che però il giorno dopo anziché a messa è andata al centro commerciale e al multisala, la destra che si commuove quando c’è l’inno nazionale e poi ordina champagne, la destra che non ha una lingua sua e per dire stranieri dice “extracomunitari” e per dire omosessuali dice “gay”, tale e quale la sinistra, la destra che invece di fare figli va in vacanza, che invece di leggere guarda la televisione, che invece di comportarsi virilmente va dall’avvocato, la destra delle villette a schiera, la destra che colleziona orologi, la destra che dice “weekend” e poi addirittura li fa, la destra che ci tiene alla tradizione e che la tradizione sarebbe l’albero di Natale in giardino e il panettone in tavola, la destra dei ristoranti di pesce di mare sul lago, la destra del tonno scottato e dello Chardonnay, la destra che per dire limetta dice “lime”, la destra che per dire ateo dice “laico”, la destra che dice “ok”, la destra che chiama Croazia la Dalmazia, la destra che manda il figlio unico a studiare all’estero, la destra che divorzia e si mette con le slave e le sudamericane, la destra che dice “centrodestra”, la destra che va alle mostre pensando che siano arte, che siano bellezza, la destra che a vent’anni punta alla laurea e a cinquanta alla pensione, la destra degli occhiali da sole firmati… Io con questa destra dall’egoismo infantile e senile, talpesco, cieco, con questa destra di ciucci presuntuosi, come si dice a Trani, con questa destra di furbi fessi non voglio avere nulla a che fare. Ho sempre sospettato l’esistenza di due destre ma la cosa mi si presentò in tutta la sua evidenza solo all’alba degli anni Zero, quando conobbi a Parma una giovane donna, benestante e politicante, eletta nelle liste di un partito che usurpava la nobile parola di nazione.
Bene, anzi male, quella femmina parmigianissima sfoggiava in contemporanea un foulard e una borsa Burberry, il quadrettato della perfida Albione che fino a quel giorno credevo disegnato in esclusiva per le signore rotariane della provincia più remota. Con uno sguardo capii che: 1) Parma non era più Parma (finita per sempre quell’eleganza peculiare, composta di motivi e colori che già nella vicina Reggio apparivano esotici); 2) le due destre non condividevano nemmeno più il guardaroba (da una parte la destra capace di pagare per pubblicizzare marchi alieni, dall’altra quella che non lo farebbe nemmeno se pagata). Poco dopo lessi “Di padre in figlio” di Marcello Veneziani e scoprii che Augusto Del Noce aveva pensato a una “destra morale” da contrapporsi alla “destra economica”. Fuochino, fuocherello: il filosofo cattolico era arrivato vicino alla fiamma senza però catturarla. Eviterò di criticare chi non può controbattermi e per giunta ha avuto un figlio, Fabrizio, che sfoggiando cachemire pastello e rombanti Ferrari è la caricatura della forma di destra contro cui si è battuto suo padre.
Da “destra morale” a “destra moralista” il passo è abbastanza breve e in poche mosse si finisce dalle parti della destra più demagogica e bavosa, che pur di evacuare il proprio risentimento è disposta a militare nello schieramento avverso, insomma la destra di Antonio Di Pietro e della sua Italia degli invidiosi. E poi a fare gli etici sono capaci in tanti, quasi tutti. Basta non credere in niente, o in varianti del niente come la Costituzione o la coscienza, e si può pronunciare “etica” con onanistico compiacimento, facendosela girare in bocca come un Brunello di Montalcino riserva 1988. La cosiddetta “etica laica” funziona solo negli editoriali, nella realtà non può reggere un condominio e figuriamoci un popolo. Che sostegno può offrire un qualcosa che a sua volta, è privo di fondamento? Il barone di Münchhausen scampa alle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli, che favola meravigliosa, forse anche troppo suggestiva se ai nostri più pensosi soloni, Eugenio Scalfari e Claudio Magris tanto per dirne due, è apparsa trasferibile nella vita quotidiana. Non esiste causa incausata che non sia Dio, né morale efficace che non sia religiosa, dove per morale efficace intendo un insieme di norme capace di vincolare senza dover mettere un poliziotto a guardia di ogni cittadino e un avvocato a guardia di ogni poliziotto.
Tornando a Del Noce inteso come Augusto, anche la definizione di “destra economica” è fuorviante. Come se l’altra destra fosse antieconomica, magari pauperistica. E’ sbagliato dare l’idea che da una parte esistano gli spiritualisti, poveri sognatori, e dall’altra i materialisti, gente pratica. E’ sbagliato concedere l’esclusiva della materia, della carne, a miscredenti che in quanto tali non sanno nemmeno usarla: solo chi ama il Dio incarnato può dare al corpo un grande valore. Nelle ultime righe ho nominato Dio due volte, non invano perché sto avvicinandomi al cuore di questo libro. La destra divina. Meravigliosa definizione ricavata da “Saluto e augurio”, poesia finale e perciò testamento di Pier Paolo Pasolini. Il poeta friulano-bolognese-romagnolo-romano la scrisse poco prima di essere ucciso, o di farsi uccidere (secondo la teoria che Giuseppe Zigaina ha formulato in alcuni libri affascinanti e piuttosto convincenti). Versi da brivido, dichiaratamente terminali: “E’ quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia…”. Versi che si concludono in modo ancora più esplicito, con un passaggio di testimone: “Hic desinit cantus. Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello…”. Scusate, ogni volta che arrivo a questo punto mi salgono le lacrime agli occhi. Adesso mi riprendo. “Prenditi tu questo peso, ragazzo che/ mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando/ avanti, scegliendo per sempre/ la vita, la gioventù”. Qui devo fare davvero molta fatica a non piangere.
Se nel Ventunesimo secolo c’è ancora qualcuno che considera Pasolini un autore di sinistra, è qualcuno che non lo ha mai letto. Un vecchio vizio, collocare gli scrittori in base al sentito dire. Antonio Tabucchi alla fine del Novecento inventò per i clienti delle librerie Feltrinelli un Fernando Pessoa sincero democratico. Lo scrittore portoghese era semmai il contrario, un sebastianista ovverosia un monarchico che mitizzava il re Sebastiano I e criticava il dittatore Salazar in quanto colpevole di avere instaurato un regime non abbastanza elitista, ma girare la frittata riuscì facile, coi lettori ignoranti e boccaloni che ci sono in giro: bastò pubblicare le opere innocue e seppellire nell’oblio i titoli minacciosi, innanzitutto il nerissimo “L’interregno. Difesa e giustificazione della dittatura militare in Portogallo” e poi “Messaggio”, visionario, quasi delirante nel suo patriottismo da febbre alta. Questo libro del 1934 contiene qualcuno dei versi più destrodivini che mi siano capitati sotto gli occhi: “Pieno di Dio, non temo ciò che verrà,/ perché qualunque cosa avvenga, non sarà mai/ più grande della mia anima”. E’ la descrizione di un uomo che riconoscendo di essere piccolo si innalza, sfidando la storia sotto l’usbergo del suo Signore. Con Pasolini l’operazione mistificatoria si presentò un filino più difficile, se non altro per la maggiore accessibilità dei testi. Perfino un critico letterario non troppo acuto come Asor Rosa, uno che d’estate va a Capalbio, sgamò la reale natura del nostro eroe: “Egli scambia se stesso, letterato decadente e palesemente conservatore, per uno scrittore progressista”. Solo che l’autore de “L’usignolo della chiesa cattolica” non si sbagliava affatto, lo sapeva benissimo di essere un reazionario e per questo sosteneva i comunisti, unica vera opposizione alla Democrazia Cristiana colpevole di aver favorito il boom economico e quindi la modernizzazione, la mutazione, la scristianizzazione.
In una fase iniziale il Partito comunista con la sua morale austera gli sembrò poter concedere qualche altro anno di vita all’amatissima arcadia friulana, al dialetto, alla civiltà contadina. Ben presto si rese conto che era un’illusione. Comunque Pasolini non sovrappose mai il comunismo, in fondo un’eresia cristiana, con la sinistra, che di cristiano non aveva nemmeno l’origine, e questa distinzione divenne plateale nel ’68 quando in occasione degli scontri di Valle Giulia prese le parti dei poliziotti contro gli studenti. Non voglio però descrivere la traiettoria intellettuale pasoliniana, mi limito al punto zenitale costituito dalla poesia-testamento che per un verso somiglia alla “Lettera Rubata” di Edgar Allan Poe: invisibile perché in mostra. Pasolinologi, pasoliniani e pasolinisti sembra che non l’abbiano mai letta, nonostante il suo valore di ricapitolazione, lascito e svelamento di una vita straordinaria, e nonostante le ripetute pubblicazioni. Io l’ho trovata all’interno di un libro in catalogo, “La nuova gioventù”, e pubblicato da Einaudi, non dall’ultima delle tipografie. Niente da fare, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Capisco che avendo di Pasolini una certa idea (sbagliata) a pagina 255 ci sia da rimanere traumatizzati. A fine volume e a fine vita ecco un congedo che ribalta la prospettiva, che illumina a giorno un passato in chiaroscuro. I versi di “Saluto e augurio” sono in friulano e in italiano (la traduzione è dell’autore che giustamente non si fidava dei traduttori) e inequivocabili: “Difendi, conserva, prega!”. Accidenti. “Difendere, conservare, pregare”. Insiste. “Tu difendi, conserva, prega”. Ripete tre volte la triplice esortazione, si capisce che gli sta molto a cuore e che teme l’ottusità dell’interlocutore, un giovane fascista anni Settanta, e dei posteri. Nella poesia c’è dell’altro, parole che smentiscono l’arruolamento tra le file del cattocomunismo o di un cristianesimo informe e protestantico. “Ma in Città? Ascolta. Là Cristo non basta. Occorre la chiesa.” (C’è Pasolini che si dichiara cattolico romano). “Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re”. (C’è Pasolini che si dichiara monarchico). Se non siete convinti andatevelo a leggere… Poi c’è la definizione che ho preso come gli staffettisti prendono il testimone, però senza quella fretta e non per vincere ma per portarlo un poco più avanti e trasmetterlo a chi verrà: “Destra divina che è dentro di noi”. Ecco, vorrei mostrare ciò che è dentro di noi, in prosa anziché in poesia, svolgendone le intuizioni e aggiungendovi del mio. Se “Saluto e augurio” è un manifesto io comporrò un manifesto e mezzo.
Che cos’è la destra divina? Pasolini scrive che è difendere, conservare, pregare. I primi due verbi sembrano sinonimi però “difendere” implica più impegno di “conservare”. E’ implicita una dose di rischio: se è necessaria la difesa significa che qualcuno sta perpetrando un’offesa. “Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie/ abbandonate. Difendi il prato/ tra l’ultima casa del paese e la roggia”: quello pasoliniano è il grido di un creaturale se non di un creazionista, di un uomo che rispetta ogni filo d’erba perché sa che di ogni filo d’erba non è proprietario ma usufruttuario, e che ne dovrà rispondere. Come si difendono il campo e la casa e il paese e la roggia? Non so Pasolini ma un santo concreto come Bernardo di Chiaravalle si preoccupa di lasciare libere le mani del difensore: “Quando uccide un malfattore, non deve essere reputato un omicida ma, per così dire, un malicida”. E con quali strumenti si attua la difesa?
Quando diventerò ricco (la narrativa necessita di ozio) scriverò un romanzo ambientato a Brescia con un protagonista amante della caccia e dei fucili, nel frattempo ritengo non siano indispensabili le armi da fuoco. Sono utili, certo, e sulle orme di Cesare Beccaria (altro pensatore frainteso) sono favorevole al loro libero acquisto, mentre in via subordinata ricordo la fionda di Davide e riporto i suggerimenti di almeno un paio di autori meno divini eppure non meno destri di san Bernardo: Nicolás Gómez Dávila (“La civiltà è un uomo armato di frusta tra animali famelici”) ed Ernst Jünger (“L’inviolabilità del domicilio si fonda sul capofamiglia che si presenta sulla soglia di casa brandendo la scure”). Più del calibro conta la buona volontà. Nella destra profana, nel centro accidioso e in qualche pezzo di sinistra non del tutto privo di senso della realtà la legittima difesa gode sì di una stentata cittadinanza ma viene intesa come diritto. Solo la destra divina la stabilisce in dovere. Soltanto l’imperio della legge, beninteso una legge divinamente fondata, può garantire l’ordine che protegge il debole, sostiene il povero, rassicura il vecchio, conforta il malato. L’anarchia può far comodo a vent’anni, specie se hai in tasca la carta di credito di papà.
A settanta oppure ottanta, in un ospedale pubblico, c’è solo da sperare che i regolamenti siano rispettati con scrupolo: che gli amministratori non siano corrotti, che in mensa non si riciclino cibi scaduti, che l’infermiera non tralasci i degenti per guardare la televisione, che il chirurgo non inserisca protesi difettose ai malati senza parenti influenti. “Nessuno è buono” dice Gesù Cristo. E’ pertanto divino, oltre che ragionevole, credere nel peccato originale e di conseguenza nell’educazione, nella civilizzazione, mentre è diabolico, oltre che stupido, confidare nel buon selvaggio. La destra divina sa che le colpe sono dell’uomo, non della società, e che l’inferno è pieno. Pensa che l’egoismo non sia un diritto e di conseguenza che divorziare non sia un diritto, abortire non sia un diritto, adottare un bambino se lesbiche non sia un diritto, parcheggiare sul marciapiede non sia un diritto, sfrecciare con auto e moto rumorose sotto le finestre di chi dorme non sia un diritto, pisciare sotto i portici di Bologna non sia un diritto, riempire i muri di scritte non sia un diritto, coprire le chiese di megaposter non sia un diritto, costruire un palazzo di sette piani in centro storico o sulla riva del mare non sia un diritto. Cattivi maestri fanno credere ai ragazzi che tutto sia loro dovuto, formando generazioni di frustrati siccome nella vita il dovere spinto fuori dalla porta dell’ideologia rientra immancabilmente dalla finestra sulla realtà.
A un ragazzo bisogna spiegare che nemmeno suicidarsi è un diritto: prima devi studiare la “Divina Commedia”, perché hai un dovere verso Dante, prima devi lavare i piatti, perché hai un dovere verso tua madre, prima devi innaffiare il basilico, perché hai un dovere verso il desco familiare, prima devi andare a trovare la nonna o il tuo amico ammalato e devi farlo in bicicletta, perché hai un dovere verso la città, e poi, e poi ne riparliamo. No, non solidarizzo con gli aspiranti suicidi, “solidarietà” è parola che mi causa il voltastomaco, profuma di tasse, ruberie e bugie, mi piacerebbe percepire la parola “fraternità” e il sentimento di essere fratelli, figli dello stesso padre. Ma perché la destra divina è più umana? Non perché più indulgente o sensibile ma perché orante. Se conservare e difendere è anche degli animali, penso allo scoiattolo che nella tana accumula noci per l’inverno e morde se qualcuno si intrufola per prenderle, pregare è un’esclusiva degli uomini. Gli scoiattoli non pregano. Io diffido degli uomini che non pregano: o sono presuntuosi o sono disperati, in entrambi i casi sono pericolosi perché capaci e incapaci di tutto. In particolare le donne che non pregano mi fanno impressione, più le guardo più mi appaiono bestie, mi sembrano grossi scoiattoli depilati.
E io che sono un uomo semplice, dall’orizzonte erotico limitato, non capisco la zoofilia. La crescente miscredenza trascina con sé un crescente vegetarianesimo, moderno surrogato dei digiuni mistici. Le signorine che per tutto l’oro del mondo non mangerebbero il macinato crudo di cavallo, specialità di Parma da me divorata con gioia e bramosia (venerdì esclusi), pensano di essere ultraspirituali. Errore, è come se volessero insegnare lo spirito allo Spirito: Dio incarnato mangia pesce arrosto (Vangelo di Luca 24, 41-43), non si limita alle verdurine. “Non sono un grande uomo, semplicemente credo in grandi idee” disse un presidente americano. La destra divina non è migliore perché rispetta il Decalogo, è migliore perché nel Decalogo crede. Il vitello è succulento e l’oro è scintillante, l’essenziale è mantenerli separati: il vitello d’oro oltre che abominevole è incommestibile, oltre che incommestibile è cannibale e questo risulta più flagrante oggi che al tempo del Sinai, nei nostri giorni in cui da ogni pulpito profano si intima all’uomo di inginocchiarsi di fronte alla Tecnica.
«Il Foglio» del 21 novembre 2009

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