19 dicembre 2009

Carta o schermo elettronico: che decidano i lettori

Il fenomeno e-book tra difese retoriche e fughe in avanti
di Alessandro Zaccuri
Ogni volta che si parla di e-book, sento un suono di campane. Non è un’allucinazione acustica, ma un ricordo. Primi anni Novanta, salotto di un amico esperto di hi-fi, sul piatto del giradischi c’è un 33 giri che riproduce – per l’appunto – un concerto di campane. Il padrone di casa mi spiega che non c’è modo migliore per mettere alla prova le capacità di un impianto. Balbetto qualcosa sull’avvento dei cd, ma l’amico è irremovibile: nulla, assicura, potrà mai eguagliare la sonorità del vinile. Aveva torto, come dimostra l’evoluzione della musica in digitale, dal cd all’mp3 e oltre. Ma aveva anche ragione, perché proprio nei nostri anni di file audio condivisi in modo più o meno selvaggio il vinile sta avendo la sua meritata riscossa. Fenomeno di nicchia finché si vuole, ma certamente significativo per gli ascoltatori più esigenti.
Insomma, per avere un’idea di quale potrà essere l’impatto degli e-reader (i dispositivi che, come Kindle e affini, promettono di ridurre la distanza tra la pagina di carta e il testo elettronico) sarebbe forse più prudente lasciar perdere gli intenditori e chiedere il responso di chi, pur senza possedere qualifiche particolari, i libri li maneggia. La convinzione dei bibliofili, in un certo senso, già la conosciamo: il libro tradizionale, erede del codex latino, è un impareggiabile strumento tecnologico, duttile, ergonomico e quasi a impatto zero (i best seller di Harry Potter viaggiano solo su carta riciclata…).
Magnifico da collezionare, oltretutto, e fonte inesauribile di sottigliezze bibliografiche. A decidere le sorti di ogni innovazione, però, non è l’avanguardia delle élites, ma la truppa dei consumatori semplici, quelli per cui il romanzo, una volta letto, rischia di trasformarsi in un ingombro che viaggia tra la camera da letto e il salotto, rischiando spesso di finire in cantina. È la situazione da cui parte uno studioso australiano, Sherman Young, che in un saggio intitolato 'Il libro è morto, viva il libro!' si domanda quale possa essere, in ultima analisi, l’apprezzabile differenza tra pagina e file, tra scaffale e hard disk. Concludendo un po’ a sorpresa che la differenza, se pure esiste, è sempre più sottile ed è destinata ad assottigliarsi ulteriormente.
Che una posizione così radicale provenga dal mondo anglosassone, dove per molti aspetti l’e-book è una realtà consolidata, non sorprende più di tanto. Ma anche nel nostro Paese almeno una parte dell’editoria professionale (manuali, regesti e repertori) ha ormai imboccato la strada della digitalizzazione. Un processo che, in una terra di lettori deboli come l’Italia, minaccia di procedere fra difese vagamente retoriche e discutibili fughe in avanti. L’idea di sostituire i testi scolastici con le rispettive edizioni elettroniche, per esempio, rischia di far scomparire completamente i libri dalle case delle famiglie che, per scarsa cultura o per modesta capacità economica, hanno minore dimestichezza con la pagina scritta.
Senza dimenticare che, come dimostrano le cronache provenienti dagli Stati Uniti, l’e­reader da un lato esalta la diffusione della stampa quotidiana, dall’altro rende ancora più problematica la sopravvivenza di numerose testate.
In ogni caso, la vera posta in gioco non sta tanto nell’affermazione di un supporto rispetto a un altro (carta contro schermo, per intenderci), quanto piuttosto nella comprensione di che cosa avviene, e con quali dinamiche, nell’esperienza della lettura. Quando avremo trovato una buona risposta, probabilmente, le campane torneranno a suonare.
«Avvenire» del 16 dicembre 2009

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