21 gennaio 2010

Da M. Hack e P. Odifreddi alla Russia bolscevica

di Francesco Agnoli
Vi sono personaggi che devono la loro fama non al proprio mestiere, quanto alla continua aggressività che dimostrano verso il cristianesimo. E’ solo grazie ad essa che trasbordano sui giornali e sulle riviste e che vengono interpellati di continuo, come oracoli, sugli argomenti più disparati. Mi riferisco in particolare a due volti noti della tv italiana: Piergiorgio Odifreddi e Margherita Hack.
Entrambi, oltre che “scienziati” a tempo perso e “vaticanisti” a tempo pieno, fanno parte della Uaar, l’agguerritissima associazione che ha ottenuto la sentenza di Strasburgo contro il crocifisso. Entrambi, come gran parte dei fondatori della suddetta associazione, hanno più volte rivelato la loro ammirazione per il comunismo. Odifreddi, inoltre, può vantare studi in Urss, al di là della cortina di ferro, laddove la Chiesa era perseguitata in nome del socialismo “scientifico”, e i suoi membri venivano sterminati, insieme ai proletari, ai borghesi, agli anarchici…da atei illuminati, e molto “razionalisti”.
Margherita Hack, invece, si distingue da anni per le sue battaglie progressive, avendo firmato nel 1971, sul settimanale l’Espresso, un appello contro il commissario Calabresi, in cui egli compariva come “torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”, ed essendosi candidata più volte nel partito dei Comunisti Italiani, anche di recente. Pensavo proprio a questa provenienza ideologica leggendo in questi giorni alcuni loro articoli, dedicati, come sempre, ai presunti ostacoli che la Chiesa avrebbe opposto alla scienza, e scritti con la consueta abilità propagandistica di marca bolscevica.
Si sa infatti che per 72 anni, nella Russia sovietica, vennero composti commedie e racconti sull’Inquisizione, sul caso Galilei e su mille altri peccati veri o presunti del cristianesimo, senza mai che qualcuno potesse nel contempo interrogarsi sulla bontà o meno dei gulag, delle grandi purghe o di altri similari stermini di massa. I comunisti vecchi e nuovi sanno infatti molto bene quanto sia importante controllare le parole, impadronendosi delle più fascinose e suggestive, e quanto sia del pari essenziale fornire, per la immancabile vittoria futura, una opportuna visione del passato: “la storia è la politica proiettata nel passato”, scriveva infatti Pokrovsky, e chi la controlla, ha in pugno il presente.
Per questo nell’orbe sovietico non soltanto i libri di studio erano quelli decisi dal partito, ma persino le vicende del partito stesso venivano scritte e riscritte, di volta in volta, dal vincitore di turno. Eppure, anche “scienziati” prestati alla politica ed alla storiografia come i due personaggi sopra citati, dovrebbe sapere, nel 2000, che la scienza, come l’arte, la letteratura, la filosofia, la musica, ecc., patirono come non mai proprio sotto i regimi comunisti. Lo ricordava cinquant’anni fa un evoluzionista ateo come Julian Huxley, allorché, nel suo “La genetica sovietica e la scienza” (Longanesi, 1952), raccontava come i sovietici attaccassero l’astronomia contemporanea, la teoria della relatività, ed “il concetto di un universo finito, ma in corso di espansione”, in quanto “la moderna teoria astronomica è il principale nemico ideologico dell’astronomia materialista”!
Per l’Accademia delle scienze russa Einstein, Bohr ed Heisenberg erano colpevoli di “oscurantismo” e di “metafisica borghese”, mentre la genetica di Gregor Mendel veniva ripudiata perché “razzista”, “mistica” ed “antiscientifica”! Ad essa venivano contrapposte le strampalate elucubrazioni di Miciurin e Lysenko, considerate in perfetto accordo col marxismo materialista; nel contempo gli scienziati che appoggiavano le teorie “eterodosse” venivano costretti all’abiura, perdevano il posto, finivano in Siberia o sparivano per sempre nel nulla (Huxley ricorda Vavilov, Levit, Ivanov, Dubinin, Gause, Schmalhausen, Jebrak, Sasciarov...).
Rievocati brevemente questi fatti, vorrei raccomandare ai lettori interessati un bellissimo libro che può fungere da antidoto alle posizioni dogmatiche di quanti vorrebbero desumere dalla scienza, come una conseguenza inevitabile, il loro roccioso e ideologico ateismo. Mi riferisco allo splendido lavoro di Roberto Giovanni Timossi, “L’illusione dell’ateismo” (san Paolo): non un libello polemico, senza serietà di analisi, come i lavori dei due autori citati, ma un trattato veramente scientifico e argomentato di storia e di filosofia della scienza. Da esso mi limito a trarre alcuni concetti espressi da scienziati veri: James Clerk Maxwell (1831-1879) e Max Planck (1858-1947).
Il primo, grande protagonista degli studi sull’elettromagnetismo, era anche un fervido credente, un assiduo lettore dei Padri della Chiesa, e sosteneva che vi è per la scienza un limite invalicabile rappresentato dall’origine della materia. Lo scienziato può infatti studiare e comprendere il “meccanismo interno della molecola”, ma “risalendo lungo la storia della materia…la scienza è incompetente a ragionare sulla creazione della materia dal nulla”.
Analogamente per Planck, padre della fisica dei quanti, “la scienza conduce ad un punto oltre il quale non ci può più guidare”, ma oltre il quale l’uomo deve comunque innalzarsi: “non è certo un caso-scriveva- che proprio i massimi pensatori di tutti i tempi siano stati anche nature profondamente religiose”, perché in verità “solo coloro che pensano a metà diventano atei; coloro che vanno a fondo col loro pensiero e vedono le relazioni meravigliose tra le leggi universali, riconoscono una Potenza creatrice”.
«Il Foglio» del 14 gennaio 2010

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