29 gennaio 2010

Cavie umane

Sperimentare nuovi farmaci un «lavoro» da tempi di crisi
di Lucia Capuzzi
Negli Usa in aumento i volontari a pagamento in laboratorio. Con crescita dei rischi e un peggioramento della qualità. In Italia norme assai più rigorose
«Ero uno squattrinato stu­dente universitario. Poi, ho scoperto un modo per riuscire a pagarmi le spese e an­che qualche extra. Quale? Semplice, donare regolarmente il sangue». È cominciata in questo modo la 'car­riera' di Phil Maher, «donatore pro­fessionista ». Così si autodefinisce il trentaduenne sul suo sito (www.bloodbanker.com). Una sac­ca viene ricompensata con 40 dolla­ri. Con due alla settimana – di più la salute non consente – a fine mese si ha un incasso fisso di 320 dollari. Non è tanto, ma per le oltre sette mi­lioni e mezzo di vittime della crisi e­conomica negli Stati Uniti (dove il sangue viene 'pagato', a differenza dell’Europa), è pur sempre un aiuto. Non a caso, nell’ultimo anno, la pa­gina Web di Maher ha raddoppiato i contatti.
Niente, però, a confronto con le mi­gliaia e migliaia di richieste che i­nondano il sito di Paul Clough, www.jalr.com.Perché, mentre di do­nazioni non si vive, qui i sempre più numerosi disoccupati possono tro­vare consigli per costruirsi 'un’oc­cupazione alternativa': quella di lab rat . Che consiste – come spiega Clough – nel prestare il proprio cor­po alla scienza traendone il massimo profitto. Fino a farlo diventare un la­voro a tempo pieno. I lab rat – o gui­nea pigs come dicono altri – (lette­ralmente, 'cavie') sono i 'volontari sani' che sperimentano su se stessi un farmaco, prima che questo sia messo in commercio.
È la cosiddetta 'fase uno', la prima tappa del lungo viaggio dei medici­nali dal laboratorio al banco della farmacia. Ogni medicamento deve superare vari passaggi: sperimenta­zione su animali, su individui sani, su un campione selezionato di ma­lati. Questi ultimi si sottopongono con facilità ai test nella speranza che venga trovata una cura per alleviare le loro sofferenze. I cittadini in salu­te, invece, sono più restii. Gli esami sono sicuri – il protocollo, prima di passare all’uomo, è rigoroso – ma ri­chiedono tempo e implicano un cer­to fastidio. Per incentivarli, così, vie­ne riconosciuto loro un compenso. Una sorta di bonus per ammortiz­zare gli inconvenienti di prelievi di sangue, degenze in ospedale, lievi ef­fetti collaterali. Negli ultimi tempi, però, i colossi del farmaco Usa – per attrarre più volontari, mandare a­vanti le sperimentazioni e, dunque, immettere nuovi remunerativi me­dicinali sul mercato – hanno au­mentato le 'retribuzioni' Secondo una recente inchiesta del­la rivista New Scientist, si può arrivare fino a 300 dollari al giorno, per un totale di 34mila dollari l’anno, quan­to un impiego di medio livello in u­na società. Non solo. Spesso alcune aziende ricorrono a incentivi ag­giuntivi. Per testare una medicina contro i disturbi intestinali legati al viaggio, ad esempio, l’Intercell ha, di recente, offerto ai volontari una va­canza in Messico o Guatemala. Ai se­lezionati è stata proposta una par­tenza per il Sud America, a godersi il sole. Unica condizione: assumere, prima di viaggiare, il farmaco da spe­rimentare e sottoporsi, durante il soggiorno, a regolari prelievi di san­gue nella clinica indicata. Compen­si e regalie sono una calamita po­tentissima per chi è alla disperata ri­cerca di danaro. Come immigrati, carcerati, senza tetto. A cui, da oltre un anno, hanno cominciato ad ag­giungersi coloro a cui la recessione ha mandato in fumo i sogni e le oc­cupazioni. Sono diecimila secondo Clough gli americani che si guada­gnano da vivere in questo modo. Ma, in base a stime di vari istituti di ri­cerca, potrebbero essere almeno il doppio. E il loro numero aumente­rebbe di pari passo con il peggiora­mento della situazione economica. Il picco massimo si sarebbe avuto tra la primavera e l’inizio dell’estate.
Il fenomeno, però, mette gli ameri­cani di fronte a un duplice dilemma: etico e sanitario. Il peso della speri­mentazione ricade sulle categorie sociali più deboli che diventano 'ca­vie' per necessità e non per libera scelta. Oltre che ingiusto, questo è pericoloso. Perché chi si sottopone ai test solo per mantenersi, spesso, non rispetta le regole di sicurezza. Ovvero, non osserva il periodo di pausa obbligatoria tra uno studio e l’altro, il cosiddetto 'wash-out' – che dura in genere un mese –, mettendo a rischio sia la validità della speri­mentazione sia la sua salute. Altri, invece, non dichiarano i reali effetti collaterali che un farmaco produce per paura che la sperimentazione venga interrotta e il compenso ri­dotto. Secondo l’associazione Citi­zens for responsible care and re­search, tra il 1990 e il 2000, sono sta­ti denunciate 386 reazioni avverse causate da medicinali durante le sperimentazioni. Una cifra minima, che contrasta con gli effetti collate­rali registrati dalla Food and Drug Administration relativi ai farmaci di nuova approvazione. Nello stesso periodo, se ne sono contati oltre 17mila all’anno, di cui 800 gravi.
«Sono i rischi che si possono corre­re se il movente economico diventa l’unica ragione per sottoporsi ai te­st – dichiara Antonio Spagnolo, di­rettore dell’Istituto di Bioetica del­l’Università Cattolica di Roma –. Ec­co perché in Italia si cerca di punta­re sulla responsabilizzazione dei vo­lontari. Chi sceglie di testare su di sé un farmaco dovrebbe farlo avendo compreso il valore sociale del suo ge­sto ». Anche per questo, da noi, i com­pensi sono relativamente bassi: po­che centinaia di euro. Esiste, inoltre, un rigido controllo da parte dei co­mitati etici». Si tratta di organismi in­dipendenti che valutano i protocol­li di sperimentazione. Fino al 1997, potevano operare anche all’interno delle case farmaceutiche, ma con componenti esterni, a garanzia del­la loro indipendenza di giudizio, O­ra, la legge, in accordo con una di­rettiva europea, stabilisce che i Co­mitati etici siano istituiti e operanti all’interno di una struttura pubblica e, dunque,si trovano all’interno del­la Asl di competenza dell’azienda farmaceutica.
«Negli anni Novanta ho fatto parte di un comitato etico di una grossa a­zienda e posso assicurare che non ho mai subito pressioni di nessun genere», aggiunge Spagnolo. Anche negli Stati Uniti esistono comitati e­tici. Quello che manca – denuncia l’inchiesta di New Scientist – sareb­be, però, una certificazione statale sulla selezione dei loro componenti e un vero controllo sull’operato svol­to. Le strutture funzionano come so­cietà private chiamate dalle case far­maceutiche a pronunciarsi, dietro legale compenso, sui test che inten­dono fare. Il loro guadagno, dunque, dipenderebbe dalle stesse aziende che dovrebbero controllare. Diffici­le ipotizzare una effettiva libertà di giudizio.
«Avvenire» del 28 gennaio 2010

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