20 gennaio 2010

«Capolavorare» è ancora possibile: basta ribellarsi

s. i. a.
Se anche le analisi di Marcello Veneziani sulla fine del capolavoro fossero corrette, e in gran parte tristemente lo sono, io opporrei sempre ad esse i miei «sogni da pazzo o da bambino», e anche da ribelle. Nonostante gli anni che passano, non ho mai smesso di ribellarmi, anche a me stesso. Vietare e proibire sono verbi che non mi sono mai piaciuti. L’impossibilità per me è relegata al campo della vita fisica e materiale: non potrò mai correre i cento metri in meno di dieci secondi, non potrò mai comperare un grattacielo a Shangai. E allora? Nel campo della vita dello spirito, dell’immaginazione creativa, niente è impossibile. Nessun limite può essere messo alla volontà, alla visionarietà, all’energia trasfigurante, alla dedizione, alla speranza, all’amore delle forme visibili e dell’invisibile. Anche le peggiori condizioni storiche, sociali, antropologiche non legittimano una resa.
La condizione perché ci sia un capolavoro è quella di andare contro il proprio tempo nello stesso momento in cui lo si coglie nella sua verità più profonda. Questa esaltante contraddizione tra la volontà del singolo e la sordità delle cose, tra la chiarezza delle forme e il mistero che esse indagano, è all’origine di qualunque opera d’arte abbia varcato la sua epoca e sia passata, accrescendo la propria aura, ai posteri. Se Baudelaire si fosse arreso al canagliume della società parigina del Secondo Impero non avremmo I fiori del male: libro che, per inciso, è stato riconosciuto come fondamentale moltissimo tempo dopo. Se Melville si fosse arreso al grigiore di una vita da doganiere del New England, non avremmo Moby Dick, che, per inciso, i contemporanei ignorarono. E così via. D’Annunzio coniò il verbo «capolavorare». Geniale. E con la sua verve istrionica e precorritrice della società dei media riuscì a far prendere per capolavori ai contemporanei anche opere che manifestamente non lo sono. Ma alla fine qualche capolavoro ce lo ha lasciato.
È il senso di fine, di mancanza di speranza, di resa assoluta che mi sgomenta oggi per come è diffuso nella cultura italiana anche al di là delle sponde politiche in cui si esprime. Nessuna grande sfida, nessuna grande avventura è più possibile? Allora chiudiamo bottega. Lasciamo che tutto sia chiacchiericcio e rissa borgatara, esibizionismo di massa e piccole mode di mercato. Pare che alla maggioranza piaccia così. Lasciamo che la nostra società, e direi di più, la nostra civiltà collassi nella palude dell’insensatezza, della mancanza di futuro e di finalità ideali: prodromo a crisi più terribili di quella energetica e di quella ambientale. Perché il senso a una civiltà lo danno le grandi opere dello spirito. Se una civiltà non produce più grandi opere, muore. Se pensa di non poterne più produrre, è già morta. Per vivere, ogni epoca deve riconoscere la sua grandezza e la sua bellezza controversa e difficile, oscura e irraggiante. Mario Luzi, nella sua felice e prodigiosa vecchiaia, ha scritto capolavori di poesia. Se il grande romanzo latita in Italia è forse perché il nostro è il paese in cui i giovani autori più acclamati pubblicizzano impunemente la loro ultima opera come una «cazzata» e in cui ormai il 90% degli abitanti scrive gialli. Ma altrove si sono consolidate tradizioni di eccellenza romanzesca, e penso per esempio alla linea che va da Saul Bellow a Bernard Malamud, a Norman Mailer, a Philip Roth. Bisogna saper vedere l’eccellenza, tributarle gloria. Io, di mio, cerco di farlo. Ho la fortuna di essere amico di Gao Xingjiang, di Adonis, di Yves Bonnefoy. Tutti e tre hanno scritto capolavori: il Nobel cinese La montagna dell’anima, un romanzo verticale e sapienziale, il grande poeta arabo ha appena pubblicato da Guanda Storia lacerata nel corpo di una donna, poema drammatico che è una stupenda apologia della libertà femminile, Bonnefoy nel suo appartamento di Montmartre continua a inseguire l’assoluto della poesia. L’incontrarli, in Italia o a Parigi, mi conforta nell’idea che si può ancora puntare in alto. Capolavorare. Provarci, almeno.
«Il Giornale» del 20 gennaio 2010

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