23 novembre 2009

Davanti all’antica basilica è evidente il fallimento dell’arte contemporanea

Il Sacro Monte di Varallo. Giovanni Reale ed Elisabetta Sgarbi indagano sull’opera. Chi oggi saprebbe creare un capolavoro così? Nessuno. Pittori, scultori e performer puntano a stupire: non hanno più alcun senso del limite
di Giovanni Reale
In primo luogo, riflettiamo sulla natura e sulla portata di quella che abbiamo denominata «crisi dell’arte contemporanea». Per fare tali riflessioni, chiameremo in causa alcuni giudizi forniti da pensatori e da sociologi di alta classe, i quali non hanno paura di dire la verità, anche se per molti aspetti si tratta di una verità assai amara, e che quindi costa fatica sia a dirla sia a crederla. Tre sono i concetti-chiave che cercheremo di mettere in evidenza: a) l’arte contemporanea si è resa sempre più incomprensibile; b) nelle sue spericolate produzioni ha cercato spesso solo l’originalità al di là di ogni limite, e in molti casi si è pressoché autodistrutta; c) la ragione di fondo della crisi sta nello smarrimento del senso dei valori, e in particolare del senso del religioso, e quindi nel male del «nichilismo» che ha contagiato la maggior parte degli artisti.
a) Paul Virilio, che fu prima architetto e urbanista, poi sociologo ed esperto dei mass media e filosofo, è oggi in Francia - insieme a Jean Baudrillard - autore di libri volutamente graffianti e provocatori contro il preteso sistematico e grandioso «progresso» della civiltà contemporanea. Virilio scrive: «Gli artisti del Ventesimo secolo, alla maniera dell’anarchico e delle sue bombe artigianali, del kamikaze rivoluzionario o dei mass killer celebrati dalla stampa ad alta tiratura, sarebbero diventati posatori di bombe plastiche, fautori di turbe visive, anarchici del colore, delle forme, dei suoni, prima di diventare occupanti del museo degli orrori di una stampa spazzatura». E precisa: «Ben presto, come avrebbe sottolineato René Gimpel o, più tardi, Orson Welles, l’arte contemporanea non avrebbe potuto più fare a meno della compiacenza di quei critici che ci diranno che si tratta di arte, semplicemente perché l’arte sarebbe diventata irriconoscibile». Ed ecco come lo stesso pensiero viene espresso, in modo più misurato, da Nicolás Gómez Dávila in un aforisma: «A differenza dell’arte di altre epoche, l’arte attuale è inintelligibile senza l’estetica dottrinaria che la puntella». Ed ecco come in un altro aforisma, più graffiante, egli esprime una delle ragioni di fondo di questo fatto: «Idee confuse e acque torbide sembrano profonde». In effetti, molte volte le idee espresse dall’arte contemporanea sono appunto «confuse e torbide»; di conseguenza, occorre una dottrina estetica per trarne (non poche volte in maniera subdola) un qualche senso.
b) Ancora con aforismi di Gómez Dávila illustriamo il secondo dei punti prima indicati. In un primo aforisma, assai graffiante, dice: «Le arti stanno morendo di autofagia». In un secondo - veramente rivelativo del dramma in cui l’arte contemporanea si dibatte - dice: «La pittura moderna non è un capriccio, come pensa l’ignorante, è una tragedia». Jean Baudrillard rincara la dose: «La distinzione tra l’arte e le produzioni di immagini comuni, banali, è sempre meno netta. Il solo ad avere preso atto e a gestire con radicalità questa banalizzazione totale dell’estetica, ad essere passato dall’altro lato dell’estetica è Warhol. A mio avviso, all’infuori di lui, si ha a che fare con delle forme artistiche ed estetiche che sono più animate dalla disillusione che non da altro. Si ha l’impressione, cioè, che anche gli artisti non credano più all’illusione estetica, che l’illusione estetica sia morta, che stia gestendo solo la decomposizione del proprio strumento e modo di vedere. Morte dell’arte, già annunciata da Hegel molto tempo fa, scomparsa dalla dimensione estetica: tutto ciò è stato gestito durante, diciamo, un secolo e mezzo. Tutta l’arte moderna è la storia di una scomparsa, di una destrutturazione, di una decostruzione dell’arte. Ma adesso è finita, il processo è arrivato al di là del suo termine e siamo anche al di là della fine. Adesso non facciamo altro che riciclare le forme passate, ma il vero problema del passaggio oltre l’estetica è questo: che cosa c’è al di là dell’estetica? C’è ancora altra illusione che l’estetica?».
c) E veniamo al terzo punto. In che cosa consiste tale tragedia? Come già sopra dicevo, consiste nell’oblio dei valori che hanno le cose e soprattutto l’uomo. Si gioca con un’estetica della sparizione delle cose, e in particolare con l’annullamento del senso profondo dell’uomo e del valore della persona. María Zambrano - filosofa spagnola, allieva di Ortega y Gasset - ha spiegato bene questo punto: «Siamo nella “notte oscura dell’umano”, che si nasconde dietro la maschera, e il mondo è un’altra volta disabitato. Sono i paesaggi lunari: terre secche e biancastre, paesaggi di cenere e di sale. Spiagge gigantesche dietro la ritirata marina, vegetazione minerale, fiori calcarei e conchiglie, alghe informi, creature amorfe di un regno che non è la vita né la morte. Ed è anche il deserto, l’estensione senza fine.
E i residui dell’umano; oggetti consumati dall’uso: scarpe vecchie, spazzole senza setole, scatole irriconoscibili di cartone, tutto disfatto. Ed è quanto di più umano, perché finalmente ne reca l’impronta. Un’impronta che insegna e rende evidente l’eclisse e la tristezza, come se solo queste cose senza alcuna bellezza piangessero l’ospite partito». Si potrebbe parlare dell’«eclisse dell’umano», in seguito alla «morte di Dio» proclamata da Nietzsche: l’uomo, uccidendo Dio, ha ucciso anche se stesso. Michel Foucault scrive: «L’ultimo uomo è, a un tempo, più vecchio e più giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio è lui stesso che deve rispondere alla propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è destinato a morire; nuovi dei, identici, già gonfiano l’Oceano del futuro; l’uomo scomparirà. Più che la morte di Dio - o meglio nella scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa - il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore...».
Ancora la Zambrano scrive: «Vivere nella luce sarebbe stato l’anelito di tutta la cultura occidentale. “Luce da luce” è la formula più alta della teologia che esprime il punto d’identità fra la filosofia greca e la fede cristiana. Nella luce coincisero pensiero e religione cristiana, religione della luce viva e attiva in tutti gli aneliti e tentativi; nelle esperienze, nelle creazioni più disparate e persino contrarie, perché la divergenza di credo estetici non è mai giunta fino a questo inquietante periodo in cui si disfano le forme e il volto umano si nasconde. Eclisse dell’umano che si verifica anche nella vita. È la notte oscura dell’umano che somiglia al sottrarsi di una luce e di un logos nel quale non si trovano più altro che differenze, discernimenti; una ritirata e un retrocedere dal Dio della teologia alla ricerca del Dio che divora e vuol essere divorato». L’arte può uscire da questa grave crisi? Esiste una via d’uscita? A nostro avviso la via d’uscita non può essere se non quella del superamento del nichilismo e del relativismo imperanti con il ricupero dei valori perduti. Concludiamo leggendo una bellissima pagina di Eugène Ionesco, tratta da un suo Discorso di apertura del Festival di Salisburgo 1972, in cui sviluppava pensieri che convergono perfettamente con quanto sto dicendo.
Leggiamo la bella pagina contenuta nel finale del discorso, che contiene un messaggio veritativo e toccante: «Le nozioni di amore e di contemplazione non sono più neanche nozioni diventate ridicole, sono completamente abbandonate. L’idea stessa di metafisica, quando non anima le collere, suscita sogghigni. La crisi è incominciata da molto tempo. Forse a partire dal Diciassettesimo secolo, la cultura ha affrettato il proprio decadimento. È diventata sempre più umanizzante, invece di essere spiritualistica. Ci sono sorrisi di santi, di angeli e di arcangeli sui volti delle sculture che si trovano nelle cattedrali. Non sappiamo più guardarli. Gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo». Ecco una sicura via d’uscita: dobbiamo cercare di non rimanere prigionieri dalla gabbia in cui siamo rimasti chiusi, ricordandoci che si può guardare il cielo, come facevano gli autori delle cappelle dei Sacri Monti e dei pellegrini che le contemplavano.
«Il Giornale» del 23 novembre 2009

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