18 novembre 2009

Senza aldilà che fede è?

Il rapporto con la ragione, la ricerca comune di credenti e non credenti, la questione dell’anima e l’urgenza delle «cose ultime»: interviene il teologo Piero Coda
di Pietro Coda
La contrapposizione tra fede e ragione è un grande malinteso, dovuto al fatto che nell’epoca moderna esse sono state pensate come due princìpi separati: da un lato la fede, cioè il credere a verità imposte da un’autorità assoluta come quella di Dio, attraverso la mediazione della Chiesa; dall’altro la ragione, ossia la capacità libera e autonoma dell’uomo di indagare sulle verità che reggono l’universo e l’esistenza umana. In realtà, non è possibile credere senza che prima ci sia un pensare la credibilità di ciò che offre la fede e un volere assentire a essa. In caso contrario, la fede sarebbe in fin dei conti soltanto la passiva, pigra e supina accettazione di una credenza proposta dalla tradizione che viene dalla società in cui ci si trova a vivere. Scorgo due motivi all’origine di tale incomprensione. Da un lato, vi è stata quell’accentuazione intellettualistica, nella comprensione sia della ragione sia della fede, dovuta a una certa interpretazione dell’incontro tra il logos greco e la fede cristiana. Ragione e fede, hanno finito con il presentarsi e il giustificarsi quali forme essenzialmente differenti, e persino dialettiche, del conoscere. E se l’illuminismo, per risolvere questa dialettica, ha teso a sopprimere la fede dall’orizzonte della razionalità, Hegel ha pensato di salvare la fede introiettandola del tutto dentro la ragione. Dall’altro lato, è stato il principio dell’autorità, svuotato del suo originario significato – ciò che è proposto da Dio alla libertà per promuoverla – a provocare quella reazione emancipatrice che ha finito con l’identificare nella fede il nemico della libertà. Oggi le cose sono cambiate. E non soltanto per la ragione, che sperimenta la crisi della sua presunta assolutezza teorica e pratica, ma anche per la fede che – avendo ritrovato il senso della rivelazione come evento di Dio che si auto comunica – si è spalancata a una più integrale comprensione della propria identità e dinamica. Inoltre l’esito, peraltro diversificato sino a essere contraddittorio, dei principali filoni del pensiero filosofico moderno può paradossalmente rappresentare anche un guadagno. La caduta di una razionalità assolutizzata, così come delle ideologie totalizzanti, ha nuovamente dischiuso l’apertura dell’esperienza umana a ciò che la interpella da fuori, da Dio.
Credenti e non, dialogo fecondo
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la grande maggioranza di coloro con i quali ho avuto occasione di dialogare sulla questione di Dio non mettono in dubbio l’esistenza di un assoluto.
Piuttosto s’interrogano sulla sua figura concreta e sulla relazione che noi viviamo con lui e lui con noi. In questo orizzonte entra in gioco la questione del futuro definitivo, quella che in termini cristiani definiamo la « vita eterna » . In effetti, uno degli esiti della modernità è che, a partire da un certo punto del cammino del pensiero e dell’esperienza umana, è divenuto problematico comprendere come Dio sia presente nella storia. Il mondo classico era pieno di segni della presenza di Dio o degli dèi: mentre il mondo moderno sembra essere stato spogliato delle tracce del Divino.
Su questo hanno pesato certamente le scoperte scientifiche e l’affermarsi delle scienze sociali con la loro portata critica della tradizione e l’invito all’esercizio di una ragione adulta e autonoma, ma ha anche giocato il fatto che il cristianesimo stesso, a partire dalla sua radice ebraica, ha contribuito decisamente a una de-divinizzazione del cosmo. Ha fatto cioè percepire che il mondo è « altro » da Dio. Del resto, quella verità centrale del cristianesimo che è l’incarnazione, e cioè l’avvento di Dio che si fa uomo e pone la sua tenda in mezzo a noi, porta appunto l’uomo a un’altezza vertiginosa, mai prima d’allora immaginata. Il cristianesimo ha però offerto di concerto un guadagno fondamentale, che soltanto a fatica è emerso lungo il corso dei secoli: l’uomo, che è la sintesi del creato e la grammatica in cui Dio dice se stesso in Gesù, è chiamato a essere il figlio di un Dio che è Abbà, Padre. Da figlio adulto e maturo deve affrontare la storia, con libertà e responsabilità, sotto lo sguardo di Dio che – quando il cuore dell’uomo si apre – fa sgorgare in lui delle energie impreviste, una sapienza e una forza prima non sperimentate. È ciò che noi cristiani chiamiamo l’azione dello Spirito Santo. Questa – mi sembra – è una delle frontiere lungo le quali va riscoperta la presenza e l’efficacia di Dio nella storia e nel cuore dell’uomo: rendersi sensibili agli impulsi, alla luce, al soffio dello Spirito. Dal dialogo con chi non crede o crede diversamente ed è sinceramente in ricerca, colgo questo desiderio dell’esperienza dello Spirito. E sento purificata la mia fede: che viene spinta a essere più coerente, lucida e vera.
Mancuso sbaglia « solo » le risposte
Quello sull’anima e il suo destino è senz’altro un libro provocante, poiché solleva la questione di come articolare la verità cristiana con le scoperte della scienza e dell’autocoscienza contemporanea a proposito di una questione di vita o di morte per il futuro dell’uomo: un’istanza reale e urgente. Ma è l’architettura teoretica della proposta che sinceramente mi pare problematica, prima ancora delle tesi particolari che poi argomenta. C’è un problema di fondo che riguarda, per riprendere san Tommaso d’Aquino, il rapporto tra natura e grazia. L’assioma di Tommaso d’Aquino, « la grazia non distrugge ma presuppone e perfeziona la natura » , è più dialettico di quanto sostiene Mancuso. Per Tommaso la visione razionale è presupposta dalla visione di fede, ma non ne è il criterio ultimo di valutazione. La grazia perfeziona la natura non nel senso della semplice continuità, bensì nel senso sia del risanamento delle ferite che la segnano ( il peccato), sia della divinizzazione e cioè del suo gratuito compimento. Il rapporto tra natura e grazia si comprende soltanto a partire dall’evento pasquale di Gesù dove c’è rottura insieme a compimento.
Mancuso tende poi a sottovalutare la portata universale dell’evento di Gesù.
Dice di rifarsi alla tradizione metafisica dell’evento cristologico e parla di una teologia universale: ma l’universalità, dal punto di vista della fede, è radicata nella singolarità dell’evento di Gesù Cristo. In sostanza, il progetto di Mancuso di una rifondazione metafisica della fede consentanea alla ragione contro le timidezze e i formalismi della teologia postconciliare è più un’intenzione che un risultato. Personalmente sono convinto che soltanto all’interno di una radicale visione di fede si possa sviluppare una metafisica adeguata capace di articolarsi con le istanze sane della ragione. Certo, Mancuso mette il dito nella piaga denunciando un pensiero, laico e cristiano, che non è all’altezza della posta in gioco. Ed è vero che bisogna rimboccarsi le maniche.
« Novissimi » , rinnovare il linguaggio.
Lo scadimento di valore dei « novissimi » nella proposta pastorale della Chiesa è dovuto probabilmente a due fattori.
Innanzitutto, al disagio rispetto al modo esagerato in cui questa dottrina è stata spesso proposta in passato, come uno spauracchio moralistico per incidere sulla vita dei fedeli soprattutto mediante la presentazione terrificante della dannazione eterna. In secondo luogo, perché l’attenzione del nostro tempo, a partire dall’epoca moderna, si è spesso unilateralmente concentrata sulla dimensione temporale e terrena dell’esistenza, trascurandone l’aspetto definitivo e ultraterreno. È necessario senz’altro riprendere oggi in modo equilibrato e illuminato la predicazione riguardante la vita etetna. Ricordo che alcuni anni fa l’allora cardinale Ratzinger, parlando della nuova evangelizzazione in Europa, sottolineò che la riflessione sulla vita eterna, sull’immortalità dell’anima e sulla risurrezione dei corpi deve costantemente far parte dell’annuncio cristiano: poiché privare l’uomo della luce sul suo destino eterno vorrebbe dire colpire a morte il cristianesimo. In ogni caso occorre un linguaggio rinnovato, che non si fondi solamente sull’aspetto del giudizio. Il punto fondamentale che in riferimento alla vita ultraterrena possiamo derivare dal Nuovo Testamento è che il credente – vivendo in Cristo, cioè secondo il suo Spirito – e chiunque vive secondo giustizia si trovano già innestati nella vita eterna. Per cui il giudizio di morte o di vita, la partecipazione cioè al paradiso o all’inferno, sono già esperienze attuali nella nostra esistenza. Anche le dimensioni della purificazione, dell’ascesi, della partecipazione alle sofferenze altrui ­contemplate nella dottrina del purgatorio – esprimono un aspetto della partecipazione alla vita eterna nella logica della comunione che tutti già viviamo, vivi e defunti, sulla terra e in cielo, per e in Gesù.
«Avvenire» del 18 novembre 2009

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