23 dicembre 2009

Vincere Prometeo con la solidarietà

Parla la filosofa Elena Pulcini: «Siamo dinanzi a una patologia, tipica della nostra era globale: l’individualismo spinto fino al delirio di onnipotenza»
di Antonio Giuliano
«Solo se noi stessi ci percepiamo fragili e bisognosi di cura possiamo farci carico dell’altro»
Elena Pulcini, docente di Filosofia sociale all’Università di Firenze, ribalta il tradizionale concetto di altruismo risalendo alle motivazioni interiori che dovrebbero spingere l’uomo contemporaneo a interessarsi dei suoi simili. È questo il motivo che ha ispirato il suo ultimo libro La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, pp. 298, euro 25), un libro denso di analisi e provocazioni salutari per il nostro tempo.
Professoressa, è realistico pensare a soggetti «fragili» in un’epoca in cui le conoscenze tecniche e scientifiche sono progredite come non mai?
«Ma è l’esperienza stessa dell’uomo moderno a infondergli un senso di fragilità. C’è stata un’età di grandi conquiste che ha originato un sentimento di onnipotenza. Però negli ultimi anni l’individuo ha perso il significato e lo scopo del suo agire e c’è il rischio che rimanga vittima dei suoi stessi progressi tecnologici. Il surriscaldamento del pianeta, la clonazione e i processi di manipolazione della natura e della vita sono un campanello d’allarme. E il delirio di onnipotenza può tradursi in una 'paura' da cui paradossalmente può scaturire un senso di responsabilità verso gli altri».
Perché allora è così difficile essere solidali?
«Siamo dinanzi a una vera patologia, tipica della nostra era globale: l’individualismo illimitato. Una radicalizzazione del mito di Prometeo. Dall’homo faber che si limitava a trasformare la natura siamo passati all’homo creator descritto da Günther Anders: l’uomo che preso dalla hybris, da una tracotanza prometeica, crea la natura, introduce processi nuovi (dalla bomba nucleare alle biotecnologie) che alterano le leggi della natura e schiudono orizzonti pericolosi per il destino dell’umanità. Parallelamente a quest’ansia di dominio si è sviluppata una degenerazione narcisistica, di ripiegamento passivo su se stessi e sul presente, in cui conta solo la propria immagine e il proprio successo. Il risultato è un soggetto animato da una vocazione all’espansione illimitata dei propri desideri, sordo e indifferente alle esigenze dell’altro».
Quali sono stati gli effetti sulla società?
«C’è stata un’evidente erosione dei legami sociali amplificata dalla globalizzazione: quanto più cresce la percezione che qualunque cosa accada ci riguardi da vicino, tanto più aumentano impotenza e insicurezza che incoraggiano la ritrazione narcisistica e l’indifferenza agli eventi del mondo e all’agire comune. Nel mondo globalizzato poi la perdita dei confini ha suscitato un bisogno anche legittimo di difesa della propria identità. Ma spesso questa esigenza si è tramutata in’ossessione identitaria che ha partorito nazionalismi e separatismi ovunque, anche nel nostro Paese. Il 'comunitarismo endogamico' è infatti l’altra forma patologica odierna, la tendenza ad assolutizzare le differenze, a escludere lo straniero e il diverso.
La risposta a sfide inedite come l’immigrazione che provoca insicurezza e paura, non può essere la chiusura. L’identità è meticcia sin dal suo nascere ed è aperta da sempre alla contaminazione».
Non crede che la frantumazione dei legami sociali abbia colpito soprattutto la famiglia?
«Certo. La struttura portante della società ha subito trasformazioni radicali. Adesso si tende a considerare famiglia anche quella formata da un solo elemento… E in una società che enfatizza i diritti a danno dei doveri è sempre più difficile per i genitori contenere l’aspirazione alla libertà dei figli soprattutto degli adolescenti, incapaci di accettare le regole.
Dall’autoritarismo dei genitori oggi abbiamo l’autoritarismo dei figli. È necessario trovare strategie alternative che facciano appello all’elemento interiore e affettivo più che all’autorità. Ma oggi tutti facciamo fatica a guardarci dentro… ».
In che senso?
«Da un lato la sindrome prometeica ci spinge a fare, produrre, possedere tutto ciò che è fuori di noi; dall’altro la deriva narcisistica ci porta alla ricerca del successo a tutti i costi e all’introversione che non ha nulla a che fare con un faticoso viaggio nella nostra interiorità. La psicoanalisi, per esempio, è uno strumento utile per sviluppare il dialogo con noi stessi, per rimuovere le nostre zone d’ombra.
E anche la fede, per chi ce l’ha, è un fondamento granitico importante. La verità è che abbiamo perso la capacità di far silenzio, così come ci hanno insegnato le comunità monastiche. Oggi tutto è gridato, dalla politica allo spettacolo, e i media ne sono il primo strumento di alimentazione. Il privato viene gridato in pubblico e manca la volontà di ascoltare».
Spetta innanzitutto ai politici prendersi 'cura del mondo'?
«Senza dubbio è uno degli ambiti sociali più influenti ma oggi specie in Italia è il settore in cui appare evidente la mancanza di questa preoccupazione.
Però stiamo parlando di un concetto universale. Dobbiamo tutti essere consapevoli della nostra vulnerabilità e riattivare quella 'paura' offuscata dal 'prometeismo' e dall’indifferenza narcisistica. Una paura per l’altro e non dell’altro. Solo così si apre la strada a soggetti solidali e responsabili. Non dimentichiamo che il concetto di cura coniuga nelle sue radici etimologiche sia la preoccupazione che la sollecitudine, lo 'sporcarsi le mani' per gli altri. Si tratta di riscoprire l’ 'essere in comune' come il tratto peculiare dell’umano e favorire così quello che Hannah Arendt definiva un 'nuovo inizio'».
«Avvenire» del 23 dicembre 2009

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