25 novembre 2009

La scienza che s’inchina alla vita

di Viviana Daloiso
Vivere, ed essere considerato morto. Piangere, gridare, e non avere nessuno, là fuori, che sente, o lo crede possibile. Questo orrore è toccato a Rom Houben, l’uomo che da ieri racconta la sua storia a tutto il mondo con la punta di un dito, attaccata alla tastiera del computer. Una tomba per corpo, una madre instancabile a portarlo dai medici di ogni dove, su Rom nessuno aveva scommesso. La scienza aveva archiviato il caso: "stato vegetativo permanente". E quella cartella clinica, quella dicitura, erano bastate. Per ventitré anni.
Finché di mano in mano, di ospedale in ospedale, il verdetto è finito sotto gli occhi di un ricercatore tutto particolare, il neurologo belga Steven Laureys, uno di quelli che lo zoccolo duro del mondo accademico internazionale considera un po’ folle, forse anche troppo giovane (appena quarantenne com’è) per essere del tutto credibile.
Nella sua clinica di Liegi – all’avanguardia nello studio degli stati di compromissione di coscienza – Rom è stato sottoposto agli esami di routine: niente di troppo complicato, come ha spiegato lo stesso Laureys. «Semplici risposte a stimoli visivi, o motori». Per intenderci: segui la matita con lo sguardo, muovi la gamba destra, apri e chiudi gli occhi. Test fatti col paziente sul letto, senza macchinari. Gli stessi che a Rom erano già stati fatti in molte altre cliniche. Una sola differenza: a Liegi sono stati ripetuti. «È la variabile tra la Glasgow coma scale e la Coma recovery scale, due scale di metodo impiegate per effettuare diagnosi sui pazienti affetti da lesioni cerebrali – spiega lo stesso Laureys –. La prima, che è ancora la più diffusa e applicata nella fase acuta delle lesioni cerebrali, prevede che i test vengano effettuati una volta soltanto. La seconda, che ho personalmente integrato con delle modifiche, impone invece la ripetibilità dei test».
Così, se il primo giorno il paziente chiude gli occhi su richiesta, può essere una coincidenza, la cosa può essere sottovalutata o del tutto ignorata. Ma quattro o cinque giorni di seguito, no. E questa è stata la differenza tra la vita e la morte per Rom. O la "rinascita", come lui l’ha chiamata, perché «quando mi hanno sentito, si sono accorti di me, mi è sembrato come un parto, un venire alla luce di nuovo». Alla vita, per ricominciare, è bastato un medico che ripetesse un banalissimo test, un metodo scientifico che non si fermasse al "dogma" della prima risposta, la più facile.
Poi, certo, è arrivata la tecnologia. Rom è stato immediatamente sottoposto a Pet e risonanze magnetiche funzionali, che a Liegi come a Cambridge e in altre cliniche americane (ma non ancora in Italia) oggi vengono impiegate nello studio dei pazienti in stato vegetativo o di minima coscienza. E le risposte sono state ancora più chiare: altro che assenza di coscienza, l’uomo da ventitré anni si dibatteva in una beffarda declinazione della sindrome di "locked-in", che nel suo caso presentava caratteristiche a dir poco uniche: «Generalmente – spiega il fisico che affianca Laureys a Liegi, l’italiano Andrea Soddu, esperto proprio in risonanza magnetica funzionale – i pazienti in questo stato non presentano danni cerebrali, ma un infarto nel tronco encefalico che li rende del tutto incapaci di movimenti. Nel caso di Rom, invece, avevamo riscontrato danni cerebrali. Eppure lui c’era, era perfettamente cosciente, capiva e sentiva tutto quello che gli veniva detto».
L’emozione a Liegi – nel cuore del Belgio che ha detto sì all’eutanasia nel 2002 e in cui una media di 25 persone al giorno sceglie di morire nel caso di "coma irreversibile" – la conoscono bene: «Abbiamo avuto molti altri casi simili, e tutte le volte proviamo lo stesso senso di euforia – continua Soddu –. Scoprire segni di vita, e di coscienza, là dove gli occhi non li sanno leggere e persino la scienza li ha ignorati, toglie il fiato.
E cambia radicalmente la vita delle famiglie e dei pazienti che visitiamo: sapere di essere sentiti, per i pazienti trovare anche la minima via di comunicazione, basta».
Proprio come ha spiegato Rom, quando i medici gli hanno chiesto cosa pensava della qualità della sua vita (è destinato a rimanere sulla carrozzella e, probabilmente, a non riprendere mai più le sue funzionalità motorie): «La mia vita è bellissima. Adesso che gli altri sanno che sono vivo voglio leggere, parlare con gli amici, voglio approfittare della mia vita». Perché Rom la morte l’ha sperimentata ogni giorno, negli ultimi vent’anni, quando urlava e chiamava se le infermiere gli prendevano il polso, lo lasciavano andare e bisbigliavano «non c’è nessuna speranza», quando la madre lo accarezzava e lo imboccava col cucchiaio.
Come il suo, secondo Laureys ci sono dai 3mila ai 5mila casi ogni anno: «Persone che rimangono intrappolate in uno stadio intermedio, che vivono senza mai tornare indietro – spiega –. Persone su cui la scienza, in base a uno studio che abbiamo pubblicato qualche mese fa, sbaglia diagnosi nel 41% dei casi. E su cui è rischioso prendere decisioni se mancano informazioni il più possibile obiettive e corrette». A Laureys piace fare l’esempio di Galileo, che non avrebbe potuto scoprire tante cose sull’universo senza guardarlo attraverso la lente del suo cannocchiale: «Abbiamo bisogno di lenti, noi scienziati.
Di strumenti e tecniche sempre più affinate, di domande e spirito di ricerca mai sopiti. Questa è la vera sfida della scienza: non fermarsi, non dare mai nulla per scontato, non avere mai certezze indiscutibili».
Così la scienza "con le lenti" si è accorta della vita di Rom.
«Avvenire» del 25 novembre 2009

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