19 novembre 2009

La chiusura di una stagione

di Michele Brambilla
Cesare Battisti verrà estradato. Non dovrebbero esserci più dubbi perché il presidente Lula ha già detto che non si opporrà alla sentenza del Tribunale supremo federale. È una buona notizia. Intanto, per rispetto della giustizia: sarebbe stata una figuraccia, per l’Italia, vedersi negato un così elementare diritto.
E poi perché il personaggio in questione non ha fatto nulla per meritarsi la benché minima misericordia (giudiziaria, s’intende: quella del cuore non è affare né della magistratura né della politica).
Anche se non è bello infierire sugli sconfitti, non riusciamo a dimenticare che questo terrorista riciclatosi come scrittore della Gauche caviar si sia distinto, in questi ultimi anni, per il ghigno beffardo dell’impunito, per la spocchia, per il disprezzo mostrato nei confronti delle sue vittime, per i ripetuti ricatti, l’ultimo dei quali è stato l’immancabile sciopero della fame.
Resta lo sconcerto per il tempo perduto. È sconcertante, ad esempio, che il Brasile abbia potuto avanzare sospetti sul tipo di carcerazione che l’Italia avrebbe riservato a Battisti. Abbiamo tanti difetti, ma non quello di essere paragonabili, nel trattamento dei detenuti, al Cile di Pinochet o alla Cuba di Batista. Che poi certe illazioni siano venute da un Paese che fino a poco tempo fa «risolveva» il problema dei bambini di strada con gli squadroni della morte, rende ancora più grottesca la discussione che s’è protratta fino a ieri.
Ancor più incomprensibile è il tempo perduto nel disquisire sul vero status di Battisti: assassino o perseguitato politico? Ma quale perseguitato politico. Chi parla di processi-farsa non sa di che parla. Battisti è stato ritenuto responsabile di quattro omicidi. Quattro. Vogliamo pensare che i nostri magistrati - che avranno tanti limiti, ma che sul terrorismo hanno dato forse la miglior prova di sé - abbiano sbagliato quattro volte?
Certe pretestuose eccezioni si possono capire solo tenendo conto dei problemi interni - e di alcune relazioni internazionali - del Brasile di oggi. E tenendo conto pure - ahimè - della pressione esercitata da un certo mondo radical chic così attivo in tanti salotti buoni del nostro Paese e della Francia, dove Battisti ha trovato a lungo una complice ospitalità. Ma proprio per tutti questi motivi oggi è il giorno di riconoscere al governo italiano di essere infine riuscito a farsi rispettare, e alla giustizia brasiliana di avere infine fatto la sua parte.
C’è dunque da augurarsi che su questa ormai vecchissima vicenda - i delitti compiuti da Battisti risalgono a trent’anni fa - l’epilogo sia arrivato. C’è una sorta di maledizione che ha portato l’Italia - e solo l’Italia, fra i Paesi investiti dal Sessantotto e dai tragici anni che seguirono - ad avere ancora i conti aperti con quel passato. Oggi, anche se passerà quasi completamente sotto silenzio, è il quarantesimo anniversario della morte dell’agente di polizia Antonio Annarumma, ucciso a Milano da un tubolare di ferro lanciatogli contro da alcuni dimostranti in via Larga. È un fatto dimenticato, ma altamente simbolico per almeno tre motivi: perché fu il primo morto ammazzato in scontri tra polizia e manifestanti; perché accadde prima di piazza Fontana, e quindi manda in crisi, e non poco, lo schema secondo il quale la violenza di piazza fu un’inevitabile reazione allo stragismo di Stato; e infine perché oltre che il sangue cominciò a circolare quel giorno la tristemente famosa disinformazione per la quale la polizia era sempre cattiva e i dimostranti sempre buoni: si fece di tutto, contro ogni evidenza, per sostenere che Annarumma era morto in un incidente stradale.
Insomma dall’inizio di quella stagione tremenda sono passati quarant’anni. E siamo ancora qui a parlarne. L’Italia ha bisogno di girare pagina una volta per tutte, e l’estradizione di Battisti speriamo sia una tappa importante verso l’archiviazione, perlomeno, del terrorismo di estrema sinistra. Resta, e profondissima, la ferita delle stragi impunite. E qui è solo lo Stato italiano che può contribuire a fare chiarezza, alzando il velo su tanti segreti. Uno Stato che, come ha detto il presidente Napolitano, «porta su di sé il peso» della verità incompiuta.
«La Stampa» del 19 novembre 2009

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